LA MORTE SI ONORA CON IL SILENZIO

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DI MASSIMO FINI

No, non mi convincono affatto le commozioni collettive pubbliche, esibite in diretta Tv, come quelle che si son viste ieri nel Duomo di Parma per i funerali di Tommaso Onofri.
Certamente il delitto è stato orrendo, per le modalità e perché non c’è niente di più crudele della violenza fatta su un bambino, innocente per definizione perché non ha avuto ancora il tempo di diventare un uomo. Ma la stragrande maggioranza della gente che affollava ieri il Duomo di Parma e la sua piazza, persone del luogo o venute da fuori, da altre regioni d’Italia, dalla Sicilia e persino dall’estero, non conosceva Tommaso né i suoi genitori né i suoi familiari e non aveva nessuna ragione d’esser lì, invece di raccogliersi, semmai, per un momento, in casa o in ufficio, se non quella di esibire la propria commozione. C’era qualcosa di narcisistico, di esibizionistico, di necroforo e di orribile in quella folla. Conosciamo troppo bene il gusto sottile, morboso e perverso di commuoverci per qualcosa che non ci ha colpiti direttamente per poterci autocompiacere della nostra commozione, per sentirci buoni, puliti, immacolati, diversi. Ma così non è. Come dimostra il fatto che a commuoversi di più, e in modo più plateale, per la morte di Tommaso, sono stati i detenuti di varie carceri d’Italia, cioè dei delinquenti, solo un po’ meno delinquenti di Alessi.

Noi siamo molto più vicini al “cuore nero” di Mario Alessi che all’innocenza di Tommaso, come ci piace invece credere esibendo il nostro dolore. Se così non fosse, la vita, soprattutto nella modernità, non sarebbe quella che è. Certo, nessuno di noi – o pochi – ha lo stomaco per uccidere un bambino, ma ha pelo a sufficienza per esercitare, ogni giorno, il proprio egoismo, le proprie piccole violenze e soperchierie quotidiane che, anche se meno efferate, non sono meno vili di quella di Mario Alessi, perché non ci implicano e non ci compromettono in modo evidente, perché sono violenze sotterranee, al dettaglio invece che all’ingrosso come quella fatta in un colpo solo da Alessi. Poi si va al Duomo di Parma per sentirsi puri, buoni, diversi, per identificarsi arbitrariamente con l’innocenza necessitata di Tommaso. Se invece volessimo che la morte di questo bambino abbia un senso è con l’Alessi che è in noi che dovremmo fare i conti, piuttosto che con un’innocenza che è fuori di noi e che è così comodo, così confortevole, così consolante e così smisuratamente ipocrita fare nostra.

Mi è parso troppo dolciastro anche quel passaggio dell’omelia del vescovo di Parma, Cesare Bonicelli, quando, facendo riferimento al sepolcro vuoto di Cristo risorto, ha detto che “la vita vince la morte”. Non è così. Per la semplice ragione che la morte è necessaria alla vita, ne è la precondizione. Senza la morte non ci sarebbe nemmeno la vita. Anche se, certamente, a un bambino di diciotto mesi è stato sottratto, dalla brutalità umana, quel tratto di esistenza che i suoi genitori, i soli legittimati al dolore, potevano ragionevolmente attendersi.

Eppoi, quegli applausi. Ripetuti, lunghi, interminabili, autocompiaciuti. La morte si onora col silenzio. Come fece la folla che assistette ai funerali di Fausto Coppi, nel 1960. Una folla modestamente vestita, ma dignitosa, composta, silenziosa, pudica, che interiorizzava le proprie emozioni. Ma quella era un’Italia più semplice, più autentica, più vera, più umana. Quella di oggi, corrotta dalla Televisione e dalla perdita di ogni valore, della compostezza, della dignità, della capacità del silenzio, sa solo esibire ipocrite e autocompiacenti emozioni pubbliche, per poter meglio coltivare, con tranquilla coscienza, i propri vizi privati.

Massimo Fini
(www.massimofini.it)
Fonte: http://gazzettino.quinordest.it
9.04.06

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