Nessuna crescita del Pil può allargare il benessere globale
DI ELISABETTA MAGNANI
L’ipotesi che la crescita economica abbia, prima o poi, un effetto benefico sull’ambiente, ipotesi ribattezzata tra gli addetti ai lavori come la «Environmental Kuznets Curve», è di grande interesse per coloro (non ultimi i nostri politici) che sfruttano l’idea di un’economia in crescita per nutrire l’immaginario di un mondo trasformato in un’oasi di pulizia.
Una rassegna di recente pubblicata su Ecological Economics (Agosto, 2004, Volume 49, numero 4) rivede questa ipotesi in modo critico. E di spirito critico c’è effettivamente bisogno visto le recenti esperienze in cui crescita non ha coinciso né con crescita dell’occupazione (la jobless economy), né tantomeno con crescita della stabilità dell’occupazione (la diffusione del precariato), né con mobilità sociale per molte fasce della popolazione (vista la crescente disuguaglianza economica che ha caratterizzato molte delle nazioni ricche del pianeta negli ultimi decenni), e neppure con un miglioramento della qualità della vita, come sostenuto di recente da Daniel Kahneman, premio Nobel per l’economia nel 2002.Di fatto, alla luce dell’abbondanza di studi sugli effetti della crescita economica (misurata sempre e solo in termini di crescita del Pil) sulla qualità ambientale, questa complessa rassegna di S. Dinda risponde all’esigenza di chiarire i termini di una questione come quella ambientale che è da tempo entrata nel dibattito politico (si veda ad esempio la promessa elettorale di firmare il protocollo di Kyoto del perdente Latham in Australia, e le differenze annunciate in materia da Kerry e Bush nella campagna elettorale statunitense).
Che crescita economica si accompagni a cambiamenti strutturali tali da migliorare lo stato dell’ambiente, si è incominciato a parlare nei primi anni ’90 in aperta critica a quel Club di Roma che con il suo «Limits to Growth» aveva espresso, nei primi anni `70, un atteggiamento fortemente scettico nei confronti di una politica dello sviluppo incentrato sul concetto di crescita anziché sul concetto di sostenibilità. Di fatto l’idea di una Environmental Kuznets Curve (EKC), che ipotizza una relazione tra crescita economica e degrado ambientale crescente prima, ossia per livelli di Pil relativamente bassi, e decrescente poi, ossia per livelli di reddito procapite relativamente alti, è stata usata nel corso degli ultimi anni per sostenere che la crescita economica può essere una cura anziché una causa dei mali ambientali. Non c’è dubbio che la EKC sia apparentemente un innocuo artifatto statistico che funziona collassando in una relazione bidimensionale (appunto quella tra crescita del Pil e emissione di agente inquinante) un insieme di effetti e contro-effetti tra aspetti diversi sia del comportamento umano sia dei meccanismi biologici e biopolitici, non per ultimi la crescita della popolazione. E tuttavia per sfruttare tutte le sue implicazioni normative, questo risultato statistico, ottenuto applicando tecniche econometriche su cross sections di paesi diversi osservati in un medesimo istante temporale, fa uso di assunti a dir poco controversi. Tra questi l’idea di un sentiero temporale di sviluppo degna dello storicismo più ortodosso, secondo cui l’esperienza di paesi ricchi (e virtuosi) sarà seguita dai paesi poveri (e viziosi) non appena questi ultimi raggiungeranno i livelli di Pil dei primi.
Non c’è bisogno di essere economisti per sostenere che la qualità ambientale genericamente intesa migliorerà solo se una serie di fattori, non per ultimo di natura economica, opereranno insieme in modo sinergico. Così non si tratta solo dell’effetto di composizione del Pil, in altre parole il passaggio da un’economia agricola (limitatamente inquinante) a una industriale (fortemente inquinante) a una basata sui servizi (limitatamente inquinante), ma anche dell’effetto tecnologico della crescita che con l’utilizzo di tecnologie meno inquinanti vede limitare i danni potenzialmente ingenti dell’aumentato uso di risorse naturali necessario per aumentare il Pil (l’effetto di scala). Sul trasferimento di tecnologie pulite dai paesi ricchi ai paesi poveri si concentrano quegli studi che analizzano l’effetto delle politiche commerciali sull’ambiente.
Soumyananda Dinda efficacemente riassume una serie di contributi su come politiche commerciali di apertura al commercio estero possono incidere limitando l’impatto negativo della crescita economica sull’ambiente (appunto il trasferimento di tecnologie pulite operato per esempio dalle multinazionali) o esacerbando tale effetto, nei paesi poveri mediante l’effetto di spiazzamento di attività inquinanti dai paesi ricchi ai paesi in via di sviluppo, o globalmente, mediante una «race to the bottom» incoraggiata dalla deregolamentazione dei mercati finalizzata a mantenere sul territorio nazionale la presenza di attività produttive che seppure inquinanti producono occupazione. Non meno importanti nello spiegare come all’aumentare del Pil si possano raggiungere livelli più elevati di qualità ambientale sono la domanda di qualità ambientale e quegli aspetti istituzionali (ad esempio la trasparenza sugli effetti degli agenti inquinanti), politici (regimi effettivamente democratici) e giuridici (l’esistenza di leggi che limitano la corruzione e sanzionano pene per coloro, persone o imprese, che inquinano). E visto che siamo noi che domandiamo qualità ambientale (ad esempio offrendo contributi finanziari a organizzazioni che si occupano dell’ambiente, o comprando azioni di imprese che non inquinano) il discorso torna su come, e se, questa domanda aumenti di intensità a mano a mano che il Pil procapite aumenta, e venga percepito e manipolato dal regime politico per giustificare o cambiare una data politica di sviluppo.
Purtroppo, e qui sta uno dei limiti concettuali più evidenti dell’ipotesi della EKC, quali fattori sono veramente in grado di rendere la crescita economica sostenibile con un miglioramento della qualità dell’ambiente non è chiaro. Soprattutto non convince l’approccio a problemi ambientali in cui l’unità di analisi è l’economia nazionale anziché quella globale. Ad esempio è lecito chiedersi se una EKC davvero esiste per i paesi poveri, intrappolati dalle regole dell’economia globale nella produzione di prodotti industriali inquinanti che i paesi ricchi hanno da tempo smesso di produrre ma non di consumare. Come non è chiaro quanto efficace possa essere una politica ambientale propinata da un regime politico nazionale, anziché da un coordinamento di politiche ambientali a livello sovranazionale, quando l’agente inquinante è, come nel caso del biossido di carbonio (CO2, l’agente maggiormente responsabile dell’effetto serra), un agente globale. In questi casi il ruolo di protocolli, quali quello di Kyoto, sono assolutamente necessari (quando non si limitano a soluzioni basate sulle solite regole di mercato come i carbon credits) e nessuna crescita economica per se sarà sufficiente a salvare il pianeta da disastri ecologici.
E se poi dopo tanti casi studiati (con diversi agenti inquinanti, diversi paesi, diversi regimi politico-istituzionali) ci rendiamo conto che una svolta virtuosa verso il tratto decrescente della EKC può essere troppo lontano o addirittura non esistere, forse sarebbe bene cominciare a immaginare un modo di governare la società liberato dall’assillo dell’espansione, della crescita, dell’aumento del Pil.
Elisabetta Magnani (School of Economics, University of New South Wales, Sydney)
Fonte: www.ilmanifesto.it
5.11.04