LA PEGGIO GIOVENTU’

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DI MATTEO ZULLO
giornaledelribelle.com

Agli albori dell’epoca post-ideologica il giornalista americano Thomas Friedman comprese che la riduzione del mondo alla “taglia unica” avrebbe comportato una “camicia di forza dorata” per tutte le società che fossero affluite verso il modello occidentale: accettazione dei diritti dell’uomo, abbattimento delle barriere doganali, primato della “tecnica” sulla “politica”…. Il 2011 è l’anno in cui la “camicia di forza” si è rivelata essere non più dorata ma di legno, e comportare vincolo del debito, giudizio dei mercati, smantellamento dello “stato sociale”. Questo ha innescato la mobilitazione della prima generazione nata e cresciuta sotto le insegne della “fine della storia”, che si è dichiarata “indignata” e ha dato il “la” a un movimento di protesta internazionale.Ma che cos’è l’“indignazione”? L’”indignazione” è il sentimento reattivo per antonomasia, ovvero il sentimento che denuncia comportamenti e non princìpi, che vuole rettificare e non ribaltare. Se si vuole tracciare un parallelo storico, è dunque corretto guardare più alle jacqueries medievali che alle grandi sollevazioni della Modernità, in cui a essere rivendicata era una stipulazione ex novo del “contratto sociale”. Basta chiedersi infatti: qual è l’alternativa proposta dagli “Indignados”? Non c’è, semplicemente. Coglie nel segno Galli della Loggia quando individua nell’“antipolitica” la cifra essenziale del fenomeno. E in effetti il sentore è proprio questo, che ci si appresti a vivere un “Nuovo Medioevo” segnato da sporadiche rivolte per il “pane”; un’epoca priva di una conflittualità strutturante ma caratterizzata da una insoddisfazione crescente.

Il capitalismo si presenta sempre più come in-vivibile (disoccupazione strutturale, precarietà esistenziale, anonimia), ma al contempo non riesce più ad alimentare un “Grande Rifiuto”. E’ necessario interrogarsi sul perché. Giustamente del capitalismo si è sempre sottolineata la capacità di risollevarsi dalle sue cicliche cadute, riproponendosi più forte di prima. Il capitalismo rinasce cioè dalla proprie ceneri, come l’araba fenice, ma diversamente da questa non rinasce mai uguale a se stesso.

Sua ultima metamorfosi epocale quella avvenuta in corrispondenza del ’68, che lo ha traghettato dalla fase borghese a quella post-borghese. E che, ancor più esplicitamente, ne ha determinato la perdita della connotazione classista, facendolo accedere allo stadio assoluto-totalitario. Se infatti nel momento borghese esso si riproduceva ancora tramite una stratificazione sociale, ribadita poi sul piano del costume e dell’ideologia, nel momento attuale il capitalismo è divenuto tutto “forma” e niente contenuto, riuscendo così a porsi come mero contesto neutro, rullo anonimo che trasporta merci senza predicar valori. Questa aspirazione alla neutralità la condivide con tutte le produzioni compiute della postmodernità: democrazia procedurale, universalismo astratto, a-valutatività delle scienze, governance economica.

In termini banali, andare a messa la domenica, recarsi al lavoro in giacca e cravatta, inorridire davanti alle devastazioni dei Black Block, in pratica cioè gli atteggiamenti ancora in gran parte tipici dei nostri genitori e dei nostri nonni, non rappresentano più il corredo ideologico di cui il capitalismo ha bisogno per perpetuarsi. Ciò a dispetto del fatto che continuino ad essere stigmatizzati dalle giovani leve, che pensano così di mettere a posto la propria coscienza rivoluzionaria e di adempiere al proprio compito illuminista, secolarista, progressista. Non sono più necessari proprio perché rappresentano un “codice”, e il capitalismo di codici non ha più bisogno. Semmai esso si esprime ora attraverso “rituali”, atti proprio a celebrare l’avvenuta sua integrazione con l’elemento un tempo anticonformista, trasgressivo, eretico: questi riti sono i concerti rock, lo sballo a base di alcol e droga, il vestirsi e l’atteggiarsi “fuori dalle righe” (si noti: se le “righe” non ci sono più, dove rinvenire il valore contestatorio di un tale comportamento?). Non è un caso che la figura dominante e archetipica dell’immaginario postmoderno sia l’“omosessuale”. Il capitalismo ha insomma incrociato la propria strada con il processo prometeico di liberazione dell’individuo, formando il binomio invincibile della “fine della storia”. La “gioventù indignata” è la compiuta espressione di questa integrazione.

E da noi, in Italia, come si sta? Possibilmente ancora peggio.

Il processo di transizione del capitalismo dalla sua fase borghese a quella post-borghese si è infatti intrecciato con un altro processo, tutto italiano: la riconversione della Sinistra ex-comunista (culturalmente egemone nel Paese) a partito neo-giacobino, legalitario, istituzionalmente corretto. La svolta è avvenuta nella fedeltà alla concezione stalinista del rapporto politica-società: in alto si decide e in basso ci si adegua. Tutto il mega-apparato comunista, annidato in ogni piega della società italiana (l’amministrazione, la cultura, l’economia), ha così istantaneamente cambiato pelle, quasi si fosse premuto il bottone di “sgancio immediato”. Di “sgancio” infatti si trattò: Marx, la bandiera rossa, il nome… di tutto bisognava fare damnatio memoriae.

Da Marx si è passati insomma a Woody Allen, dal “pensiero forte” della Rivoluzione al “pensiero debole” della tutela delle minoranze, degli omosessuali, dei più deboli (espunti tuttavia dall’appartenenza a una classe proletaria-rivoluzionaria). Non più legittimata sul piano storico, alla Sinistra non restava che appiattirsi sul piano della legalità istituzionale e della contingenza politica. Abiurato al passato e dismesso il futuro, non restava che cavalcare il presente: “maggiordomi senza più un padrone” (cfr. Costanzo Preve) ci si metteva indefinitamente alle dipendenze della tecnocrazia e della Nato; ci si zerbinava ai diktat della “stampa estera” e degli organismi internazionali.

A livello giovanile ciò si è realizzato nel passaggio dalla militanza rivoluzionaria a un “azionismo debole” tutto riversato sul piano orizzontale: dai circoli di partito ai circoli antimafia o pro-legalità, da Engels a Saviano e Zagrebelsky, da Fortebraccio a Travaglio, dalle feste dell’Unità alle marce della pace e ai cortei no-Tav. Le università e i licei in particolare sono stati i templi della svolta: qui dall’egemonia culturale comunista si è passati senza colpo ferire all’egemonia postmodernista; qui si è sparso l’humus da cui è germogliato il tipo-antropologico dell’Indignato italiano. Rigorosamente antiberlusconiano, facilmente riconoscibile nella “tenuta d’ordinanza” –kefiah, t-shirt, jeans e all-star- si aggira nei corridoi delle università (o dei licei) maneggiando volantini attraverso cui sparge la sua “indignazione”; arrivato a casa va su Facebook e “posta” l’ultimo articolo del Financial Times (in cui il nostro governo è immancabilmente descritto come “corrotto” e “incompetente”), poi si gode su YouTube l’ultima gaffe di Berlusconi e quindi se ne va a dormire felice, conscio di appartenere alla “parte giusta” del Paese.

E nel fare questo non sbaglia, in effetti. La “parte giusta” del Paese, quella che lotta per il Progresso contro la tirannide oscurantista e liberticida, fa di lui il suo eroe, lo innalza a bandiera dell’età post-ideologica e gli tesse attorno la tela di un Nuovo Frontismo, un frontismo le cui parole d’ordine sono Merito-Sviluppo-Legalità, e la cui estensione va da Fini a Vendola passando per Beppe Grillo e Montezemolo.

A scaldare i motori è un nuovo ordine politico-culturale non-competitivo come fu quello della prima-repubblica; l’Italia passerà direttamente dalla monocultura statalista alla monocultura ultracapitalista, senza aver conosciuto la fase borghese e liberale del capitalismo (quella promessa da Berlusconi ma mai realizzata). L’“ironia della storia” vorrà così che Berlusconi sarà superato sul terreno stesso del capitalismo, e che la “truffa storica” del post-comunismo passerà all’oblio.

Resta una domanda. Chi si assumerà il compito di fare l’opposizione (in senso culturale e morale più che strettamente politico)?

Quella che resterà esclusa sarà sostanzialmente una classe di nuovi parìa, in cui si ritroveranno la classe vetero-borghese, la Chiesa, la pattuglia proto-liberale. Queste componenti si ritroveranno ai margini del nuovo establishement, poiché ormai inutili e in certi casi addirittura nocive.

Nel caso della Chiesa il momento sarà particolarmente epocale: connaturale alleata del Potere, essa si ritroverà per la prima volta rigettata da esso, poiché espressione del “vecchio mondo” in cui l’uomo si prostra a una divinità diversa da sé stesso. Ratzinger è in questo senso il primo papa della Chiesa sconfitta (benché non il primo della secolarizzazione): a lui onore e gloria per la dignità titanica. Anche i liberali della “prima ora”, quelli che si riconoscono nella tradizione di Einaudi e hanno vissuto da “senza patria” nel corso della Prima Repubblica, compariranno nelle liste di proscrizione del Nuovo Potere: in primo luogo per aver creduto in B., in secondo per rappresentare la pericolosissima “memoria storica” del passato antiliberale dei Nuovi Ultraliberali. Per non parlare infine dei vetero-borghesi, dei fascistoidi e di quant’altri possano finire sotto la denominazione-tabù di “nemici della società aperta”.

Questi brandelli di società, malformi e stantii, rappresenteranno solo un cumulo di macerie ad ulteriore celebrazione del “Nuovo Potere”, che li imporrà come imperituro monito dei demoni che esso ha bandito una volta per tutte dal cielo dell’Umanità.

C’è allora bisogno che l’opposizione sorga su basi totalmente nuove, che coloro-che-non-ci-stanno corrano alle armi e inizino una battaglia sulle “idee”, guardando fino in fondo all’abisso e accorgendosi che non siamo figli di nessuno, ma bensì nani sulle spalle degli Antichi, quei maestri di “vita buona” che esaltarono il “senso del limite”, che scoprirono l’uomo come essere capace di sublimare ma anche di alienare la propria natura, che ci ammonirono sull’eventualità sempre incombente della “barbarie”.

Qualunque pensiero anti-capitalista parte da qui, dalla rivendicazione della classicità e dalla prospettazione di un “Nuovo Rinascimento”. Perché è da un Medioevo che si deve tutto sommato uscire.

L’alternativa o sarà mediterranea, comunitaria e solidaristica o non sarà. Dall’altra parte c’è la partecipazione inerte alla decadenza del mondo anglo-occidentale. Tertium non datur.

Matteo Zullo
Fonte: www.giornaledelribelle.com
Link: http://www.giornaledelribelle.com/index.php?option=com_content&task=view&id=804&Itemid=10
12.11.2011

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