DI CHRIS HEDGES
truthdig.com
Tutti coloro che ricorrono alla violenza, sottoforma di atti di terrorismo o di guerra, sono dei necrofili. Venerano la morte. Sacrificano la vita, talvolta anche la loro, per l’inebriante ebbrezza che si prova nel diventare un angelo di distruzione. E sulla scia del furore e della violenza, non solo lasciano odio, dolore e sofferenza, ma danno inizio a nuove spirali di vendetta e di omicidi, come un karma negativo. Questi assassini ci vengono presentati in varie forme: confezionati come eroi della patria, con file di medaglie sul petto, come David Petraeus o Stanley McChrystal, o come dei cattivi barbuti che irrompono sulla scena con indosso cinture esplosive. Ma sono tutti assassini. Bevono tutti lo stesso oscuro elisir di morte. Consumano tutti la stessa droga. Prendono la vita in nome di alti ideali nazionalistici o religiosi. Sono loro il flagello della razza umana.
Nella foto: il rabbino Meir Kahane, capo del partito Kach, ucciso a New York il 5 novembre 1990
Zak Ebrahim, col quale ho parlato a Philadelphia, conosce da vicino il triste ritornello della ritorsione, della violenza e della vendetta. Suo padre è El Sayid Nosair che, il 5 novembre 1990, a New York, uccise il rabbino Meir Kahane, capo del partito Kach, etichettato dalle Nazioni Unite, dal Canada e dall’Unione Europea come organizzazione terroristica. Il partito, nel 1988, fu dichiarato fuorilegge dal governo israeliano, perché incitava al razzismo. I seguaci di Kahane, che ho incontrato spesso, armati fino ai denti, in posti di blocco improvvisati nei territori palestinesi occupati, erano i responsabili dell’uccisione e del pestaggio di decine di palestinesi disarmati. Organizzavano delle adunate a Gerusalemme durante le quali gridavano “Morte agli arabi!” . Molti palestinesi, così come molti musulmani del mondo arabo, celebrano il padre di Ebrahim, oggi detenuto nell’ ADX Florence Supermax Prison (carcere di massima sicurezza, ntd) a Florence, in Colorado, come un eroe. Ma per suo figlio, che allora aveva 7 anni, è tutt’altro che un eroe. È un padre assente, per il quale uccidere per un ideale è stato più importante che vivere con sua moglie e con i suoi tre bambini piccoli. E se c’è qualcuno in grado di capire la linea di demarcazione tra le seduttrici ideologie di morte e la fragilità e la santità dei sistemi di vita, quello è Ebrahim.
Suo padre, come molti altri immigrati arrivati negli Stati Uniti da giovani adulti, non aveva vita facile. Quando viveva a Pittsburgh, una donna che voleva convertirsi all’Islam lo accusò di violenza sessuale. Alla fine fu scagionato per mancanza di prove, ma diventò sospettoso e diffidente nei confronti della cultura americana. Si trasferì con la famiglia a Jersey City, nel New Jersey, dove un cugino gli offrì un lavoro. Qualche mese più tardi rimase folgorato da una scarica elettrica. Non poté lavorare per settimane. Cadde in una profonda depressione.
“Trascorreva molto tempo seduto accanto al radiatore in soggiorno, a pregare e a leggere il Corano”, racconta Ebrahim. “Questi due avvenimenti , che non si sarebbe mai aspettato quando lasciò l’Egitto, lo fecero avvicinare a un gruppo musulmano, nel quale si sentiva più a suo agio. Sfortunatamente, questo lo condusse allo sceicco Omar Abdul Rahman”.
Rahman, un cieco religioso egiziano coinvolto nel bombardamento del World Trade Center del 1993, era il leader di una moschea integralista di Jersey City. Al momento sta scontando un ergastolo al Medical Center (Casa di Cura e di Custodia, ntd), che fa parte del Federal Correctional Institution (Carcere Federale, ntd) di Butner, nel North Carolina. L’attacco del 1993 fece sei vittime, compresa una donna incinta, e centinaia di feriti.
“Me lo ricordo come un normalissimo padre egiziano di religione musulmana”, dice Ebrahim, 27 anni, in un inglese fluido e senza alcuna inflessione. “ Era divertente, cercava sempre di farci ridere. Eravamo felici: i miei genitori non litigavano mai e mio padre non era mai violento con noi. Nel corso dell’ultimo anno, quando iniziò a frequentare la moschea Masjid Al-Salaam di Jersey City, si allontanò da noi. Mia madre si accorse che stava diventando più integralista. Trascorreva sempre più tempo in compagnia di quel gruppo di musulmani, poi annunciò che voleva andare in Afghanistan a combattere la guerra afgana. Fece venire qui mio nonno dall’Egitto e cercò di convincerlo a riportare la famiglia in patria, in modo che lui potesse andare a combattere. Mia madre non voleva assolutamente che si unisse a quella guerra.”
Il padre di Nosair impedì con forza al figlio di andare in Afghanistan e gli disse che il suo dovere era quello di rimanere a casa e di provvedere alla sua famiglia.
“Trascorreva sempre più tempo alla moschea”, ricorda Ebrahim, il cui vero nome è Abdulaziz El-Sayed Nosair, che ha cambiato dopo l’omicidio di Kahane. “Al secondo piano della moschea c’era un negozietto che vendeva materiale islamico, Corani e manifesti, che erano utilizzati al fine di raccogliere fondi per la guerra in Afghanistan. Non so quale sia stato il punto di svolta, ma quando suo padre gli disse che doveva assumersi le sue responsabilità e restare a casa per prendersi cura della sua famiglia, rimase con la voglia di fare qualcosa per aiutare i suoi fratelli musulmani, o comunque la vedesse lui, e decise di intraprendere una strada diversa. Se la prese con gli abitanti degli Stati Uniti.
Poco prima dell’omicidio, Nosair, che riparava condizionatori nei tribunali di New York, portò suo figlio in un poligono di Long Island. Saltò fuori che il poligono era sotto sorveglianza dell’FBI. Padre e figlio si esercitarono a sparare con fucili automatici.
“Con l’arresto di mio padre, sono stato costretto a comprendere molto presto che ricorrere alla violenza per risolvere una situazione peggiora solo le cose”, dice Ebrahim. “Mi è stato chiaro fin dal principio: sono state uccise così tante persone per vendicare la morte di Kahane, compreso suo figlio, che è stato ammazzato con la moglie e alcuni dei suoi figli. Uccidere non risolve nulla. È solo uno strumento per incrementare il fanatismo dei gruppi estremisti”.
Da bambino, Ebrahim partiva con la madre, la sorella e il fratello per trascorrere tre giorni e due notti col padre in un modesto alloggio dell’Attica State Prison (Carcere di Stato, ndt).
“Potete affittare un film”, diceva. “C’era un piccolo parco giochi. Erano tre giorni in cui potevamo sentirci come una famiglia normale, a differenza dei restanti 362. Per un paio di giorni fingevamo di essere una famiglia felice, poi potevamo tornarcene a casa a Jersey City, poveri e senza un padre”.
“Penso che sia stato costretto da persone molto astute, capaci di trasformare musulmani insoddisfatti in estremisti, anche se alla fine la responsabilità per ciò che ha fatto è solo sua”, dice Ebrahim a proposito dell’adesione di suo padre al terrorismo. “La maggior parte degli uomini coinvolti nell’assassinio e nel bombardamento del World Trade Center del 1993 sono stati plagiati. Erano pedine. Sono stati usati. Queste persone avevano capito molto poco di ciò che stavano facendo, anche se molti di loro avevano un alto grado d’istruzione. Conoscevo Mohammed Salameh, anche lui coinvolto nel bombardamento del World Trade Center del 1993. Voleva sposare mia sorella. Negli anni successivi all’arresto di mio padre, Salameh rese noto che voleva sposare mia sorella. Diceva che sarebbe stato un grande onore per lui, ma vedevo che era molto giovane e ingenuo. Molte delle persone che vengono in questo paese cercano un modo per sentirsi integrati e cose che ricordino casa loro. È impressionante quello che la gente può fare quando si sente parte di un gruppo”.
In conseguenza alla morte da Kahane la vita si fece parecchio dura per la famiglia di Ebrahim. Le donazioni e i soldi offerti da Osama Bin Laden per pagare la difesa del padre, guidata dall’avvocato radicale William Kunstler, alla fine finirono. Ebrahim, sua madre, sua sorella e suo fratello caddero in completa povertà. Il direttore della Cliffside Elementary School disse che Ebrahim e il suo fratellino non potevano più frequentare la scuola. I bambini, per un periodo, ricevettero istruzione da una scuola privata islamica di Jersey City. Durante l’ infanzia Ebrahim e la sua famiglia, che aveva gravi difficoltà di sussistenza, si trasferì 22 volte; per un po’ vissero in Egitto. Quando la madre divorziò da Nosair, l’arrivo di un patrigno violento non fece che accrescere il trauma. Ebrahim disse a conoscenti e amici che suo padre era morto di infarto, tenendone segreta l’identità fino a quest’anno.
“Mia madre non solo portava l’hegab (velo islamico, ntd), ma il nekab, che copre anche il volto”, dice. “E per questo era costantemente attaccata per strada (negli USA) anche se la gente non sapeva chi fosse. Era incredibile quante volte gli immigrati, con un forte accento straniero, le dicessero di tornarsene al suo paese; e lei era nata a Pittsburgh! La chiamavano “ninja” o “fantasma”. Dopo il bombardamento al World Trade Center, quando uscivamo, era spesso fatta oggetto di scherno.
Ebrahim non vede suo padre da 15 anni e non parla con lui da oltre un decennio. Sta dedicando la vita a raccontare la sua testimonianza in qualità di portavoce della tolleranza. Il suo un sito internet è www.zakebrahim.com
“Subito dopo l’arresto ci sentivamo regolarmente, almeno una volta a settimana o una volta ogni due”, racconta. “La cosa diventò molto monotona. Stavo passando un brutto periodo a scuola e a casa. A scuola ero vittima dei bulli e a casa del mio patrigno. Parlare con mio padre che mi diceva di dire le preghiere e di essere buono con la mamma diventò banale. Ripeteva sempre le stesse cose. Se davvero era interessato a quello che stava accadendo nella mia vita avrebbe dovuto restarci”.
“Sparimmo dalla circolazione”, dice di sua madre e dei suoi due fratelli. “Quando ci trasferimmo in Egitto cambiammo nome. Non volevamo che si sapesse che eravamo lì. Mio padre è un nome familiare in Egitto. Tagliammo i ponti con lui. Per anni ha cercato di mettersi in contatto con noi”.
“Se ci sedessimo uno di fronte all’altro non saprei che cosa dire”, sostiene. “Ho trascorso così tanto tempo a cercare di proteggermi dal male che mi ha fatto, che l’idea di avere un giorno una conversazione adulta con lui ha perso di importanza. Forse è un meccanismo di difesa. È più facile per me non dare troppa importanza alle risposte che potrebbe darmi. Ha trascorso 20 anni in prigione, di cui 10 senza avere contatti con i propri figli. Mi chiedo se questo gli faccia rimpiangere la sua decisione, ma chissà. Molte persone che commettono atti del genere in nome della religione si sentono dei martiri”.
“Vengo da un ambiente estremista”, afferma. “ Sono stato esposto a ciò che gli americani temono di più dell’Islam, ma io promuovo la pace. Non sono un fanatico. Dobbiamo accogliere la tolleranza e la nonviolenza. Chi può dirlo meglio del figlio di un terrorista?”
Chris Hedges
Fonte: www.truthdig.com
Liink: http://www.truthdig.com/report/item/wisdom_of_the_terrorists_son_20100920/
25.09.2010
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di DANIA MORINI