DI SEUMAS MILNE
È passata appena una generazione dalla fine dell’impero britannico e già la sua riabilitazione è oggetto di un’offensiva, discreta ma ben concertata, da parte di influenti giornali britannici, di professori universitari conservatori, fino al massimo livello del governo.
Si è avuto modo di apprezzare le dimensioni di questa campagna allorché, nel gennaio scorso, Gordon Brown, attuale ministro delle finanze, ed anche erede presunto di Tony Blair, ha dichiarato nell’Africa dell’Est: «È tramontata l’epoca in cui la Gran Bretagna doveva scusarsi per la sua storia coloniale (1)». Affidata al Daily Mail – alla testa del coro a favore della riabilitazione – poco prima dell’avvio della campagna per le elezioni politiche di questa primavera, tale osservazione chiaramente non può essere considerata uno sproposito.
Infatti, intervistato quattro mesi prima dallo stesso quotidiano (2) nel British Museum di Londra – autentica grotta di Aladino, traboccante di tesori saccheggiati nelle ex colonie britanniche – , Brown aveva già affermato: «Dovremmo essere fieri (…) dell’impero». Neppure Tony Blair si era mai spinto così lontano, visto che si è lasciato convincere a eliminare una frase abbastanza simile da uno dei suoi discorsi elettorali del 1997, l’anno in cui per la prima volta salì al potere (3).Nel gennaio scorso la stampa britannica al gran completo ha ripreso senza commenti le dichiarazioni sconvolgenti di Gordon Brown. L’appoggio dichiarato da un ministro delle finanze a quello che, fino a poco tempo fa passava per revisionismo della destra più estremista, non poteva sfuggire però alla parte dell’opinione pubblica cui era diretto.
Nonostante i suoi entusiasmi neoliberisti e la sua alleanza con il primo ministro, l’uomo si è sempre sforzato di dare l’impressione di essere più egualitario, più socialdemocratico del suo rivale del New Labour. Le sue simpatie dichiarate per l’impero saranno state una sgradevole sorpresa per quanti si aspettano una rottura con le rodomontate del neo-imperialismo liberista e le guerre d’intervento che hanno contrassegnato il regno di Tony Blair. Ma la decisione che adesso ostenta avvolgendosi a sua volta nella Union Jack – il «grembiule da macellaio», secondo la celebre espressione del socialista irlandese James Connolly – avrà certo fatto buona impressione tra i componenti del potere che intende sedurre.
Diritti umani, mercato e buon governo L’establishment britannico (governo, mass media, ecc.) ritiene che la decolonizzazione sia una storia antica, e non ha mai fatto il minimo tentativo di rivisitare quello che vi era avvenuto. Negli anni successivi alla sanguinosa ritirata delle truppe britanniche da Aden (Yemen), nel 1967, non c’è praticamente stato un dibattito pubblico sui metodi utilizzati dalla Corona per conservare il suo potere su un quarto dell’intera popolazione mondiale fino alla metà del XX secolo.
La riabilitazione dell’impero risale all’inizio degli anni novanta, allorché, negli Stati uniti come in Gran Bretagna, alcune voci dissidenti hanno preso a pretesto il disastroso intervento americano in Somalia per abbozzare il progetto «idealista» di creare in Africa nuove colonie la cui amministrazione sarebbe stata affidata all’Onu. Nel gennaio 1993, il Wall Street Journal si è addirittura spinto fino ad illustrare un editoriale dedicato a tale idea con una foto di Lord Kitchener, colonialista britannico responsabile nel secolo scorso del massacro dei seguaci del Mahdi in Sudan.
Con le guerre dei Balcani negli anni novanta, il principio di «intervento umanitario» ha poi fatto numerosi proseliti fra i liberisti occidentali.
Mentre fino alla fine del XIX secolo la diffusione della civiltà cristiana e del commercio serviva a giustificazione all’imperialismo liberista, al giorno d’oggi il discorso verte sui diritti umani, i mercati e il buon governo.
Al culmine della guerra del Kosovo, Tony Blair ha lanciato quello che è inevitabile definire un appello a una nuova ondata di intervento mondiale, basata su una astuta commistione di interesse personale e di obiettivi morali. Solo un anno dopo applicava la «dottrina della comunità internazionale» all’ex colonia della Sierra Leone, paese in cui le truppe britanniche sono state inviate , dopo trentanove anni d’assenza per intervenire in una guerra civile interminabile e quanto mai sanguinosa.
Gli attentati del settembre 2001 a New York e a Washington, poi l’invasione, sotto il controllo degli Stati uniti, di quell’ex territorio dell’impero britannico che è l’Afghanistan, hanno messo a nudo la vera natura di una politica di cui si taceva pudicamente il nome nelle stanze del potere. Nella primavera successiva, Robert Cooper, consigliere di Blair per gli affari esteri e inviato in Afghanistan (attualmente lavora per Javier Solana nel Consiglio dell’Unione europea) ha pubblicato un opuscolo in cui difende «un nuovo tipo di imperialismo, accettabile per il mondo dei diritti umani e delle opinioni cosmopolite» (4); più o meno nello stesso momento, il primo ministro britannico confidava in privato di essere favorevole a un intervento militare nelle ex colonie britanniche dello Zimbabwe e della Birmania.
Questo avventurismo politico è stato frenato, almeno temporaneamente, dalla catastrofe politica e umana innescata dalla guerra in Iraq e dall’occupazione del paese. Tuttavia, gli interventi militari dei paesi occidentali hanno creato un clima più favorevole per questa moda reazionaria e ispirata al passato; hanno offerto l’occasione sia ai commentatori che agli storici britannici conservatori quali Niall Ferguson e Andrew Roberts di atteggiarsi a paladini del nuovo imperialismo e di riscrivere la storia del passato coloniale. Sostenitore dichiarato di un impero mondiale diretto dagli Stati uniti, Ferguson, autore di L’Impero, ovvero come la Gran Bretagna ha creato il mondo moderno (5) difende il colonialismo britannico, che ai suoi occhi sarebbe il precursore della globalizzazione degli scambi commerciali del XXI secolo, e si trova in perfetta sintonia con l’elogio rivolto da Gordon Brown ai «mercanti, avventurieri e missionari» costruttori dell’impero.
Altro storico thatcheriano, peraltro molto presente sulla stampa d’oltre Manica, Roberts esalta apertamente la ricolonizzazione dell’Africa, sostenendo che tale continente «non ha mai conosciuto un’epoca più bella di quella vissuta sotto l’amministrazione britannica». Reagendo alle recenti affermazioni del presidente del Sudafrica che denunciava Churchill e il «terribile retaggio» dell’impero britannico, Roberts ha tranquillamente dichiarato, dai microfoni della Bbc, che l’impero aveva portato «la libertà e la giustizia» a un mondo sino allora sprofondato «nelle tenebre dell’ignoranza» (6).
Sarebbe interessante vedere come farebbe Roberts per conciliare queste affermazioni grottesche con le più recenti ricerche sulle atrocità perpetrate su larghissima scala delle forze britanniche in Kenya, all’epoca della rivolta dei Mau Mau negli anni cinquanta: 320.000 kikuyu detenuti nei campi di concentramento, 1.090 impiccagioni, violenze orchestrate per terrorizzare i villaggi, a cui vanno aggiunti gli elettrochoc, i pestaggi, gli stupri collettivi di cui parla con dovizia di particolari Caroline Elkin in un libro di recente pubblicazione, Il gulag britannico (7) – un macabro bilancio di gran lunga superiore ai 100.000 morti.
All’epoca, i soldati britannici ricevevano un premio di 5 scellini (circa 7 euro al corso attuale) ogni volta che uccidevano un kikuyu di sesso maschile e non esitavano a inchiodare sui segnali stradali le membra squartate dei ribelli africani. E, in un’altra guerra che fece più di 10.000 morti (in Malesia), si facevano fotografare tenendo tra le mani le teste mozze dei «terroristi» comunisti malesi. In un documentario recentemente trasmesso in televisione (8), alcuni veterani hanno descritto le sevizie, le torture, gli assassini commessi alla fine degli anni sessanta dai soldati britannici prima della ritirata da Aden – gesta di cui un ex squadrista si rifiutò di parlare per paura di essere perseguito per crimini di guerra. E tutto ciò è stato perpetrato in nome della civiltà: la continuità con quanto avviene attualmente in Iraq non potrebbe essere più evidente.
L’alibi d’un nuovo imperialismo Simili prove vengono a correggere opportunamente il mito molto comodo secondo cui, a differenza della Francia e delle altre potenze coloniali europee, la Gran Bretagna avrebbe conosciuto una decolonizzazione pacifica e umana. Gli episodi di violenza che scandiscono il declino dell’impero non sono tuttavia incidenti isolati in un glorioso percorso sulla via della libertà e del buon governo, come vorrebbero farci credere Ferguson e gli altri portabandiera dell’imperialismo moderno.
Costruito in realtà sul genocidio, sulla pulizia etnica su vasta scala e sulla schiavitù, l’impero britannico ha rigorosamente imposto la gerarchia razziale e uno sfruttamento spietato. Per citare Richard Drayton, storico di Cambridge: «Ci riempiono le orecchie parlando di preminenza del diritto, di governo incorruttibile, di progresso economico: tirannia, oppressione, povertà, morti inutili di milioni e milioni di esseri umani, ecco qual era la realtà (9)».
Alcuni apologeti dell’impero sostengono che se la fase iniziale della colonizzazione forse è stata brutale, la storia del XIX e del XX secolo è quella della libertà e del progresso economico. Ma sono frottole. In India, perla della corona di sua maestà britannica, le carestie della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo fecero più di 30 milioni di morti, ma non hanno impedito agli amministratori britannici di esportare i raccolti di cereali (come in Irlanda ai tempi della grande carestia del 1840), né ai tribunali di far eseguire 80.000 flagellazioni all’anno.
Quattro milioni di persone sono morte di fame nel Bengala nel 1943, durante una carestia che era peraltro evitabile, visto che non ce ne sono più state di simili dimensioni dopo la conquista dell’indipendenza.
L’attuale Bangladesh era una delle regioni più ricche del mondo prima dell’arrivo dei britannici, che ne hanno smantellato di proposito l’industria tessile. Allorché lo tsunami del dicembre scorso ha devastato le isole Andaman, qualcuno si è ricordato forse che all’inizio del XX secolo ben 80.000 prigionieri politici vi erano detenuti nei campi in cui servivano da cavie ai medici dell’esercito britannico (10)?
In Gran Bretagna non c’è mai stato alcun tentativo serio di affrontare queste verità e le conseguenze durature del colonialismo sulle società che lo hanno subito – dal Kashmir alla Palestina, dallo Zimbabwe all’Iraq. Per quanto riguarda gli amministratori coloniali, possono trascorrere giorni tranquilli nelle loro villette da pensionati nel Surrey, senza temere di essere trascinati in tribunale. I manuali di storia contemporanea distribuiti ai liceali di 16 anni contengono interi capitoli dedicati alle due guerre mondiali, alla guerra fredda, all’evoluzione dello stile di vita britannico e americano, al regime di terrore di Stalin e alle mostruosità dei nazisti, ma quasi non fanno cenno né degli imperi europei, quello britannico e gli altri che si sono spartiti una così grande parte del mondo, né degli orrori che hanno perpetrato.
Più che di scuse o dichiarazioni di colpevolezza, il paese ha bisogno che si insegni questa storia, si prenda atto degli errori commessi e in una certa qual misura si cerchi di ripararli: la presa di coscienza che ai tentativi di imporre un’autorità estranea ai popoli sottomessi, segue ineluttabilmente la barbarie. Coloro che cancellano la ferocia coloniale dalla storia del XX secolo lo fanno per legittimare il nuovo imperialismo – oggi come oggi impantanato in Iraq – così come coloro che demonizzano gli sforzi storici per costruire una società diversa da quella capitalista vogliono dimostrare che quest’ultima è l’unica scelta possibile. Se Gordon Brown veramente ambisce a riportare in auge il fair play britannico – e a instaurare un rapporto diverso con l’Africa – invece di inneggiare al dispotismo razzista, farebbe meglio a riservare i suoi elogi a coloro che lo hanno denunciato, battendosi per la libertà delle colonie.
Seumas Milne
Giornalista, cronista del Guardian (Londra) Autore di The Enemy within. The Secret War against the Miners (Il nemico interno. La guerra segreta contro i minatori) Verso, Londra, 2004.
Fonte:Le Monde Diplomatique
Maggio 2005
Note:
(1) Daily Mail, 5 gennaio 2005.
(2) Daily Mail, 14 settembre 2004.
(3) John Kampfner, Blair’s Wars, Free Press, Londra, 2003.
Seumas Milne
(4) Robert Cooper, Reordering the World, Foreign Policy Centre, 2002.
(5) Niall Ferguson, Empire: How Britain Made the Modern World, Allen Lane, Londra, 2003.
(6) Daily Mail, 8 gennaio 2005.
(7) Caroline Elkins, Britain’s Gulag, Jonathan Cape, Londra, 2005.
(8) «Empire Warriors» diffuso dalla rete Bbc 2, 19 novembre 2004.
(9) Discorso alla Royal Geographical Society, Londra 1 giugno 2001.
(10) Mike Davis, Olocausti tardovittoriani, Feltrinelli, 2002.
(Traduzione di R. I.)