DI URI AVNERY
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Facendo zapping alla tv, mi sono imbattuto in un’intervista con il nipote del Mahatma Gandhi su una rete americana (la Fox – pensate!).
“Mio nonno ci ha detto di amare il nemico anche quando si lotta contro di lui”, ha detto, “ha combattuto contro gli inglesi risolutamente, ma amava gli inglesi” (cito a memoria).
La mia reazione immediata è stata: sono sciocchezze, il pio desiderio dei buonisti! Tuttavia mi sono improvvisamente ricordato che nella mia giovinezza avevo avuto esattamente la stessa sensazione, quando mi sono iscritto all’Irgun (gruppo militante sionista che operò in Palestina dal 1931 al 1948. ndt) all’età di 15 anni. Mi piacevano gli inglesi (come chiamavamo tutti i britannici), la cultura e la lingua inglese, ed ero pronto a mettere la mia vita in prima linea, al fine di cacciare gli inglesi fuori dal nostro paese. Quando dissi questo alla commissione di reclutamento dell’Irgun, mentre sedevo con una fiammante bagliore nei miei occhi, fui sul punto di essere respinto.
Ma le parole del nipote mi hanno indotto ad approfondire il mio pensiero. Si può fare la pace con un avversario mentre lo odiamo? La pace è possibile senza un atteggiamento positivo verso la controparte?
A prima vista, la risposta è “sì”. Sedicenti “realisti” e “pragmatici”, diranno che la pace è una questione di interessi politici, che non dovrebbero coinvolgere i sentimenti. (Tali “realisti” sono persone che non possono immaginare un’altra realtà, e tali “pragmatici” sono persone che non possono pensare a lungo termine).
Come è ben noto, si fa la pace con i nemici. Uno fa la pace, al fine di fermare una guerra. La guerra è il regno dell’odio, disumanizza il nemico. In ogni guerra, il nemico è rappresentato come un essere sub-umano, maligno e crudele per natura.
Si suppone che la pace ponga fine alla guerra, ma non che prometta di cambiare l’atteggiamento verso il nemico di ieri. Cessiamo di ucciderlo, ma questo non significa che cominciamo ad amarlo. Quando si arriva alla conclusione che è nel nostro interesse fermare la guerra piuttosto che proseguirla, questo non significa che il nostro atteggiamento verso il nemico sia cambiato.
Quì abbiamo un paradosso insito: il pensiero della pace nasce mentre la guerra è ancora in corso. Ne consegue che la pace è pianificata da coloro che sono ancora in guerra, che sono ancora nella morsa della mentalità bellica. Ciò può distorcere il loro pensiero.
Il risultato può essere un mostro, come il famigerato trattato di Versailles con cui si è conclusa la prima guerra mondiale. Esso calpestò la Germania sconfitta, la spogliò e, peggio di tutto, la umiliò. Molti storici ritengono che questo trattato porta gran parte della colpa dello scoppio della seconda guerra mondiale, che fu ancora più devastante. (Da bambino sono cresciuto in Germania sotto l’ombra scura del trattato di Versailles, quindi so di cosa parlo).
Il MAHATMA GANDHI ha capito questo. Non era solo una persona dai grandi principi, ma anche molto saggia (se c’è davvero qualche differenza). Non ero d’accordo con la sua opposizione a resistere con la forza alla Germania nazista, ma ho sempre ammirato il suo genio come leader della liberazione indiana. Si rese conto che il compito principale di un leader per la liberazione è quello di formare la mentalità del popolo che vuole liberare. Quando centinaia di milioni di indiani affrontarono alcune decine di migliaia di britannici, il problema principale non era quello di sconfiggere gli inglesi, ma di indurre gli stessi indiani a volere la liberazione e una vita in libertà e armonia. Per fare la pace senza odio, senza un desiderio di vendetta, con un cuore aperto, pronti a riconciliarsi con il nemico di ieri.
Gandhi stesso ottenne solo un successo parziale in questo. Ma la sua sapienza ha illuminato il cammino di molti. E formò gente come Nelson Mandela, che ha stabilito la pace senza odio e senza vendetta, e Martin Luther King, che invocò la riconciliazione tra i bianchi e i neri. Anche noi abbiamo molto da imparare da questa saggezza.
Questa settimana, un esperto in analisi di sondaggi di opinione è apparso su un talk show televisivo israeliano. Il prof. Tamar Harman non ha analizzato questo o quel sondaggio, ma l’insieme dei sondaggi nel corso di decenni.
Il prof. Harman ha confermato statisticamente ciò che tutti noi sentiamo nella nostra vita quotidiana: che vi sia uno spostamento continuo e di lungo periodo in Israele dai concetti della destra ai concetti della sinistra. La soluzione dei due Stati è ormai accettata a larga maggioranza. La grande maggioranza accetta anche che il confine debba essere basato sulla Linea Verde, con scambi di territorio che lascerà i grandi blocchi di insediamenti in Israele. Il pubblico accetta che gli altri insediamenti debbano essere evacuati. Esso riconosce anche che i quartieri arabi di Gerusalemme Est debbano essere parte del futuro Stato palestinese. La conclusione dell’esperto: questo è un processo dinamico continuo. L’opinione pubblica continua a muoversi in questa direzione.
Mi ricordo dei lontani giorni nei primi anni ‘50, quando abbiamo introdotto per primi questa soluzione. In Israele e nel mondo intero non c’era neanche un centinaio di persone che sostenesse questa idea. (La risoluzione delle Nazioni Unite del 1947, che ha proposto esattamente questo, era stata cancellata dalla coscienza pubblica dalla guerra, dopo di che la Palestina è stata divisa tra Israele, Giordania ed Egitto). Ancora nel 1970 ho vagato per i corridoi del potere a Washington DC, dalla Casa Bianca al Dipartimento di Stato, alla vana ricerca anche di un solo statista importante che la sostenesse. L’opinione pubblica israeliana si oppose quasi all’unanimità, e così fece l’Olp, che pubblicò anche un libro speciale sotto il titolo “Uri Avnery e il neo-sionismo”.
Ora questo piano è sostenuto da un consenso a livello mondiale, che include tutti gli stati membri della Lega Araba. E, secondo il professore, ha anche il consenso israeliano. La nostra estrema destra accusa ora Binyamin Netanyahu, sia in scritti che in discorsi, di eseguire ciò che essi chiamano il “progetto Avnery”.
Così dovrei essere molto soddisfatto, felice di vedere i telegiornali che parlano di “due Stati per due popoli” come verità evidente.
Quindi, perché non sono soddisfatto? Sono un brontolone professionista?
Mi sono interrogato, e credo di aver identificato la fonte della mia insoddisfazione.
Quando oggi si parla di “due Stati per due popoli”, è quasi sempre legato all’idea di “separazione”. Come ha esposto Ehud Barak nel suo stile unico: “Noi saremo qui e loro saranno là”. Si connette l’immagine di Israele con quella di “una villa nella giungla”. Tutto attorno ci sono bestie selvagge, impazienti di divorarci, e noi nella villa dobbiamo innalzare un muro di ferro per proteggere noi stessi.
Questo è il modo in cui questa idea viene venduto alle masse. Raccoglie popolarità perché promette una separazione definitiva e totale. Fateli uscire dalla nostra vista. Lasciate che abbiano uno Stato, per l’amor di Dio, e che ci lascino soli. La “soluzione dei due Stati”, sarà realizzata, noi vivremo nella “Nazione-Stato del popolo ebraico”, che farà parte dell’Occidente, e “loro” vivranno in uno stato che farà parte del mondo arabo. Tra noi ci sarà un alto muro, parte del muro tra le due civiltà.
In qualche modo mi ricorda le parole che Theodor Herzl ha scritto 114 anni fa nel suo libro “Lo Stato ebraico”: “In Palestina … noi saremo per l’Europa una parte del muro contro l’Asia, serviremo come avanguardia della civiltà contro la barbarie”.
Questo non era l’idea nella mente del pugno di persone che hanno sostenuto la soluzione dei due Stati sin dall’inizio. Essi sono stati animati da due tendenze interconnesse: l’amore del Paese (nel senso tutta la terra tra il Mediterraneo e il Giordano) e il desiderio di riconciliazione tra i due popoli.
So che molti saranno scioccati dalle parole “amore per il Paese”. Come molte altre cose, sono stati dirottate e prese in ostaggio dall’estrema destra. Glielo abbiamo consentito.
La mia generazione, che ha attraversato il paese ben prima che lo Stato entrasse in essere, non ha trattato Gerico, Hebron e Nablus come se fossero all’estero. Li abbiamo amati. Ci appassionavano. Io li amo ancora oggi. Per alcuni, come il defunto scrittore di sinistra Amos Kenan, questo amore era diventato quasi un’ossessione.
I coloni, che incessantemente declamano il loro amore per il Paese, l’amano nel modo in cui uno stupratore ama la sua vittima. Essi violano il paese e lo vogliono dominare con la forza. Questo è espresso visibilmente nell’architettura della loro fortezze sulle cime delle colline, i quartieri fortificati con tetti in stile svizzero. Essi non amano il paese reale, i villaggi con i loro minareti, le case di pietra con le loro finestre ad arco adagiato sulle colline e la fusione con il paesaggio, i terrazzamenti coltivati al centimetro, i wadi e gli oliveti. Essi sognano un’altra terra e vogliono costruirla sulle rovine del paese amato. Kenan ha semplicemente detto: “Lo Stato di Israele sta distruggendo la Terra di Israele”.
Al di là del romanticismo, che ha un suo valore, abbiamo voluto riunire un paese lacerato, nel solo modo possibile: attraverso l’associazione dei due popoli che lo amano. Queste due entità nazionali, con tutte le loro somiglianze, sono differenti per cultura, religione, tradizioni, lingua, scrittura, modi di vita, struttura sociale e sviluppo economico. La nostra esperienza di vita, e l’esperienza di tutto il mondo, in questa generazione più che in ogni altra, ha dimostrato che tali popoli diversi non possono vivere in uno Stato. (L’Unione Sovietica, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Cipro, e forse anche il Belgio, Canada, Iraq.) Pertanto, sorge la necessità di vivere in due Stati, uno accanto all’altro (con la possibilità di una futura federazione).
Quando siamo arrivati a questa conclusione al termine della guerra del 1948, abbiamo modellato la soluzione a due Stati non come un piano per la separazione, ma, al contrario, come un piano per l’unità. Per decenni abbiamo parlato di due stati con un confine aperto tra di loro, un’economia comune e libera circolazione delle persone e delle merci.
Questi erano i motivi centrali in tutti i piani per la “soluzione dei due Stati”. Fino a quando non sono arrivati i cosiddetti “realisti” e hanno preso il corpo senza l’anima, riducendo un piano pieno di vita ad un cumulo di ossa secche. Anche a sinistra, molti erano pronti ad a adottare il programma di separazione nella convinzione che questo approccio pseudo-pragmatico sarebbe più facile da spacciare per buono alle masse. Ma nel momento della verità, questo approccio non è riuscito. I “colloqui di pace” sono falliti.
Propongo di tornare alla saggezza di Gandhi. E’ impossibile spostare masse di persone senza una visione. La pace non è solo l’assenza di ostilità e neanche il prodotto di un labirinto di muri e recinzioni. Non è neppure un’utopia della “coabitazione del lupo con l’agnello”. Si tratta di un vero stato di riconciliazione, di collaborazione tra i popoli e tra gli esseri umani, dove ognuno rispetta l’altro, è pronto a soddisfarne gli interessi e a commerciare con lui, a creare relazioni sociali e – chissà – qua e là anche a piacersi l’un l’altro.
In sostanza: due Stati, uno futuro comune.
Uri Avnery
Fonte: http://zope.gush-shalom.org/
Link: http://zope.gush-shalom.org/home/en/channels/avnery/1285413817/
26.09.2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ETTORE MARIO BERNI