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blankDI JULES DUFOUR
Mondialisation

L’11 giugno scorso, l’Istituto Internazionale per la Pace di Stoccolma (SIPRI) ha pubblicato il rapporto annuale sulle spese militari nel mondo. Le solite evidenze. Spese dell’ordine di 1200 miliardi di dollari nel 2006, un totale senza precedenti, spese in crescita rispetto al 2005 e, soprattutto, un po’ dovunque budget militari nazionali più elevati. “Un mondo armato fino ai denti secondo il parere di alcuni analisti. Come spiegazione vengono invocati i medesimi fattori: la persistenza di alcuni conflitti regionali, le guerre d’occupazione in Afghanistan e in Iraq, la pressione che pesa su determinate risorse strategiche, come quelle energetiche, la cui rarefazione suscita forti appetiti, senza dimenticare la guerra mondiale contro il terrorismo che rappresenta un salasso non trascurabile nei bilanci nazionali.

Per il complesso militare-industriale si tratta di un’era di prosperità senza pari: vendite colossali di equipaggiamenti per la “difesa” e, di conseguenza, materiale bellico acquistato allo scopo di rinnovare gli arsenali, modernizzarli e prepararsi a contrastare le incessanti minacce esacerbate dal comportamento imperialista delle grandi potenze. Anche il lavoro di lobby in questo settore è stato ampiamente facilitato dalle politiche di difesa applicate nel quadro delle alleanze militari, soprattutto della NATO. Il presente articolo esamina l’ampiezza del fenomeno e i fattori aggravanti all’origine di questa situazione che opprime l’umanità. Cosa è successo nel 2006? Come si è concretizzato il commercio di armamenti? Chi sono stati i principali beneficiari di questa manna generatrice di morti e di distruzione? Quali sono stati i più importanti risultati degli sforzi per il disarmo fatti dall’ONU e dal piano d’azione per i paesi del continente africano, ancora il più afflitto dalle guerre nel 2006, tendente a prevenire i conflitti armati?

I. LA RICERCA DELLA “PACE” CON LE ARMI

Le spese militari mondiali nel 2006 riflettono l’applicazione del concetto di sicurezza assicurata attraverso la forza, la dissuasione e le armi. Questa concezione, ereditata dalla guerra fredda, si scontra con quelle sviluppatesi nel corso degli ultimi due decenni, della sostenibilità, della cooperazione per uno sviluppo equo e della solidarietà internazionale ed intergenerazionale. Il ricorso alla guerra per la conquista e il controllo dei mercati non può che portare un pregiudizio all’insieme dell’umanità e favorire una minoranza di privilegiati. La ricerca della sicurezza attraverso le armi è una strada condannata da tutte le tribune che invocano uno sviluppo per tutti tanto al Nord che al Sud.

1.1 L’ordine mondiale mantenuto con la forza, la violenza e la dissuasione

Le politiche di difesa nazionale sono ormai definite in un contesto in cui le minacce che incombono sulle popolazioni sono globali e onnipresenti, minacce che possono andare da un semplice intervento militare delimitato fino ad un attacco nucleare, batteriologico, radiologico o chimico di grande ampiezza. Nulla è messo da parte. I grandi strateghi occidentali giustificano la preparazione alla guerra con il clima di incertezza che regna sul pianeta, clima che essi contribuiscono ampiamente a creare incoraggiando le grandi potenze ad esercitare pressioni, anzi minacce, verso i paesi dotati di risorse strategiche quali, al momento, l’Iran o il Venezuela.

Diventa, dunque, imperativo dotare gli eserciti nazionali di forze moderne di cui essi hanno bisogno per fronteggiare tali minacce e per ristabilire l’ordine con il ricorso alla violenza armata. Questo approccio che prevale sul diritto non può che generare l’instabilità, il caos e la guerra che è proprio lo scopo ricercato. Le strategie sono concepite di conseguenza e poste in atto a partire da piani operativi messi a punto e finanziati alla luce delle finalità ricercate, ossia alla luce di un controllo universale delle risorse e delle popolazioni umane.

1.2 Le politiche di difesa nazionale. Prepararsi a combattere e addossarsi le spese necessarie alla guerra e alla sua preparazione

Importano poco, dunque, i costi di tali operazioni perché esse rendono e renderanno ai loro autori: un potere più grande, un dominio più esteso e, soprattutto, l’assoggettamento della maggioranza della popolazione mondiale grazie alla collaborazione dei governi allineati a questa logica. E’ il perseguimento di un processo di conquista imperialista senza freni. E’ il nuovo ordine mondiale che per essere raggiunto e mantenuto deve fondarsi sulla forza e sulla violenza armata, un principio fondamentale ormai inscritto in maniera formale nelle politiche di difesa nazionale, come attualmente è il caso del Canada e dell’ Australia.

1.3 Il prezzo da pagare

Nel 2006, il totale delle spese militari mondiali è stato di 1.204 miliardi di dollari, una somma in crescita del 3,5% rispetto al 2005 e del 37% rispetto ai dati di dieci anni fa. E’ in parte il prezzo da pagare. Si tratta di una vetta storica in questo campo. La maggior parte delle fonti d’informazione occidentali si limitano a constatare il fatto senza entrare nei dettagli. Si percepisce una certa soddisfazione da parte dei sostenitori del liberismo economico. Spese più elevate in questo campo significano un aumento della produzione per le multinazionali del settore aerospaziale e della difesa. Sono contratti molto lucrativi ed investimenti estremamente vantaggiosi. La notizia non farà scalpore perché non stupirà nessuno e si confonderà naturalmente con mille altri fatti. Non bisogna neppure sbandierare troppo questi dati agli occhi del pubblico, perché essi potrebbero suscitare indignazione quando si vede il tasso di povertà della maggioranza della popolazione mondiale aumentare di giorno in giorno e nel contempo diminuire l’indice generale dello sviluppo umano.

Questa notizia illustra perciò una realtà che opprime l’insieme dell’umanità. Somme considerevoli sono consacrate alla guerra o alla sua preparazione, impoveriscono considerevolmente i bilanci nazionali e vanificano una gran parte degli sforzi realizzati per sradicare la povertà. Questa notizia significa anche che le attività che ne sono alla base sono poste in essere, incoraggiate e sostenute dai governi le cui politiche sostengono ancora la violenza armata nella risoluzione di conflitti derivanti dalla conquista degli spazi e dell’effettivo controllo delle risorse strategiche planetarie.

Essenzialmente, tali spese sono a vantaggio dei paesi membri del Club nucleare e membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Gli Stati Uniti “rimangono abbondantemente in testa con uno stanziamento di 529 miliardi di dollari nel 2006, in netta crescita rispetto al 2005 (505 miliardi)” [YahooFrance! Actualité, giugno 2007]. Il loro comparto militare-industriale, in questo contesto, gode di ottima salute. I profitti registrati dai produttori di materiale militare raggiungono alte vette: “ I principali fabbricanti al mondo hanno così incamerato 290 miliardi di dollari nel 2005 (ossia un quarto delle spese totali), gli Stati Uniti in testa. In effetti, 40 fabbricanti americani hanno realizzato il 63% delle vendite, mentre 32 fabbricanti europei si dividono il 29% delle vendite totali del 2005 … Quattro società americane hanno così visto le proprie vendite impennarsi di un miliardo di dollari nel 2005: L-3 Communications, Raytheon, Northop Grumman e General Dynamics” (Berber, M. 2007).

Gli altri grandi beneficiari, per i quali la militarizzazione è un motore economico di primo piano, sono la Gran Bretagna, la Francia, la Cina, il Giappone e la Russia. In effetti, la Gran Bretagna e la Francia vengono al secondo e al terzo posto. Nel 2006, questi paesi, che contano ciascuno per il 4% delle spese militari su scala mondiale, hanno ad esse consacrato rispettivamente 59 e 53 miliardi di dollari (Radio-Canada, 11 giugno 2007).

In Asia centrale, come ci si poteva attendere con le pressioni di Washington su diversi governi e l’installazione di nuove basi militari o la riapertura di quelle vecchie, le spese negli ultimi anni sono aumentate del 73%.

La Cina, al quarto posto, mostra spese per 49,5 miliardi di dollari, poco più di quelle del Giappone che sono pari a 43,7 miliardi di dollari.

Per quanto riguarda la Russia, essa presenta un bilancio di 34,7 miliardi di dollari, in totale una crescita del 12% rispetto al 2005. A partire dal 1998, questo paese ha intrapreso la modernizzazione del proprio equipaggiamento militare con il risultato di aumentare le spese su tale voce di bilancio del 155% nel corso del periodo considerato.

Abbiamo quindi pressappoco lo stesso quadro che si osserva da un decennio: gli Stati Uniti, con il 46% della spesa totale, al primo posto, seguiti da lontano da Gran Bretagna e Francia, che complessivamente coprono l’8% della spesa, la Cina e il Giappone, con una spesa di quasi 100 miliardi di dollari, si avvicinano anch’essi all’8% del totale generale e, infine, la Russia che chiude la classifica con quasi il 3%.

Insomma, i budget militari dei cinque Grandi, con l’aggiunta di quello del Giappone, assommano a 768,6 miliardi di dollari, pari al 64% delle spese militari mondiali. Questa somma corrisponde ad una spesa dell’ordine di 2,1 miliardi di dollari al giorno o di 175 milioni all’ora. E’ anche così che si esprime la volontà di potenza in continua crescita dell’Impero. Mantenere gli arsenali è una priorità assoluta delle sue politiche di difesa e sicurezza, sia per quanto riguarda il proprio equipaggiamento sia per quello dei suoi alleati più fedeli e indefettibili.

In breve, le spese militari sono amplificate dalla pressione costante esercitata dagli Stati Uniti su tutti i governi capaci di portare elementi giustificativi al processo di riarmamento del paese, allo scopo di convincerli, con il ricatto, le minacce o altri stratagemmi, ad aumentare le proprie spese militari. E’ questo il caso del Canada nel corso degli ultimi quattro anni.

1.4 Spese militari in costante crescita

Nel corso dell’ultimo decennio, quello che ci ha fatto entrare in un nuovo Millennio ormai consacrato allo sviluppo sociale ed alla pace per tutte le Nazioni (Appello dell’Aia per la Pace 1999) e con l’indicazione degli obiettivi del Millennio per lo sviluppo da parte dell’Assemblea Generale dell’ONU nel 2000, i bilanci militari non hanno fatto che lievitare, allontanando nel futuro il raggiungimento di tali obiettivi, che tendono a conseguire e mantenere la pace attraverso uno sviluppo equo e solidale verso i paesi poveri dell’emisfero Sud. Secondo il Segretario generale dell’ONU, Ban-Ki-Moon, “gli ODM [gli Obiettivi Del Millennio, ndt] non potranno essere raggiunti nel 2015 se non a condizione che i paesi più ricchi aumentino sensibilmente le somme dedicate agli aiuti pubblici per lo sviluppo internazionale” (Nazioni Unite, 2007).

Secondo i dati del SIPRI, nel corso degli ultimi anni le spese militari mondiali hanno visto una crescita costante corrispondente ad un aumento del 37% tra il 1997 e il 2006 (Figura 1).

Figura 1. Le spese militari mondiali 1988-2006

1.5 L’azione combinata di più fattori aggravanti

Per spiegare l’elevato tasso di crescita dei bilanci militari viene invocato un certo numero di fattori. Il primo, e senza alcun dubbio più determinante, è la politica estera guerresca e aggressiva degli Stati Uniti, simbolizzata dalla guerra al terrorismo, che ha giustificato, ai loro occhi, l’occupazione armata dell’Afghanistan e dell’Iraq (Foto 1, 2 e 3) e li ha portati a rafforzare le misure di sicurezza anche all’interno del paese, misure che hanno richiesto, tra il 2001 e il 2006, stanziamenti supplementari di 432 miliardi di dollari. In questi primi giorni di luglio 2007, secondo il National Priorities Project, le spese direttamente collegate all’intervento armato in Iraq assommano, dal 2003, a più di 440 miliardi di dollari. Secondo il Global Policy Forum, gli statunitensi avevano costruito in Iraq, all’inizio del 2007, un totale di 55 installazioni militari e, nel corso degli anni 2003 e 2004, essi avevano costruito più di un centinaio di basi, centri di detenzione, quartieri generali dell’esercito di terra, centri di approvvigionamento di materiali logistici e numerosi dispositivi per operazioni di attacco e di difesa (Iraq Solidaridad, 2007). Secondo C. Varea, in un eccellente articolo sull’argomento, l’amministrazione Bush ha chiesto ed ottenuto più di 1.100 miliardi di dollari per tali installazioni (Rebelion).

© USMC Army

Foto 1. L’operazione Enduring Freedom in Afghanistan. Prime azioni contro atti di terrorismo.
[Fonte: Images google]

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Foto 2. L’occupazione armata dell’Iraq.
[Fonte: www.stopusa.be/Affiche/Image4.gif]

Foto 3. Vista di un elicottero in atterraggio nella Zona Verde di Baghdad.
[Fonte: http://www.nodo50.org/iraq/2007/docs/14_04_07_Informe_Global_Bases.html]

In secondo luogo, la costruzione di nuove installazioni militari un po’ dappertutto nel mondo, nel contesto del riposizionamento delle forze armate in funzione del valore fluttuante a seconda delle regioni delle risorse strategiche, ha esercitato una considerevole pressione sul bilancio nazionale degli USA (mondialisation.ca)

In terzo luogo, i conflitti regionali, 29 in tutto nel 2006, hanno spinto l’acquisto di armamenti in grande quantità, soprattutto di armi leggere.

In quarto luogo, il processo di modernizzazione dell’equipaggiamento di numerosi eserciti nazionali è proseguito con la massiccia importazione di materiale militare proveniente soprattutto dagli Stati Uniti e dalla Russia. I dieci principali importatori di armamenti convenzionali nel 2006 (56,3% dell’importazioni mondiali) sono la Cina, l’India, gli Emirati Arabi, Israele, la Grecia, Taiwan, l’Egitto, la Turchia, l’Arabia Saudita e la Corea del Sud ( GRIP, 2006).

Nel 2006, gli Stati Uniti, con il 30,8% del totale mondiale, riforniscono soprattutto il mercato del Medio Oriente ed i suoi principali clienti sono la Grecia, Israele, il Regno Unito e l’Egitto che insieme assorbono il 36% delle consegne americane (Mampaey, L., 2006), mentre la Russia si rivolge al mercato dell’Iran, del Venezuela, della Cina, dell’India, dell’Indonesia, del Bangladesh e dell’Algeria per vendite totali di sei miliardi di dollari. A titolo indicativo, le tabelle 1 e 2 – da Amnesty International che riprende i dati del SIPRI – presentano il volume ed il valore delle principali armi convenzionali e delle armi leggere fornite dai paesi del G8 nel 2003.

NAZIONI Esportazioni delle principali
armi convenzionali nel 2003
Russia 6980
USA 4385
Francia 1753
Germania 1549
Canada 556
Regno Unito 525
Italia 277
Giappone Il SIPRI non fornisce dati per questo Paese

Tabella 1. Volume delle esportazioni delle principali armi convenzionali nel 2003 in milioni di dollari USA.
[Fonte: http://web.amnesty.org/library/index/frapo1300072005]

Nota: Le cifre fornite dal SIPRI indicano semplicemente il volume dei trasferimenti internazionali di armi e non il valore monetario reale di tali trasferimenti. Queste cifre non possono dunque essere paragonate alle altre.

NAZIONI Valore in
dollari USA delle esportazioni di armi
leggere
effettuate dai paesi del G8 nel 2001
USA 741,4
Italia 298,7
Germania 156,7
Giappone 70,3
Canada 53,6
Regno Unito 44,8
Russia 42,2
Francia 33,7

Tabella 2. Valore in dollari USA delle esportazioni di armi leggere effettuate dai paesi del G8 nel 2001.
[Fonte: http://web.amnesty.org/library/index/frapo1300072005]

Altri fattori non trascurabili in una prospettiva a medio e lungo termine, corrispondono alla attesa rarefazione del petrolio e del gas che potrebbero creare nuovi conflitti: “Le regioni ricche in risorse energetiche, non solamente il Vicino Oriente, ma anche l’Africa, l’Asia centrale, l’America del Sud e il Sud-Est asiatico saranno potenzialmente zone di conflitto nei decenni a venire” (Berber, M., giugno 2007).

Le lobby dei mercanti di armi e le fiere-mercato del settore aerospaziale e della difesa, senza dimenticare i numerosi spettacoli aerei organizzati sulle basi militari, si moltiplicano ed aumentano le loro attività. Nel mondo vengono tenute annualmente una trentina di fiere dell’aeronautica, dello spazio e della difesa (25 in totale nel 2007) il cui calendario è mostrato nell’Appendice 1 (Strategis). Si può notare che esse vengono tenute in tutti i continenti, ad eccezione dell’Africa, il maggior numero in America del Nord e in Europa, a seguire in India, in Australia, a Dubai, a Hong Kong e in Cina. Nulla viene dimenticato per promuovere questo lucroso mercato e i governi vi aggiungono il loro sostegno finanziario e logistico nell’ambito della politica nazionale di aiuto al settore Ricerca & Sviluppo ed alle esportazioni.

II. GLI SFORZI PER IL DISARMO

Di fronte a questa ondata senza precedenti di riarmo del pianeta come reagisce il movimento mondiale pacifista? Quali sono i risultati delle negoziazioni del sistema delle Nazioni Unite nel campo del disarmo? Quali sforzi vengono realizzati per arrestare l’occupazione armata illegale dell’Afghanistan e dell’Iraq?

2.1 L’ONU e il disarmo

Le trattative ad alto livello relative ai differenti aspetti del disarmo mondiale, in particolare quelle condotte dalla Commissione per il disarmo dell’ONU, sembrano in qualche modo procedere al rallentatore. Nel 2006, la Commissione ha stabilito un programma, scaglionato su tre anni, per trattare i diversi aspetti inerenti all’eliminazione delle armi nucleari o alla loro proliferazione, i mezzi pratici per mettere a punto misure di sicurezza riguardanti le armi convenzionali o classiche, per costruire una comprensione comune delle minacce presentate nell’immediato dalle armi nucleari e procedere ad una riflessione approfondita sul modo di cambiare le percezioni sviluppatesi sull’azione di disarmo e sulla proliferazione. Le parole del Segretario generale aggiunto degli Affari per il disarmo dell’ONU, Nobuaki Tanaka, riassumo bene l’importanza della discussione che è stata avviata nel 2006: “L’urgenza, sentita a livello mondiale, posta dal rischio di una imminente proliferazione è evidente, ma non bisogna dimenticare che globalmente le armi nucleari si contano ancora a migliaia (nota 2). Tuttavia, le preoccupazioni ampiamente espresse riguardanti la minaccia posta dalle armi di distruzione di massa non devono distogliere l’attenzione che va portata sul problema del controllo e della riduzione delle armi convenzionali e delle forze armate. La proliferazione di queste armi è con certezza una seria minaccia per la pace e la sicurezza di troppe regioni al mondo e una cura dei sintomi o il ricorso a soluzioni ad hoc non ha dato finora risultati concreti duraturi” (Nazioni Unite, 2006).

Secondo
Agir Contre la Guerre
, “le risoluzioni prese ogni anno dall’Assemblea generale dell’ONU sui diversi progetti di disarmo mostrano la sistematica opposizione degli Stati Uniti verso ogni progetto in favore dell’eliminazione degli armamenti nucleari o di altri apparati di morte e distruzione“. In effetti, secondo questa associazione, è interessante analizzare i voti espressi in occasione delle risoluzioni dell’8 dicembre.

” – Risoluzione domandante l’interdizione di tutti gli esperimenti nucleari: 173 voti a favore, un voto contrario: Stati Uniti;

Risoluzione domandante di stabilire un calendario di eliminazione delle armi nucleari, proposta dal Giappone: 164 voti a favore, due voti contrari: Stati Uniti, India;

Risoluzione domandante di stabilire un calendario per un mondo denuclearizzato, rafforzando il trattato di non proliferazione nucleare, vietando la militarizzazione e la nuclearizzazione (messa in orbita di armi atomiche). E’ la risoluzione più ambiziosa ed esprime la posizione dei due continenti denuclearizzati: America Latina e Africa, ai quali si aggiungono voti minoritari: Svezia e Irlanda per l’Unione Europea e la Nuova Zelanda per il mondo anglosassone. L’opposizione a questa proposta, che raccoglie 128 voti a favore, viene da tutti i guerrafondai: Stati Uniti, Francia, India, Israele, Pakistan, Regno Unito;

Risoluzione domandante l’apertura di negoziati per impedire la militarizzazione dello spazio (“guerre stellari”): 174 voti a favore, 4 astensioni: Stati Uniti, Israele e due piccoli stati vassallo degli USA: Micronesia e Isole Marshall.

Questi voti molto compatti in favore del disarmo indicano bene chi sono i principali attori nella corsa verso la guerra, ma, nello stesso tempo, rivelano crudamente l’impotenza delle Nazioni Unite“.

2.2 La regolamentazione dei conflitti armati

Secondo i dati del Project Plougshares, nel 2006 hanno avuto termine conflitti armati in Angola-Cabinda, in Serbia e Montenegro e in Indonesia (nella provincia di Aceh e nelle Isole Mollusques). L’Africa è ancora afflitta da 12 conflitti armati che interessano direttamente 11 paesi (vedere la cartina 1 e la cartina proposta da Project Ploughshares intitolata
Conflitti armati nel 2005
). Nel marzo 2006 è stato lanciato un appello in favore di un piano di azioni concertate atte a prevenire i conflitti. Si tratta del piano di azione di Dakar che raccomanda una serie di misure adatte a mobilitare tutte le forze vive della società favorevoli alla pace e soprattutto i leader politici. Riguardo alla catastrofica situazione del Darfur, il vertice per la pace che si è tenuto a Parigi nel giugno scorso non ha dato risultati concreti. Tutt’al più alcune dichiarazioni e pie intenzioni: “Il futuro si è schiarito” ha assicurato il capo della diplomazia francese Bernard Koucher alla fine dell’incontro. “La comunità internazionale non può continuare a rimanere senza fare niente ha dichiarato dal canto suo il segretario di Stato americano Condoleeza Rice. Il progetto dell’invio di un contingente di soldati aggiuntivo sotto il comando dell’ONU non è certamente la soluzione per ristabilire un clima favorevole alla pace e allo sviluppo. Ci sembra quindi che questo genocidio, che ha fatto più di 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi all’interno del Sudan e del Ciad, rischia di durare ancora a lungo (Numa Goudou, J., 2007).

Cartina 1: L’Africa devastata dai conflitti

2.3 Mettere fine all’occupazione armata dell’Afghanistan e dell’Iraq

Mettere fine a questa occupazione è l’attuale priorità del movimento pacifista mondiale. Le affollate manifestazioni popolari (centinaia di milioni di persone) in tutti i paesi del mondo contro lo scatenarsi di questa guerra, che hanno connotato in primo luogo i preparativi all’invasione armata dell’Iraq e poi la sua occupazione, hanno fatto prendere coscienza alla maggioranza che il potere delle armi è di gran lunga più forte del potere delle urne. Gli sforzi diplomatici sono falliti e le velleità dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU hanno trionfato. La guerra in quanto tale ha avuto ufficialmente termine nel 2003, ma è proseguita con il suo corteo di massacri della società civile irachena, la cui responsabilità è stata dalla Coalizione ufficialmente imputata a conflitti interconfessionali e non come risultato diretto dell’intervento armato e della presenza di centinaia di migliaia di soldati impegnati in combattimenti contro la resistenza irachena, il tutto sotto il pretesto di mantenere l’”ordine” e la “sicurezza” in analogia con gli argomenti che giustificano la presenza degli eserciti occidentali in Afghanistan.

Il bilancio delle vittime in Iraq tra il 2003 e il 2005 è stato di 24.865 persone. Nel 2006, secondo le fonti ufficiali del governo iracheno, più di 16.245 sono state le vittime della guerra, di cui 12.000 civili e i rimanenti membri delle forze di sicurezza o dei gruppi di insorti. Queste cifre sono molto inferiori a quelle delle statistiche citate spesso da organismi indipendenti e, in particolare, a quelle provenienti da un rapporto delle università John Hopkins negli USA e Al-Mustansyria di Baghdad, che indicano piuttosto in 650.000 le vittime totali dall’inizio delle ostilità.

Per arrestare questa avventura bellica e fare in modo che le truppe straniere si ritirino dall’Afghanistan e dall’Iraq, non si può contare sul Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ha autorizzato, attraverso molteplici risoluzioni, queste invasioni a scapito del diritto internazionale. Di fronte a questa situazione è tuttavia possibile protestare contro queste guerre avendo presenti i tre scenari seguenti. Il primo è il trionfo dei movimenti di resistenza in atto nei due paesi, cioè una vittoria sugli occupanti o del principio di autodeterminazione. E’ verosimile credere che questi movimenti possano vincere con le armi le forze della coalizione? Nelle circostanze attuale è difficile immaginarlo anche se alcuni metodi di guerriglia possano a volte apparire efficaci. E’ lo scenario peggiore ed è meglio non soffermarcisi perché potrebbe rivelarsi estremamente devastante a medio termine.

Il secondo scenario. E’ la stanchezza o lo sfiancamento delle forze della coalizione che non possono essere rimpiazzate indefinitamente per ragioni sia logistiche che finanziarie. In questo contesto troviamo un gran numero di militari che non capiscono più il motivo per cui sono impegnati come combattenti sia in Asia centrale che in Medio Oriente. Perché mai questi combattimenti contro società che non hanno mai attaccato militarmente paesi occidentali e che non manifestano alcuna volontà di egemonia nella regione? Questa stato di cose potrebbe rendere più difficile il reclutamento di nuovi contingenti, soprattutto se si tratta di rimpiazzare le altre forze della coalizione che desidereranno prima o poi di ritirarsi.

Il terzo scenario si colloca in un cambiamento politico sostanziale alla Casa Bianca che permetta di considerare un ritiro negoziato tendente a ridare all’Afghanistan e all’Iraq la loro piena autonomia mediante elezioni libere e democratiche. Da questa svolta conseguirebbe il ritiro immediato delle truppe straniere. E’ possibile nell’attuale contesto geopolitico mondiale? Per i sostenitori delle guerre di occupazione e dei profitti da esse generati sembra assurdo poter aderire a simili idee. Per il momento, i governi fantoccio funzionano egregiamente ….

Nel frattempo, le guerre provocano gravi danni nelle infrastrutture di questi paesi e creano un clima che impedisce ogni speranza di ricostruire le zone devastate. Che tristezza! Che realtà desolante che non si può che compiangere, il più delle volte in silenzio, ma anche da denunciare ogni volta che le circostanze lo richiedono!

CONCLUSIONE

Riprendiamo le parole da noi pronunciate nel 2004 riguardo la corsa agli armamenti: “Lo spettacolo a cui assistiamo è desolante, disperante. La corsa mondiale agli armamenti è ripresa in grande e i suoi protagonisti principali sono coloro che hanno un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza dell’ONU ed anche un diritto di veto su ogni decisione di importanza nevralgica per l’avvenire dell’umanità. Bisogna dunque dire un no! alto e forte a tutti quei progetti di riarmo che ancora si inscrivono nelle tradizionali concezioni sulla sicurezza e che lasciano poco spazio a quelle di sicurezza comune o cooperativa, concetto alla base degli impegni del Vertice del Millennio, del Consensus di Monterrey e del piano d’azione del Vertice mondiale per lo sviluppo sostenibile di Johannesburg” ( Le Devoir).

La preparazione alla guerra non viene perseguita solamente negli Stati Uniti, ma in tutti i paesi industrializzati che assicurano la produzione degli armamenti e nelle dozzine di altri che continuano ad aumentare o a modernizzare i loro arsenali. In questo contesto, bisogna non solo opporsi a tutte le guerre, ma è urgente opporsi alla produzione di armi, al loro commercio che avviene un po’ dovunque nel mondo, lavorare alla riconversione delle fabbriche di armi e rendere gli eserciti nazionali incostituzionali o modificarne profondamente il ruolo e le missioni. Quando le folle manifesteranno in tal senso, si potrà pensare che sarà possibile il trionfo della diplomazia preventiva e dimenticare per sempre i conflitti armati regionali e “gli interventi armati cosiddetti preventivi“.

In conclusione, il concetto di sicurezza comune o cooperativa da promuovere in tutte le istanze consiste nel:

– Procedere al disarmo generale e completo. Si tratta di trasferire i fondi della difesa verso altri settori dell’economia e dell’arresto immediato della produzione e della vendita di ogni tipo di arma.

– Salvare la biosfera attraverso il ripristino degli ecosistemi degradati o deteriorati e la protezione della biodiversità e delle zone maggiormente favorevoli alla vita, così come la salvaguardia delle specie vulnerabili, rare o minacciate di estinzione.

– Promuovere il commercio equo dei beni e dei servizi, prodotti nel rispetto delle convenzioni internazionali sul lavoro e sul commercio, utili e accessibili a tutta l’umanità.

– Promuovere una “governance” responsabile e imputabile. Una profonda riforma della “governance” mondiale si rende necessaria, allo scopo di dare realmente voce ad ogni popolo del mondo nel concerto delle nazioni, in maniera tale che l’Occidente, a cui corrisponde a malapena il 10% degli abitanti del pianeta, non sia più colui che detta le norme di condotta e che stabilisce con la forza l’ordine mondiale a lui più conveniente (Dufour, J., 2002 e 2007).

– Insegnare e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali. Questi elementi si ritrovano in essenza nelle dichiarazioni finali dei vertici mondiali sopra citati. In occasione di tali vertici sono state proposte strategie per diminuire l’estrema povertà e la miseria che affliggono più della metà della popolazione mondiale (Nazioni Unite, Piano di applicazione del Vertice mondiale per lo sviluppo sostenibile, 2002). I piani d’azione si sono dati come obiettivo da raggiungere nel 2015 alcuni obiettivi quali la riduzione della metà del numero di poveri e di dare accesso all’acqua potabile al miliardo di abitanti che ne sono privi. Si tratta di un appello lanciato a tutti i governi del mondo perché si mettano all’opera e raccolgano la più grande sfida dell’umanità in questo inizio del terzo millennio: salvare la biosfera e intraprendere il lavoro di eliminazione dell’apartheid Nord/Sud. Il 10% delle spese militari per un decennio sarebbe da solo sufficiente per raggiungere questi obiettivi (Dufour, J., 2004).

Queste parole sono avvalorate dai protagonisti del movimento per la costruzione della pace mondiale senza il ricorso alle armi. L’aumento delle spese militari mondiali costituisce una minaccia crescente per la sopravvivenza dell’umanità. Il Movimento per la Pace, in particolare, deplora questa situazione. Secondo le parole di Arielle Denis, co-presidente del Movimento: “In questi tempi, milioni di esseri umani muoiono ogni anno a causa della denutrizione, di malattie che si sanno curare facilmente, della spogliazione totale e le sofferenze causate dalle guerre o da catastrofi climatiche. Altri, più fortunati, soffrono per la precarietà, la disoccupazione, l’inadeguatezza degli alloggi e mancano spesso di accesso alle cure mediche. Gli Obiettivi del Millennio per lo sviluppo (ODM), stabiliti dall’ONU e approvati da tutti i Capi di Stato, intendono ridurre della metà la povertà in 10 anni. Sarebbero sufficienti 135 miliardi di dollari all’anno per procedere sulla buona strada e strappare la maggioranza degli abitanti del pianeta dalla morsa della miseria: solamente il 10% delle spese militari“. Sarà troppo tardi quando la politica prenderà pienamente coscienza del significato di questo slogan da diffondere sempre più: “Disarmare per un diverso sviluppo “?

RIFERIMENTI

Amnesty International, 2007. Les pays exportateurs d’armes du G8 et les tranferts d’armes irresponsables. 22 giugno 2005.

Berber, M., 2007. Défense. Les depenses mondiales augmentent. Rfi actualité, 11 giugno 2007.

Chossudovsky, M. 2002. Guerre et mondialisation. La verité derrière le 11 septembre. Montreal, écosociété, pagine 251.

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ALTRE FONTI

Calendrier d’événements du secteur de l’aérospatiale et de la défense 2007-2008.

Groupe de recherche e d’information sur la paix (GRIP). Les 40 principaux importateurs d’armements conventionnels.

Les objectifs du Millénaire pour le développement

National Priorities Project.

World military expenditures, 1988-2006.

NOTE

1. Il SIPRI, una organizzazione finanziata dal governo svedese, è specializzato nello studio del commercio di armi e nell’analisi delle spese militari.

2. Secondo il SIPRI, i membri del Club nucleare, all’inizio del 2007, possedevano un totale di 26.000 testate nucleari.

APPENDICE


Calendario degli eventi del settore aerospaziale e della difesa 2007

Jules Dufour, Ph.D., è professore emerito all’Università del Quebec a Chicoutimi, Presidente dell’Associazione canadese per le Nazioni Unite (ACNU) Sezione Saguenay-Lac-Saint-Jean, Membro del circolo universale degli Ambasciatori della Pace, Cavaliere dell’Ordine nazionale del Quebec.

Fonte: http://www.mondialisation.ca
Link: http://www.mondialisation.ca/index.php?context=va&aid=6270
09.07.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MATTEO BOVIS

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