DI LUCA PAKAROV
rollingstonemagazine.it
E’ passato quasi un secolo e mezzo da quando Engels ebbe a dire che Barcellona è la città con il maggior numero di rivolte con barricate. Al signor Engels la città di Barcellona, ma in generale la Spagna, non andava troppo a genio, proprio qui infatti un ometto mingherlino, un italiano che di cognome faceva Fanelli e non parlava una parola di spagnolo fece breccia nel cuore dei lavoratori portando la buena nuova, convincendoli ad aderire all’Alleanza non autoritaria del russo Bakunin piuttosto che all’Internazionale di Marx. Un Engels furioso scriverà in seguito vari pamphlet in cui descrisse la penisola iberica come una specie di campo di reclutamento per anarchici.
Oggi non ci sono barricate ma tende da campeggio. Centocinquanta anni dopo, gli spagnoli sono indignados, indignati, e anche questa volta scelgono la via più difficile, quella della non rappresentanza, quella in cui non ci sono bandiere. Né anarchici, né sindacati, tanto meno partiti politici.
Fino a qualche settimana fa i giornali parlavano di una serena trasversalità fra i partecipanti, di ideologie diverse in dialogo, di un fermento del pensiero ma ora, è chiaro, questo che sembrava un gioco, il classico gioco degli insubordinati tollerato per garantire l’apparente democrazia, inizia ad impensierire. Soprattutto perché questi pazzoidi ubriaconi tossici senzatetto della piazza Cataluña o della piazza di Neptuno a Madrid ancora non hanno saccheggiato, incendiato, violentato né ucciso. Ma allora che rivoluzionari sono? Chi sono?
Semplicemente gente normale, normalissima, incazzatissima. E’ incredibile come si perpetui un certo tipo di domande senza mai chiedersi: cosa sta facendo la politica e l’economia per rispondere a tanto malessere? Dove sono i governi e i governatori dei massimi sistemi che dovrebbero rispondere al popolo?
Certo, uno va a Barcellona e vorrebbe almeno dare qualche pezzetto di pane ai piccioni di piazza Cataluña ma si ritrova con i primi indignados, i volatili, questi sorci dell’aria a cui è stata tolta la casa e che planano minacciosi ad altezza uomo ma la battaglia, la loro almeno, è bella che persa. Infatti i primi con cui riesco a parlare sono due sposini italiani che vivono in cima ad un albero della piazza. Si sono costruiti la mitica casa sull’albero che tutti almeno una volta, da piccoli, abbiamo desiderato, solo che mai avremmo pensato che potesse essere al centro di una metropoli. Che ci fate lì? Chiedo. Come che ci facciamo? Per come va il mondo, no? Rispondono. Perché come va il mondo? Insisto. Male, non lo vedi che il mondo va male? Sì, ok, ma potreste essere appena più concreti? Senti bello, abbiamo da fare – il tipo sta rollando una canna – chiedi a qualcun altro. Cerco per un attimo di immaginare uno scenario del genere a piazza Duomo a Milano o a San Giovanni ma francamente, con tutta la fantasia di questo mondo, non ce la faccio.
Chiedo ad un altro e poi ad una che magari vorrebbe pure spiegarmi ma il puzzo nauseabondo mi fa allontanare. Comincio a pensare che quello che ho letto sui giornali (di destra e di sinistra) sia tutto vero. Ultimamente c’è stato un vero stillicidio verso chi protesta e al primo impatto sembra proprio di sparare sulla croce rossa anche perché l’estetica perroflauta di molti di loro, i nostrani punkabbestia, non aiuta, prestandosi all’ironia e al dileggio soprattutto da chi con una penna in mano ha l’obbligo di scrivere un pezzo entro le prossime tre ore. Così, a guardarli da fuori, è difficile prendere seriamente gli indignados soprattutto quando vengo a sapere che già sono divisi, alcuni hanno votato per sbaraccare l’accampamento di piazza Cataluña altri no. Addirittura alcuni di quelli rimasti avrebbero voluto organizzare un “Antisonar”, un rave antagonista al noto festival di musica elettronica di Barcellona. Insomma la stronzaggine massima. Un invito a nozze per chi non vede l’ora di etichettarli in qualche modo, lasciando scorrazzare incontrollabili storie di speed e pasticche.
Allora, ancora poco convinto, mi dirigo al comitato di comunicazione con la stampa e incontro Angelina, una giornalista che in piazza Cataluña ha il compito di esporre 24 ore al giorno no-stop cosa sta succedendo. Mi chiede se scrivo per qualcuno. Le rispondo, Certo, conosci il Washington Post? Si impettisce tutta e con un sorriso mi dice, Sicuro che lo conosco. Beh, non è quello. Rimane disorientata ma non si perde d’animo – deve essere pieno di coglioni come me che cazzeggiano – e mi racconta che il movimento chiamato #15M è iniziato già molto tempo prima su forum e piattaforme di discussione. Gente che volontariamente ha cominciato a trattare temi economici e politici, persone che, dice lei, si sono staccate dal televisore per cercare la via di una democrazia attiva e soprattutto orizzontale. Una democrazia autogestita basata sull’armonia e i cicli naturali del pianeta. Mecoglioni. Poi senza prendere fiato mi spara legge Omnibus, parità dei diritti, riforma lavorativa, patto dell’euro e gruppo Bilderberg. Altro? Il politico deve lavorare per il popolo. Parole d’ordine come organizzare, assemblee e commissione mi stendono. Sto per perdere i sensi finché non mi dice: E’ importante che chi legge il Washington Post sappia che noi non abbiamo una democrazia come nel resto d’Europa, è il Re il capo dell’esercito, è il re (da qui volutamente in minuscolo) che decide se fare un referendum o meno, è il re che dal ’75 decide la casta al potere. Ok, va bene se questo lo giro pure al New York Times? Sì, certo.
Ma è Luis Buendia ad attirare la mia attenzione, che, non solo per il nome, mi ricorda il José di Cent’anni di solitudine e fondatore di Macondo. La sua Macondo è questa piazza strampalata e colorata e che non vuole lasciare. Mi mette in mano una stampa intitolata “Porque vivo en un arbol” e ci tiene a firmarmela. Si dev’essere sparsa la voce che sono l’inviato italiano da Washington. Purtroppo però Luis non verrà ricordato in ambito letterario. Mi racconta le sue ultime imprese rivoluzionarie compiute con alcuni compagni, in ordine: bloccare lo sfratto di due famiglie, scrivere i cognomi Rothschild, Rockfeller, Puig sotto a centododici ingiurie differenti, delle performance di teatro davanti a banche dove (non so perché ma forse ho capito male) una tigre fotte una capretta. Ho intorno un capannello di gente e faccio notare che attualmente il pericolo maggiore – è chiaramente una mossa per fare l’intelligente di fronte a la biondina che mi si accosta, non per altro – è che la logica mercantile nella quale siamo imbevuti, contamini anche le idee e ci conduca ad appassionarci a fasi alterne, a partecipare solo quando emotivamente coinvolti. Cito pure Bauman ma la biondina sparisce. Allora Pedro, un ometto anziano e vispo, mi spiega che la strategia da qui in avanti sarà quella di lavorare in piccolo, di fare delle assemblee programmate settimanalmente nei 22 quartieri di Barcellona, sarà (è, visto che sono cominciate) il passaggio successivo alla piazza, e forse l’unico modo per non allentare la partecipazione di una popolazione che all’improvviso sembra despierta. In ogni quartiere si elaboreranno proposte per il quartiere stesso, per la città e per lo stato tutto. Poi si dibatteranno una volta a settimana nella piazza Cataluña.
Poi sul palco salgono i lavoratori di Telepizza, Parco y Jardins, Autobus BCN, Nissan e altri. Uno alla volta raccontano le sconce vicende dello sfruttamento. Quello che più mi colpisce è tal Diosdado Toledano, presidente dell’Assemblea dei disoccupati di Barcellona, il quale fa un discorso a braccio commovente e suggestivo che verrebbe voglia almeno di sfasciare una vetrina. Ma qui non ci sono casseur o black block anche se si vorrebbe, farebbe infatti comodo a molti per mettere la piazza irrimediabilmente contro l’opinione pubblica che, finora, sembra appoggiarli. Ma i teppisti propriamente detti non ci sono e quando appaiono (il sottoscritto parla con cognizione di causa in quanto presente alla scena il mercoledì di fronte al Parlamento catalano) è la stessa piazza ad isolarli. Succede che, guarda caso, almeno in questo caso, accade quello che molte altre volte si è visto in altre piazze: un gruppo di Mossos d’Esquadra (è l’incazzosa polizia catalano) viene a scortare amichevolmente i sei violenti che intanto si sono coperti il volto e stanno bloccati dai manifestanti pacifici all’ingresso di un edificio. I sei spariscono dietro le camionette della polizia ma non sembrano troppo preoccupati. Gli stessi Mossos d’Esquadra quella stessa mattina del 15 giugno non sono riusciti a scortare i pochi politici che volevano entrare dall’ingresso principale del parlamento catalano, facendoli arrivare in elicottero. Quella mattina in programma c’era la votazione per la drastica riduzione dei finanziamenti ai servizi sociali e all’educazione, tagli ovviamente non contemplati nel programma politico prima delle elezioni. L’aver bloccato il parlamento pacificamente sembra sia stato un caso di lesa maestà che da ogni parte hanno prontamente condannato. Ci si chiede allora, come si dovrebbe protestare? Qual è la maniera per manifestare l’indignazione? Bisogna forse proibire il malessere delle persone? A nessuno dei politici viene magari in mente che la “pace capitalista televisiva” sia terminata? Vallo a capire.
Ma nella piazza Cataluña ora è il mio turno visto che tutti possono raccontare la loro esperienza io riporto qualche esempio di precariato italiano. Racconto dell’amico di Obama in maglioncino che a qualcuno tanto piace e dei miei amici che in fabbrica ci lavorano. Per una volta ho dell’ottimismo e mi sento di annunciare che anche da noi qualcosa si sta muovendo e, incredibile, mi sento orgoglioso del bel paese. Uno mi urla, A buenas oras! Mi piglio pure un mezzo applauso risicato.
Ecco quindi la magia, pure io, brutto zuccone, riesco a svegliarmi dal mio letargo. Attorno mi ritrovo gente di ogni età, famiglie, mondi all’apparenza diversi, uno in canottiera che deve avere avuto giorni migliori parla con uno in giacca, uno che deve essere un professore fa una lezione a una decina di ragazzi giovanissimi, tutti dibattono, discutono. Io a piazza Cataluña fino adesso c’ero venuto solo per dare da mangiare ai pennuti e ora mi ritrovo felicemente in una vera agorà greca, vera e soprattutto spontanea. Mi rendo conto che cose eteree, irraggiungibili e impensabili e impenetrabili, come Banco Mondiale, Politica, Globalizzazione che siamo abituati a percepire come entità metafisiche, fantasmi spaventosi, finalmente scendono dal cielo e le ritrovi lì in piazza, all’incanto, nei volantini esplicativi e nelle esperienze dirette della gente, finalmente, alla portata di ognuno di noi. Questa è forse l’unica rivoluzione pensabile e indignarsi è come minimo indispensabile perché, se proprio vogliamo metterci a pensar male e ci va di berci che le maggiori banche mondiali – parliamo di gente che da centinaia di anni presta soldi in cambio di interessi – si siano messe a regalare denaro senza nessuna garanzia, così, per bontà, o se proprio vogliamo fare un esempio e fare i conti in tasca alla persona più ricca del mondo, il signor Carlos Slim che, in piena crisi economica, grazie ai suoi investimenti nei paesi in default, ha aumentato di 15milioni, dico 15milioni, di dollari il proprio patrimonio, allora, forse, chissà, può darsi, potrebbe pure essere, si potrebbe pure credere, lontanamente, ad un piano architettato a tavolino e quasi ben riuscito. Dico quasi perché l’impressione è che il nord africa in fiamme e la gente in piazza non fossero previsti da codesti signori.
Poi c’è il corteo. I numeri dicono 100mila solo a Barcellona. Ma che importa? Siamo tanti. C’è musica, cori, maschere e tutto l’ambaradan di una festa e, come detto, nessuna bandiera politica. Un pellegrinaggio laico e benefico. Si sta stretti, è un quadro impressionante perché c’è di tutto dentro, ogni stile, ogni tipo di individuo. Io sono allegro e come in ogni finale idiota c’è anche il tempo per l’amore. Nel corteo che si snoda dalla piazza Cataluña, in via Laietana conosco Emma, le spiego, mentendo, che potrei essere un pezzo grosso se qualcuno avesse il coraggio di pubblicarmi, ma lei vuole parlare del movimento e dopo un po’ usciamo dal gruppo per infilarci in un bar molto francese. E’ come se la conoscessi da dieci anni, lei sfacchina in una casa editrice ma è stanca di lavorare 10 ore al giorno. Questo l’inizio e il resto anche, decisamente, risulta interessante soprattutto perché a parte di antistatalismo e estetica della rivoluzione devia su letteratura e birre Voll Damm. Senza sapere perché e per come mi ritrovo un essere umano nudo e non solo come un pezzo di carne appeso ad un gancio, sento che c’è una cosa che mi brucia lì nel mezzo e di cui non ricordavo nemmeno l’esistenza, un effetto terrorizzante ma di cui mi compiaccio, la vedo parlare, parla dei dipendenti di Telefonica in Perù trasferiti in Spagna per metà della paga, ma io sono già immerso in un mondo di musichette e fiorellini, completamente scemo mi perdo probabilmente quella che fu la conversazione più intensa (sì, intensa cara Emma, come Barcellona quando piove) degli ultimi tempi. Senza il cinismo e la mia rassicurante barriera di epiteti mi ritrovo completamente smarrito, complice rassegnato della sua intelligenza, drogato dalla sua eleganza e fatto a pezzi dalla sua sensibilità. Parla, parlami ancora Emma che il corteo può aspettare.
Se fossi riuscito ad ascoltarla certamente ora avrei un articolo migliore, ma, in fondo, chi se ne frega? Questa è anche una grande metafora in cui il bene vince e il male, l’individualismo e ogni cattivo pensiero si sciolgono sotto il sole rigenerante della primavera spagnola. Per oggi ci piace credere così. Un po’ di fottuto “Peace and Love”. Che male c’è? Ecco come quindi nella penisola iberica noi di Washington affrontiamo il problema della corruzione e del genocidio capitalista.
In Spagna oggi tira un vento di liberazione, di anni ’70, di entusiasmo ed emozioni. Anche i sentimenti si mettono a ballare come pazzi. Siamo in gioco, completamente. Mia nonna alla fine della sua stanca e dura vita non faceva che ripetermi che potevano portarmi via tutto meno che i sogni. Gente come Engels non fu mai così profonda e umana allo stesso tempo.