LA SINISTRA RADICALE E IL GIOCO DELLE PARTI

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DI GIUSEPPE GIACCIO
Diorama

La Tav in Val di Susa si farà, malgrado il suo devastante impatto ambientale. Lo ha autorevolmente ribadito, lo scorso mese di gennaio, Mercedes Bresso, presidente della regione Piemonte ed ecologista pentita. Anche il “Mose”, faraonico progetto che dovrebbe “imbrigliare” le acque della laguna veneta, va avanti, nonostante siano stati presentati dalla giunta comunale una decina di seri progetti alternativi, che però hanno il grave “difetto” di costare meno e quindi di far “piovere” meno soldi da distribuire ad amici e amici degli amici. Infine, la base militare statunitense nei pressi di Vicenza sarà ampliata, più precisamente raddoppiata, passando dagli attuali 1.586.000 metri quadri a 2.536.000 metri quadri; il governo di centrosinistra in carica, temendo di essere tacciato di antiamericanismo, si guarda bene dallo sconfessare una decisione assunta dal precedente governo di centrodestra.Si tratta di tre sonori ceffoni inferti in pieno viso alla cosiddetta sinistra radicale, cui è stato permesso, com’era facilmente prevedibile, di fare un po’ di baccano nelle piazze e nei mezzi di informazione, non fosse altro che per consentirle di difendere la propria ragione sociale e di tranquillizzare i propri militanti con la speranza che questi ultimi, dopo aver storto il naso (o esserselo turato, come un tempo suggeriva di fare Montanelli con la Dc), continuino nel solito e ormai alquanto stucchevole gioco delle parti. “Non capisco, ma mi adeguo”, questa è la sua funzione, una funzione dunque di mera testimonianza che ricorda molto da vicino quella del vecchio Msi, che usava con la sua base, soprattutto giovanile, toni appassionati, lirici e rivoluzionari, ma che poi non disdegnava di offrire i suoi voti all’area moderata, in nome del realismo e della difesa dal comunismo. La sinistra sedicente antagonista aderisce allo stesso schema, con la differenza che sostituisce il berlusconismo al comunismo. Il modello ipocrita della sinistra di lotta e di governo è la massima concessione che verdi e comunisti possono fare a quanti sono scesi e scenderanno nelle piazze. E chi si contenta gode.

Se la sinistra radicale – ci riferiamo, ovviamente, al cosiddetto “popolo di sinistra” e non al ceto politico, che nelle istituzioni si è installato e ci abita come i topi nel formaggio – fosse davvero ciò che dice di essere (e che è purtroppo ben lungi dall’essere), dovrebbe allora cogliere la palla al balzo e cominciare ad andare alle radici, ponendosi degli interrogativi, appunto, radicali. Il primo e più importante dei quali riguarda il contenitore all’interno del quale vengono incanalate e sprecate tante energie (contenitore che, in questo caso, è la sinistra, ma va da sé che considerazioni analoghe si potrebbero fare anche per gli altri “recipienti” del sistema politico). Ogni botte dà il vino che ha e sarebbe insensato aspettarsi qualcosa di diverso. Eppure, è proprio questa insensatezza a guidare l’opposizione di sinistra.

Massimo Cacciari, in un vecchio, denso e breve saggio, che può ancora insegnare molte cose e la cui lettura consigliamo caldamente ai più giovani che probabilmente non lo conoscono, intitolato Sinisteritas, spiega che la funzione della botte consiste nel far gravitare il vino intorno al centro “medico”, alle posizioni mediane. In questo modo, il sistema si tiene in equilibrio. Chi si colloca culturalmente al suo interno, riconoscendosi, sia pure criticamente, in uno dei suoi tre volti, viene sottoposto a una potente forza centripeta che lo porta, prima o poi, ad “adeguarsi”. Queste cose Cacciari le scriveva nell’anno di grazia 1982, un quarto di secolo fa, e le ribadiva, in tono più sconsolato, nel 1987, nel numero 5 di Trasgressioni. Noi, dal canto nostro, in parte le teorizzavamo in convegni e dibattiti, in parte le sperimentavamo dal vivo uscendo dal Msi o venendone cacciati in quanto eretici. È triste dirlo, ma in venticinque anni non si è fatto un solo passo avanti in quella che per noi è la direzione che ogni soggetto che voglia essere davvero antagonista dovrebbe imboccare, ossia la creazione di nuove sintesi ovvero, per dirla con Cacciari, di “cattivi nuovi”. Da dove nasce questa persistente difficoltà? Cominciamo col dire che essa non nasce dall’inesistenza, nelle società occidentali, di possibili punti di frattura e di ricomposizione dello scenario politico. In realtà, ce ne sono a iosa, ed indicano tutti una crescente difficoltà dei tradizionali attori politici di rappresentarli e, soprattutto, di fronteggiarli e risolverli.

Citiamo solo gli ultimi spunti che la cronaca di questi mesi ci ha messo davanti agli occhi: la questione del surriscaldamento globale (global warming) e dei conseguenti cambiamenti climatici (climatic change), con tutte le conseguenze di ordine ambientale, economico, sociale e politico che ne derivano – questione sollevata da un rapporto della Commissione europea, da uno studio di Nicholas Stern, ex economista della Banca mondiale e collaboratore di Tony Blair, e da un rapporto redatto per conto dell’Onu da ben 500 scienziati, membri dell’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change): tutte fonti non sospettabili di estremismo ecologista. Ebbene, le classi politiche dell’Occidente, di fronte a queste analisi, hanno o – ed è il caso della destra – negato puramente e semplicemente l’esistenza del problema, prendendosela con il catastrofismo ecologista e sostenendo che fenomeni di questo genere sono sempre esistiti e che quindi non dipendono dal modello capitalista, o – ed è il caso della sinistra – hanno cercato di salvare capra e cavoli (ma in realtà non salvando un bel nulla) attraverso il concetto di sviluppo sostenibile o durevole. Queste reazioni sono del tutto comprensibili e fisiologiche, corrispondendo alla normale dinamica del sistema lineare-assiale che, spiega ancora Cacciari, vede in ogni deviazione dal suo modello una patologia che si tratta di guarire somministrando le opportune medicine. La (ragionevole) scommessa su cui puntiamo noi è che le patologie cominciano ad essere troppe e che bisogna cambiare i medici e le terapie. In altri termini, le crisi (sia quelle ambientali che le altre) sono e saranno sempre meno gestibili usando le solite camere di compensazione (destra, centro e sinistra) perché queste ultime sono state pensate per un mondo – quello delle grandi narrazioni ideologiche – ormai consunto. Ad esso si è sostituito un presente liberale-liberista che si vorrebbe rendere eterno. Questa è la scommessa, a nostro parere molto meno ragionevole, su cui puntano gli ambienti che contano, in Italia e all’estero. Le grandi manovre in corso nei palazzi della politica italiana rappresentano una delle possibili ricadute di questa strategia. Esse mirano alla creazione di due ampi spazi politici – il Partito della libertà e il Partito democratico – sui quali continueremo a leggere le etichette “destra” e “sinistra”, che svolgeranno l’importante funzione di specchietti per le allodole, ma si tratterà di una destra e di una sinistra liberali, in cui il massimo di sinistra possibile sarebbe costituito da un liberalismo alla Dahrendorf, cioè un liberalismo “istituzionale” o “con dotazioni di base”, nel quale, paradossalmente, potrebbe, entro certi limiti, riconoscersi, oltre alla sinistra, anche un partito collocato a destra come An, mentre il massimo di destra sarebbe dato dall’esaltazione, che in misura non indifferente obbedisce a ragioni solo propagandistiche, di un paese “senza lacci e laccioli” così frequente nella retorica di Forza Italia e della Lega. Altrove gli attori sono diversi (si pensi a Nicolas Sarkozy e Ségolène Royal in Francia), ma la sostanza non cambia molto. Orbene, affrontare i problemi di un mondo globalizzato e “instabile” con questi assetti politici, è qualcosa che suscita la perplessità non solo nostra, ma anche dello stesso Dahrendorf, il quale dichiara di essere “pessimista nella [sua] analisi” (cfr. Quadrare il cerchio, Laterza). Il suo pessimismo nasce da ragioni insieme sociologiche, politiche ed economiche che si possono così riassumere: nel mondo sviluppato, le “legature” che tengono unita la società tendono a sfilacciarsi perché le componenti costitutive della globalizzazione – la flessibilità e la deregulation – hanno un effetto corrosivo. Le società occidentali sono già ora polarizzate e lo saranno sempre di più; la ricchezza continuerà ad accentrarsi in poche mani. Gli altri dovranno arrabattarsi in qualche modo, il che, come si può facilmente capire, non agevola certo la vita in comune. Inutile, peraltro, attendersi risposte dalla politica, dato che, come si legge in un altro testo del sociologo di Amburgo, “globalizzazione vuol dunque dire anche sempre de-democratizzazione” (Libertà attiva, Laterza).

Il processo di polarizzazione che si osserva nella sfera economica interessa quindi anche la sfera politica con, al vertice, un potere concentrato nelle mani di capi demagoghi e populisti e, alla base, una massa amorfa di persone apatiche e facilmente manipolabili, soprattutto grazie al mezzo televisivo, passive comparse di una “democrazia senza democratici”, che non lascia presagire niente di buono, ma “è certamente l’inizio di qualcosa di nuovo e sgradevole” (cfr. Dopo la democrazia, Laterza). Vero è che Dahrendorf si dichiara altresì non rassegnato e “attivista nelle [sue] conclusioni”, ma il suo attivismo, lungi dal tranquillizzarci, ci rende ancora più inquieti, risolvendosi in un’estensione delle chances di vita occidentali al mondo intero in buona parte illusoria, ma che, anche laddove fosse realizzabile, creerebbe molti più problemi di quanti ne risolverebbe. Dove sono, infatti, le risorse e l’energia necessarie per far accomodare al tavolo dello sviluppo e della crescita la quasi totalità della popolazione mondiale (l’Occidente, infatti, ne comprende solo una minima parte)? E come potrebbe la terra sopportare un peso così gravoso? Soprattutto, come potremmo proporre agli altri di percorrere il nostro stesso cammino sapendo, al contempo, che, come si legge in Libertà attiva, “il primo passo verso la modernità è di regola un passo verso una nuova miseria”? In queste condizioni, non sarebbe più logico cominciare a mettere seriamente in discussione il nostro modello, piuttosto che inoculare agli altri popoli il virus dello sviluppo?

Al di là di un trionfalismo di facciata, che non è certo di Dahrendorf bensì della quasi totalità della pubblicistica liberale-occidentale, la politica liberale si trova nel vicolo cieco rappresentato da queste domande, dal quale non le sarà facile venire fuori e che dovrebbe spingere le forze antagoniste a scelte coraggiose. Ed è proprio questo il punto dolente, la mancanza di coraggio, di virtù nel senso classico del termine, che impedisce alla sinistra antagonista di procedere lungo la via maestra delle nuove sintesi “catastrofiche” e della delineazione di cleavages all’altezza del terzo millennio e che non siano debitori di esperienze ormai alle nostre spalle e consegnate alla storia. Scottata dalla negativa esperienza dei regimi comunisti, conclusasi, almeno per quanto riguarda l’Europa, con la caduta del Muro di Berlino, questa fetta di sinistra si è attestata su posizioni teoriche puramente negative, dice soltanto “no”, e si accontenta di una politica mediatizzata, fatta di “eventi” (Seattle, Davos, Genova, Vicenza) che possono peraltro essere facilmente metabolizzati e strumentalizzati. Il potere è il male assoluto, è corrotto e corruttore, e quindi bisogna “cambiare il mondo senza prendere il potere”, come recita il titolo di un saggio di John Holloway, autore di culto dell’area antagonista. Si preferisce così coltivare il mito della propria purezza e diversità, ci si immagina di essere la sinistra nella sua versione più alta e nobile, e ci si inventa la funzione di traino e pungolo della sinistra istituzionale-radicale, ma, al tirar delle somme, è quest’ultima a normalizzare e controllare la sinistra “piazzaiola”, come ha chiaramente affermato, dopo la manifestazione di Vicenza, senza nascondersi dietro le parole, il capogruppo di Rifondazione comunista alla Camera, Gennaro Migliore: “Se noi non fossimo stati lì e non avessimo fatto parte della maggioranza, di manifestazioni ce ne sarebbero state una ogni quindici giorni e di ben altro stile”. Il ruolo della sinistra sociale è allora semplicemente quello della mosca cocchiera, del fratellino discolo che ogni tanto combina qualche birichinata, ma che poi rientra nei ranghi. In attesa che le luci della ribalta si accendano sul successivo “evento” mobilitante e anestetizzante.

Giuseppe Giaccio
(Diorama Lettrario, n.281 Febbraio 2007)
Fonte: www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=9962
31.03.07

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