DI JONATHAN SAFRAN FOER
La prossima volta che ti siedi a tavola, immagina che insieme a te siedano altri nove commensali e che insieme rappresentiate tutta la popolazione del pianeta. Organizzati per nazioni, due sono cinesi, due indiani e un quinto rappresenta tutti gli altri paesi dell’Asia nordorientale, meridionale e centrale. Il sesto rappresenta le nazioni del Sudest asiatico e dell’Oceania. Il settimo l’Africa subsahariana e l’ottavo il resto dell’Africa e del Medio Oriente. Il nono rappresenta l’America meridionale, centrale e settentrionale. L’ultimo posto è occupato dall’europeo.
Se distribuiamo i posti in base alla lingua madre, solo chi parla cinese avrebbe un rappresentante. Anglofoní e ispanofoni messi insieme dovrebbero condividere una sedia.
Organizzati in base alla religione, tre sono cristiani, due musulmani e tre praticano il buddismo, le religioni tradizionali cinesi o l’induismo. Altri due appartengono a tradizioni religiose ancora diverse o non si identificano in nessuna religione. (La comunità ebraica, alla quale appartengo io, che è più piccola del margine d’errore del censimento cinese, non riuscirebbe a piazzare su una sedia neppure una mezza chiappa.)
Se disposti in base all’alimentazione, una persona è affamata e due sono obese.` Più della metà segue una dieta prevalentemente vegetariana, ma il loro numero si sta assottigliando.
Vegani e vegetariani stretti hanno a malapena un posto.” E più di metà delle volte in cui ti servi di uova, pollo o maiale, i prodotti che acquisti provengono da allevamenti industriali.” Se la tendenza attuale continuasse per un’altra ventina d’anni, lo sarebbe anche la carne di manzo e di
montone.
Gli Stati Uniti non si avvicinano neppure a conquistare una sedia se i posti a tavola sono organizzati su base demografica, ma avrebbero dai due ai tre posti se i commensali fossero
collocati in base alla quantità di cibo che consumano. Nessuno ama mangiare nelle quantità in cui mangiamo noi, e quando cambia il nostro modo di mangiare, cambia il mondo.
Mi sono limitato a discutere prevalentemente di come le nostre scelte alimentari incidano sull’ecologia del pianeta e sulla vita degli animali, ma avrei potuto altrettanto facilmente costruire l’intero libro sulla salute pubblica, i diritti dei lavoratori, il declino delle comunità rurali o la povertà globale, tutte cose su cui l’industria zootecnica ha un impatto pesante. L’agroindustria non è, ovviamente, la causa di tutti i problemi del mondo, ma è incredibile con quanti interferisca. Ed è altrettanto incredibile, e del tutto improbabile, che persone come te e me possano avere una concreta influenza su di essa. Ma nessuno può mettere seriamente in dubbio l’influenza dei consumatori sulle pratiche agricole globali.
Mi rendo conto che mi sto avvicinando pericolosamente a prospettare l’idea curiosa che ciascun individuo può fare la differenza. La realtà è naturalmente più complicata. In quanto « mangiatore solitario », le tue decisioni, in sé e per sé, non hanno alcun impatto sull’agroindustria. Detto questo, a meno di procurarti il cibo in segreto e di consumarlo nel tuo sgabuzzino, non mangi da solo. Noi mangiamo in quanto figli e figlie, in quanto famiglie, in quanto comunità, in quanto generazioni, in quanto nazioni e sempre più in quanto pianeta. Non possiamo evitare, nutrendoci, di irradiare un’influenza anche nostro malgrado.
Come chiunque sia stato vegetariano per un certo numero di anni potrà dírti, l’influenza che questa semplice scelta alimentare ha su quello che mangiano gli altri intorno a te può essere sorprendente. La National Restaurant Association, l’organismo che rappresenta i ristoratori americani, ha raccomandato a tutti i ristoranti di servire almeno un piatto vegetariano. Perché? Semplice: secondo i loro sondaggi più di un terzo degli operatori ha visto aumentare la domanda di pasti vegetariani.” Un’importante rivista di settore, il « Nation’s Restaurant News », consiglia di « aggiungere piatti vegetariani o vegani al menu. I piatti vegetariani, oltre a essere meno costosi […], mitigano anche l’effetto veto. Solitamente, se c’è un vegano nella compagnia, si sceglie dove mangiare in base a questo ».3`
Si spendono milioni su milioni di dollari in pubblicità solo per assicurarsi che vediamo persone bere latte o mangiare una bistecca nei film, e se ne spendono ancora di più per assicurarsi che quando ho una bibita in mano, si riesca a dire (probabilmente da una certa distanza) se sia una Coca o una Pepsi. La National Restaurant Association non fa raccomandazioni e le multinazionali non spendono milioni di dollari per la pubblicità dei prodotti per metterci a nostro agio sull’impatto che esercitiamo su chi ci circonda. Semplicemente riconoscono il fatto che mangiare è un atto sociale.
Quando alziamo la forchetta, diciamo da che parte stiamo. Ci mettiamo in un determinato rapporto con gli animali d’allevamento, con i lavoratori del comparto zootecnico, con l’economia nazionale e con il mercato globale. Non prendere una decisione – mangiare « come tutti gli altri » – vuol dire prendere la decisione più facile, cosa che è sempre più problematica. Senza dubbio, quasi ovunque e in quasi ogni epoca decidere una dieta senza decidere – ossia mangiare come tutti gli altri – era probabilmente un’ottima idea. Oggi mangiare come tutti gli altri vuol dire aggiungere una goccia nel vaso. Può non essere quella che lo farà traboccare, ma sarà un atto che si ripeterà ogni giorno della nostra vita, e ogni giorno della vita dei nostri figli e dei figli dei nostri figli…
La disposizione dei posti e le portate alla tavola globale alla quale tutti mangiamo cambiano. I due cinesi alla nostra tavola hanno nel piatto quattro volte la carne che avevano pochi decenni fa, ed è una quantità in costante crescita.” Nel frattempo i due commensali che non hanno acqua pulita tengono gli occhi fissi sulla Cina. Oggi i prodotti animali costituiscono solo il sedici per cento della dieta cinese, ma l’allevamento incide per più del cinquanta per cento sul consumo di acqua della Cina, e in una fase in cui la penuria idrica
del paese è già causa di preoccupazione globale.` Il disperato che non riesce a trovare cibo a sufficienza avrebbe motivo di preoccuparsi anche di più per la direzione presa da quasi tutto il mondo verso un consumo di carne « all’americana », che riduce ulteriormente la disponibilità dei cereali su cui conta per vivere. Più carne significa maggiore domanda di cereali e più mani a contenderseli. Nel 2050 il bestiame nel mondo consumerà cibo come quattro miliardi di persone.” Le proiezioni fanno pensare che da una persona che soffre la fame alla nostra tavola si possa facilmente passare a due (le persone che soffrono la fame aumentano di duecentosettantamila unità al giorno),” cosa che accadrà quasi di certo, mentre gli obesi guadagneranno un’altra sedia.” E fin troppo facile immaginare un prossimo futuro in cui la maggioranza delle sedie della tavola globale sarà occupata da persone obese o malnutrite.
Ma non è detto che vada così. Il motivo migliore per credere che potrebbe esserci un futuro migliore è che sappiamo esattamente quanto potrebbe essere brutto il futuro.
Dal punto di vista razionale, l’allevamento industriale è palesemente sbagliato, e sotto molti punti di vista. Con tutte le mie letture e conversazioni, devo ancora trovargli una difesa credibile. Ma il cibo non è razionale. Il cibo è cultura, abitudine e identità. Per alcuni l’irrazionalità porta a una specie di rassegnazione. Le scelte alimentari vengono accostate alle scelte sulla moda e alle preferenze nello stile di vita: non rispondono a giudizi su come dovremmo vivere. E sono d’accordo sul fatto che la confusione sul cibo, i significati quasi infiniti che genera, rendono la questione dell’alimentazione, in particolare per quanto riguarda i prodotti animali, incredibilmente snervante. Alcuni attivisti con cui ho parlato crano parecchio perplessi e frustrati dalla cesura tra chiarezza di pensiero e scelte alimentari della gente. Condivido, ma mi chiedo anche se sia proprio l’irrazionalità del cibo a essere la scomessa più grande.
II cibo non è mai mero calcolo sul tipo di dieta che comporta un consumo minore d’acqua o causa meno sofferenze. Ed è su questo, forse, che si basano le nostre maggiori speranze di motivare noi stessi a cambiare. In parte l’allevamento industriale esige la soppressione delle nostre coscienze a favore della bramosia. Ma su un altro piano, la capacità di rifiutarlo può essere esattamente ciò che desideriamo di più.
La disfatta dell’allevamento intensivo non è, mi sono convinto, solo un problema di ignoranza; non è, come dicono gli attivisti, un problema nato perché « la gente non conosce i fatti ». Chiaramente questa è una concausa. Ho riempito questo libro di un’enorme quantità di fatti, perché sono un punto di partenza indispensabile. E ho presentato le nostre conoscenze scientifiche sull’eredità che stiamo lasciando con le nostre scelte alimentari quotidiane perché anche questa è una cosa di somma importanza. Non sto dicendo che la ragione non debba guidarci in molti aspetti importanti, ma il semplice fatto di essere umani, di comportarci in modo umano, è più che un esercizio della ragione. Reagire esige una capacità di attenzione che va al di là delle informazioni e al di là delle contrapposizioni tra ragione e desiderio, fatto e mito, e persino umano e animale.
L’allevamento intensivo cesserà prima o poi per via della sua assurdità economica. E completamente insostenibile. La terra finirà per scuoterselo via di dosso come un cane si scuote via le pulci; resta da vedere se finiremo scossi via anche noi.
Riflettere sul consumo di animali, specie in pubblico, scatena nel mondo forze inattese. Ha una pregnanza come poche altre azioni. Da un certo punto di vista, la carne è solo un’altra cosa che consumiamo e conta come il consumo di tovaglioli di carta o di SUV, in una certa misura. Provate a cambiare marca di tovagliolini al Ringraziamento, anche in tono enfatico, tenendo una concione sull’immoralità di quella certa marca, e vi sarà difficile convincere qualcuno. Sollevate invece la questione di un Ringraziamento vegetariano c non avrete problemi a stimolare opinioni forti, come minimo. Chiedersi se mangiare o meno gli animali tocca corde che
risuonano nel profondo di noi – la nostra idea di noi stessi, le nostre memorie, i nostri desideri e i nostri valori. Si tratta di risonanze potenzialmente controverse, potenzialmente minacciose, potenzialmente ispiratrici, ma sempre cariche di significato. Il cibo importa e gli animali importano e mangiare gli animali importa ancora di più. La questione del consumo di carne è in definitiva guidata dalle nostre intuizioni su ciò che significa raggiungere un ideale che abbiamo chiamato, forse in modo incoerente, «essere umano».
Jonathan Safran Foer
Tratto da: “Se niente importa. Perché mangiamo gli animali?” (Guanda (collana Biblioteca della Fenice) 2010