LA TORTURA FA PARTE DEL PAESAGGIO

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DI NAOMI KLEIN

Tenetevi forte perché sta per arrivare una nuova ondata di foto raccapriccianti. La settimana scorsa un giudice federale americano ha ordinato al Ministero della Difesa di consegnare decine di foto e filmati riguardanti le torture inflitte ai detenuti iracheni nella prigione di Abu Ghraib.

Quando appariranno le foto già si sa quale sarà la risposta del Segretario alla difesa, Donald Rumsfeld: egli manifesterà la propria indignazione e fornirà assicurazioni che saranno prese tutte le misure necessarie per impedire che simili atti si ripetano. Ma proviamo a immaginare per un attimo cosa potrebbe accadere se questa volta la scena sarà girata seguendo un altro copione. Rumsfeld potrebbe rispondere come ha risposto il colonnello Mathieu nel film di Gillo Pontecorvo, “La battaglia di Algeri”, il film del 1965 sulla lotta del Fronte di Liberazione Nazionale algerino per la liberazione del paese contro l’occupazione coloniale francese. In una delle scene principali Mathieu si trova in una situazione oggi familiare a molti ufficiali superiori della amministrazione Bush: sta in una sala circondata da un nugolo di giornalisti che gli stanno chiedendo ragione del fatto che i paracadutisti francesi usano sistematicamente la tortura contro i prigionieri algerini.

Interpretando la parte di un vero ufficiale dell’epoca, il generale comandante in Algeria Jacques Massus, Mathieu non nega le torture e non chiede nemmeno che i responsabili vengano puniti. Al contrario, rovesciando le parti di fronte agli scandalizzati giornalisti presenti, di cui molti sono a favore dell’occupazione francese dell’Algeria, afferma con calma: “Il problema non è la tortura. Il problema è che il FLN ci vuole cacciare e noi, invece, vogliamo restare. Adesso tocca a me farvi una domanda: la Francia deve rimanere in Algeria o no? Se rispondete si, allora dovete accettare tutte le conseguenze.”

La questione centrale, oggi in Irak come in Algeria nel 1957, è che non esiste un modo dolce, umanitario per occupare una nazione straniera. Quelli che sostengono l’occupazione non hanno il diritto morale di dissociarsi dalle brutalità che ne derivano.

Oggi, come allora, esistono solo due modi di governare: o con il consenso, o con la paura.

La maggior parte degli iracheni sono contrari all’occupazione che ormai dura da oltre due anni. Il 30 gennaio la grande maggioranza ha votato a favore dei partiti che avevano espressamente richiesto, nel loro programma, una data di evacuazione delle truppe straniere. Forse Washington è riuscita a far dimenticare questa richiesta alla classe politica irachena, però rimane il fatto che le truppe straniere rimangono in Irak contro la volontà della sua popolazione.

Non avendo il consenso della popolazione l’attuale regime USA-Iracheno si affida al terrore, facendo ricorso alle tecniche più spaventose come la scomparsa delle persone, detenzione senza alcuna accusa per periodi indeterminati, e infine la tortura. E, malgrado le assicurazioni ufficiali, le cose vanno sempre peggio,. Un anno fa il presidente Bush aveva pensato di cancellare la macchia di Abu Ghraib decretandone l’abbattimento e la scomparsa. Però le cose sono cambiate. Al contrario sia Abu-Ghraib che altre due prigioni USA sono state ampliate, mentre si sta costruendo una terza prigione per 2.000 persone al prezzo di 50 milioni di dollari. Negli ultimi sette mesi la popolazione carceraria si è raddoppiata, arrivando alla cifra impressionante di 11.350 persone.

Forse i militari USA stanno veramente cercando di limitare i propri abusi sui prigionieri, però la tortura in Irak non è diminuita, è solo cambiata la tattica, la tortura viene affidata ad altri. Secondo un rapporto di gennaio della Human Rights Watch (Osservatorio sui diritti umani) risulta che la tortura, nelle prigioni USA e sotto la supervisione degli USA, viene applicata “sistematicamente”, compreso l’uso degli elettroshock.

Il Washington Post è venuto in possesso di un rapporto interno della 1ma Divisione di Cavalleria, in cui si afferma che “l’elettroshock e tentativi di strangolamento” sono “utilizzati normalmente per cercare di ottenere delle confessioni” da parte dei poliziotti o militari iracheni. Il ricorso alla tortura è così diffuso che ne è nato anche uno spettacolo TV di successo: ogni sera l’emittente Al Iraqiya, appaltata da un americano, manda in onda le scene di prigionieri iracheni con la faccia gonfia e gli occhi pesti che “confessano” i loro crimini.

Secondo Rumsfeld la recente ondata di attentati suicidi sarebbero un “segno della disperazione”. Veramente è proprio il diffondersi della tortura sotto il controllo di Rumsfeld che rappresenta un’autentica dimostrazione di panico.

In Algeria i francesi hanno fatto ricorso alla tortura non perché fossero dei semplici sadici ma perché stavano combattendo una battaglia che non poteva essere vinta contro le forze della decolonizzazione e del nazionalismo del terzo mondo. In Irak Saddam fece ricorso alla tortura immediatamente dopo l’insurrezione degli Shiiti nel 1991: più era debole la sua presa sulla popolazione più cercava di terrorizzarla. I regimi non voluti, siano essi locali o composti da forze straniere, fanno ricorso alla tortura proprio perché non sono voluti.

Quando verranno pubblicate le prossime fotografie di Abu Ghraib molti americani si sentiranno oltraggiati, e a ragione. Però qualche ufficiale coraggioso, prendendo ad esempio il colonnello Mathieu, potrà rovesciare le parti facendo la domanda: “Gli Stati Uniti devono rimanere in Irak? Se la riposta è si, allora dovete accettare tutte le conseguenze.”

Naomi Klein reported from Iraq for Harper’s. She is the author of “No Logo” (Picador, 2002) and is writing a book on the ways capitalism exploits disaster.
© 2005 LA Times
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Fonte :http://www.commondreams.org/ del 9 giugno 2005.

Link:http://www.latimes.com/news
/opinion/commentary
/la-oe-klein7jun07,0,5840057,print.story?coll=la-news-comment-opinions

Articolo scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da Vichi

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