LA MORTE DEL TIFOSO LAZIALE GABRIELE SANDRI: SOLO UNA TRANQUILLA DOMENICA DI FOLLIA ?

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DI CARLO GAMBESCIA

Non sempre è vero che la violenza chiama altra violenza. Si tratta di un luogo comune. La violenza chiama altra violenza solo quando l’atto violento va a inserirsi in un contesto, dove la violenza è una componente strutturalmente necessaria. Nel senso che viene ritenuta di diversi gruppi sociali in gioco (tutti, inclusi quelli istituzionali) una risorsa simbolica o sociale come un’altra: da usare, senza porsi tanti problemi.
Ecco allora che l’ ingiustificata uccisione di un tifoso da parte della polizia, peraltro in un luogo ben lontano dagli impianti sportivi, può scatenare reazioni violente da parte dei tifosi come ieri è avvenuto a Roma e in altre città italiane. E’ perciò superficiale parlare, come fanno certi media, di una “tranquilla” domeniche di follia…

Qui bisogna essere chiari: ormai il rapporto tra forze dell’ordine e i gruppi di tifosi organizzati si regge soltanto su una sorveglianza di tipo militare e su cicliche, e conseguenti, esplosioni di violenza da parte dei gruppi di ultrà, cui segue inevitabile la repressione: una logica da guerra civile; quella del colpo su colpo. Invece si dovrebbe uscire da questo circolo infernale, dove sì la violenza finisce per chiamare altra violenza altra violenza… Com’ è sotto gli occhi di tutti.
Si liquida, insomma, il tifo violento, che coinvolge in particolare i giovani, giudicandolo un fenomeno puramente delinquenziale. Da reprimere, e basta.Cerchiamo invece di ragionare. Magari prendendola da lontano.
Oggi il tifo organizzato ha assunto caratteristiche identitarie, ritualistiche e di fenomeno di folla. E, indubbiamente, ha una sua pericolosità sociale oggettiva, nessuno lo nega. Ma andiamo alle cause strutturali.
Gli studi mostrano che il riflusso verso il privato degli anni Ottanta, ha implicato un progressivo calo di interesse verso la militanza politica. Un vuoto che i giovani hanno riempito “investendo” in altri settori del tempo libero, e dunque anche nell’ambito delle pratica sportiva e del tifo calcistico ( si dia ad esempio un’occhiata al Quinto Rapporto 2002 sulla condizione giovanile a cura dell’Istituto Iard Franco Brambilla, http://www.istitutoiard.it/, non recentissimo ma comunque utile per farsi un’idea).

Il cambiamento di interessi si spiega con la progressiva sfiducia verso partiti, istituzioni, forze dell’ordine. Se all’inizio degli anni Ottanta, due giovani su tre si fidavano delle istituzioni, oggi di fida solo un giovane su due. Questo dato fa il paio con l’accresciuta fiducia nei riguardi di famiglia e amici. E soprattutto con il diffuso apprezzamento (tre giovani su quattro) dell’amicizia come valore in sé. Ora, nessuno vuole sostenere che la sfiducia nelle istituzioni e la fiducia nel gruppo dei pari (età) si sia trasformata automaticamente in tifo calcistico e il tifo, a sua volta, in tifo acceso e violento. Ma in particolari condizioni di deprivazione culturale, isolamento sociale e incertezza lavorativa (un giovane su due tra i 25 e i 34 anni svolge un lavoro flessibile, e solo uno su due, tra i 15 e il 24 ha un’occupazione), il vischioso mondo del calcio e del tifo, incensato dai media sette giorni su sette e favorito dalle stesse società sportive, ha sicuramente rappresentato, per alcuni giovani “deprivati”, il terreno socioculturale perfetto per trasformarsi in ultrà.Sotto questo aspetto, il tifo violento risponde perciò a una logica di tipo identitario. E spieghiamo perché. Il gruppo ultrà si riconosce e legittima, negando lo stesso diritto a un gruppo avversario (spesso altrettanto violento): è un riconoscimento “contro” qualcuno. E di questa contrapposizione identitaria, spesso ne fanno le spese le forze dell’ordine, costrette istituzionalmente a frapporsi tra i due gruppi. Tuttavia la polizia rappresenta soltanto l’ultimo anello della catena: quello a cui è demandata l’opera di repressione.

Inoltre, su questa forte logica di gruppo, si innescano i cosiddetti ritualismi collettivi (striscioni, cori, e coreografie varie), che agiscono da rinforzo psicologico, favorendo la “militarizzazione” del tifoso e la sua adesione a una visione mitologica e totalizzante della squadra di appartenenza. Il processo è questo: 1) l’isolamento socioculturale facilita l’aggregazione tra tifosi; 2) l’individuazione del nemico (l’ altro tifoso o come è accaduto ieri il poliziotto), rafforza la coesione del gruppo; 3) il gruppo, grazie all’intervento del rito, acquisisce maggiore coesione e forza, espandendosi socialmente fin dove non incontra ostacoli (in genere istituzionali), finendo così per richiamare altra violenza (quella degli altri gruppi o della polizia).

Pertanto la logica processuale del gruppo risulta perciò più importante dei suoi contenuti, che possono essere ripresi, in chiave occasionalistica, dalle ideologie più differenti. Pertanto, parlare di una curva di “stampo fascista” o “comunista”, o genericamente di sovversivi, è approssimativo e fuorviante, perché non consente di individuare la dinamica sociologica del fenomeno. In questo senso, le reazioni dei tifosi, come quelle di ieri, non sono fenomeni legati a una particolare ideologia politica, ma fatti simbolici. Perché, putroppo, le violenze, o addirittura le uccisioni ( di poliziotti come di tifosi avversari) assumono tragicamente lo stesso valore rituale dell’uccisione del capro espiatorio. Infatti, come ci insegnano gli antropologi, si tratti di “atti” che fondano, rifondano, e consolidano il gruppo: ripetiamo, una tragedia, dove la violenza, divenuta risorsa simbolica, richiama inevitabilmente altra violenza riparatrice.

In definitiva, il gruppo ultrà è una vera e propria (micro)struttura sociale, che nell’universo hobbesiano del tifo violento, stabilizza e soddisfa, seppure in modo deviato e antisociale, uno spontaneo bisogno individuale di identificazione. E quanto più cresce lo stato di isolamento socioculturale in cui i membri del gruppo vivono, tanto più resta difficile impedire che i singoli cedano al richiamo protettivo “del branco” per dirla nel linguaggio sbrigativo di certi giornali. Infine, lo stadio di calcio, è il luogo per eccellenza, dove i fenomeni di gruppo (fondati su identificazione e rito) si trasformano in fenomeni di folla. Perché?In primo luogo, ogni individuo, anche se non appartenente a un gruppo di tifosi violenti, una volta immerso nella folla, acquisisce un pericoloso senso di onnipotenza: si sente psichicamente all’unisono con una grande quantità di persone, finendo per condividerne gli scopi immediati. In secondo luogo, certi sentimenti di odio e violenza, si trasmettono dal gruppo alla folla rapidamente, quasi per “contagio” psichico tra individui, per dirla con Le Bon. In terzo luogo, la folla subisce facilmente, come in stato di ipnosi, ogni improvvisa e nuova suggestione psichica (si pensi al panico che provocò tra i tifosi la falsa notizia della morte di un tifoso, diffusasi durante il derby Roma-Lazio nel 2004). Con tutte le tristi conseguenze del caso.
Questi tre fattori (identificazione attraverso il nemico, trasformazione del gruppo in folla, ritualità rafforzativa legata alla forza dell’atto violento), sono alle origini di quel che è accaduto ieri. Ma identificazione e ritualità, sono fattori che rinviano a cause strutturali. Cosicché reprimere con la violenza significa solo provocare altra violenza da parte dei tifosi, e così via. Mentre, sulla trasformazione del gruppo in folla si potrebbe intervenire, non chiudendo gli stadi, ma rendendoli meno anonimi e più vivibili sotto l’aspetto ambientale e architettonico.

In conclusione, il problema di fondo è quello di offrire alternative di vita a giovani che vivono in condizioni di isolamento e deprivazione socioculturale. Come? Tentando di sostituire alla logica del branco, che privilegia la violenza come fattore simbolico, la logica della società civile del ragionamento e del recupero sociale di coloro che siano deprivati culturalmente.
Il che non è certo facile, e nell’attuale situazione, può apparire degno di un illuminismo a buon mercato, o come spesso si dice ironicamente: frutto di buonismo sociologico. Tuttavia puntare solo sulla repressione, senza almeno tentare di rimuovere le cause di fondo del “tifo violento”, non è altrettanto irrealistico?
E soprattutto rischiano di pagare con la vita, bravi ragazzi come Gabriele Sandri.

Carlo Gambescia
Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/
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12.11.07

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