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La Redazione

 

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LA SOCIETA' DEPRIMENTE

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A cura di Davide
Il 13 Dicembre 2004
87 Views

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DI ROBERT DE HERTE

La  depressione, che nel XIX secolo veniva considerata ancora come un semplice sintomo, oggi è diventata sia un’entità clinica riconosciuta e sia, rimpiazzando la nevrosi, il disturbo mentale più diffuso nel mondo occidentale. Si tratta quindi della nuova malattia della civilizzazione. Essa si alimenta tanto di tutti i malesseri sociali, di tutte le miserie, di ogni genere di esclusione quanto dell’ assenza di riferimenti, della scomparsa del senso. Unendo l’antica nostalgia aristocratica all’uguaglianza democratica, essa rappresenta l’infinità di aspettative costantemente deluse. La depressione, più che uno stato, è un modo di dare un nome ai problemi generati dal mondo contemporaneo ed è proprio in questa accezione che si può parlare di società deprimente.
Se la depressione è oggi così diffusa, il motivo è che, innanzitutto, siamo diventati individui privi di tradizioni o riferimenti che ci indichino dall’esterno chi dobbiamo essere e come dobbiamo comportarci. Alain Ehrenberg l’ha ampiamente dimostrato, la liberazione dell’individuo e l’ insicurezza identitaria cronica sono le due facce di una stessa dinamica. La depressione è la malattia della libertà moderna che accompagna e punisce l’ ascesa del riferimento all’autonomia individuale nella vita sociale. L’uomo di fronte alla chiara coscienza della sua limitatezza, può vivere solo creandosi, nel mondo, il Suo mondo, un mondo fatto di riferimenti e che costituisce l’insieme delle possibilità di essere che gli si offrono; una volta diventato autonomo, l’individuo spesso si rende conto di non essere all’altezza di quello che sperava o pensava di aver appreso: addirittura, non è all’altezza dei suoi stessi desideri. Nonostante si sia liberato dei vecchi sistemi di conformità ed obbedienza, non riesce a munirsi autonomamente dei riferimenti necessari per sostituirli.
In una società dove ognuno è tenuto ad essere sovrano di se stesso, l’individuo si confronta meno con la questione del proibito – che, attenzione, non scompare ma prende forme più subdole – e più con quella della possibilità infinita. Ora, lo sviluppo incontrollato della tecnoscienza e il dispiegamento a livello planetario della Forma-Capitale ci introduce nell’era dell’illimitato.

 Il rifiuto dei limiti equivale anche al rifiuto di qualsiasi riferimento, in quanto un riferimento è tale se indirizza creando dei limiti. Un riferimento, qualsiasi esso sia, permette di capire che tutto non è possibile – o che tutto ciò che è virtualmente possibile non sempre è anche auspicabile. Secondo questo punto di vista, il principio del piacere si oppone più che mai  al principio della realtà, tanto che il virtuale sminuisce il reale fino a rimpiazzarlo completamente. Il malessere deriva quindi dall’incapacità di affrontare impulsi contradditori in una società che spinge chiunque  a “realizzarsi”, ma solo dopo aver accertato di essersi conformato, e a rallegrarsi della propria“libertà”, creando però nel contempo dei processi di controllo sempre più sofisticati. Ogni giorno che passa, l’uomo si scopre sempre più vulnerabile e fragile, in un mondo  che continua ad ingiungergli  d’essere più “performante”: così misura il suo bisogno d’essere e si deprime.

Tuttavia la perdita dei riferimenti è alimentata anche dalla mancanza di speranze. Dopo le sconfitte e gli orrori del XX secolo, i nostri contemporanei si sono rassegnati  a vivere all’ombra della fatalità. Il gran messaggio del neoliberalismo, riportato costantemente dai media, è che non esiste un’alternativa allo status quo. Questa società è deprimente? Non ne esistono altre e così, più che mai, tutto continua a cambiare affinché niente cambi e noi ci ritroviamo a vivere sia all’ombra dell’illimitato – l’illimitatezza dei beni – e sia nella prospettiva esigua di una storia che ormai si è conclusa, dove l’onnipresente distrazione, nel senso pascaliano del termine, ha come unico obbiettivo quello di mascherare il vuoto e la noia, l’ irreversibile senso di perdita che alimenta tutte le malinconie. Viviamo contemporaneamente nel movimento perenne e nella stasi, nel troppo pieno e nel troppo vuoto, contemporaneamente nell’idea che tutto sia possibile e nella constatazione che niente può essere gestito veramente. Anche il rapporto con il tempo si trasforma. Il passato non è più “storicizzabile”, bensì esaltato in maniera isterica, narcisistica e ossessiva. Il presente, al contrario, non è più “futurizzabile”, in quanto può proiettarsi nel futuro solo come pura e semplice ripetizione. Infine, il futuro è percepito come latore di minacce e non di promesse. I fervori sacrificali, le straordinarie mobilitazioni del XX secolo possono ben conservare le commemorazioni compulsive di una “memoria” che gira a vuoto, ma retrospettivamente possono solo suscitare incomprensioni (come si fa ad immaginare che si possa morire per una causa od immolarsi in un mondo dove niente è gratuito?)  e lasciare spazio ad una gestione prudente degli interessi.
Minacce e rischi di ogni genere sembrano moltiplicarsi in un momento in cui il rischio collettivo non viene più accettato ma considerato come uno scandalo (a partire dal massimo rischio che è la morte). Il risultato sono una serie di paure incontrollabili che generano altrettanti fantasmi. Nell’era del vittimismo, qualsiasi malessere viene vissuto come una catastrofe e ciononostante si continuano a proporre solo soluzioni individuali ai malesseri sociali (l’”assistenza psicologica”). Così non si sa più che cosa significhi vivere e si prova solo a sopravvivere ad ogni costo. La moda del linguaggio dei “diritti” esprime il desiderio di essere legalmente protetto da tutto, ma questo desiderio non può essere soddisfatto e l’ossessione della sicurezza si accentuerà ulteriormente con l’invecchiamento della popolazione.

 Il lento processo di disillusione nei confronti del mondo – portato avanti prima dalla teologia e poi dalla scienza – arriva alla sua conclusione. Con la trasformazione del mondo in mercato si delinea un universo in cui tutto è valutabile in termini contabili, un universo in cui la Forma-Capitale estende lentamente i propri criteri di valutazione a tutti i campi della vita sociale. L’uomo non è più la misura di tutte le cose ma sono le cose prodotte e scambiate che diventano la misura dell’uomo. Tutto ciò che aveva un senso, tutto ciò che comportava una dimensione simbolica che aiutava l’immaginario a sostenersi autonomamente è in fase di sradicamento, in un mondo dove  l’ uomo e la natura stessa  sono sempre più esclusi. I sacrifici  imposti al mondo dal capitalismo,  come anche l’ideologia occidentale della gestione totale, contribuiscono alla generalizzazione della perdita di senso.

Proprio come il crollo della natalità, la depressione rivela una carenza di vitalità – come se tutto ciò che è stato prodotto dalle generazioni precedenti avesse inaridito quelle seguenti. Che le società più ricche siano anche le società più depresse dimostra che il denaro non fa la felicità e che la gioia di vivere non è un affare legato alla vita materiale o al potere d’acquisto. Oggi le società che sono materialmente più ricche sono le più povere sotto il profilo spirituale, mentre quelle più povere dal punto di vista materiale possono ancora aggrapparsi al proprio passato ed aver fede nel futuro. Tempo fa esisteva un legame tra la disperazione (individuale) e l’esplosione (sociale), adesso questo legame esiste tra la depressione e l’implosione. Un giorno questo mondo collasserà.

Robert De Herte (pseudonimo di Alain De Benoist)
Da Eléments n°114, autunno 2004 
Fonte:http://www.opifice.it

(Traduzione Maria Grazia Dessì)
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