La vita senza Arafat
DI RAMZY BAROUD
Se la malattia del leader Palestinese Yasser Arafat e l’inattesa partenza per la Francia rappresentano la conclusione di un’era, come hanno notato alcuni in maniera avventata, questo è perché l’assenza di Arafat, anche come un simbolo vivente, è un questione portatrice di grandi conseguenze. Ma detto questo, non dobbiamo indulgere nel travisare la lotta Palestinese riducendola alla legalità di un uomo.
È ancora troppo presto per valutare il contributo di Arafat alla marcia Palestinese per la libertà. Potrebbero volerci anni prima che sia possibile tracciare una valutazione accurata. L’imperativo adesso deve essere quello di mantenere intatto il momentum della rivolta Palestinese e la sua capacità di fronteggiare l’impressionante potere di uno stato canaglia.
Per alcuni Arafat è solo un altro autocrate Arabo che rimane aggrappato alla sua posizione, rifiutando di condividere il potere o di assegnare delle responsabilità ad altri che non siano i suoi fedelissimi e con nulla di nuovo da offrire fatta eccezione per la retorica sulla “luce alla fine del tunnel” e sulla “montagna (che) non può essere scossa dal vento”. Ma coloro che vedono soltanto questo lato di Arafat, ignorano il testardo mix politico, culturale e intellettuale rappresentato dalla sua persona, la sua capacità di significare molte cose diverse a molta gente diversa. Che lo abbia fatto deliberatamente o non, Arafat è sempre riuscito ad associare se stesso ad ogni difficoltà fronteggiata dai Palestinesi nel corso di vari decenni. Fin dai suoi primi anni come studente attivista al Cairo, nel 1949, fino alla importante formazione del movimento Fatah nel 1965, Arafat era sempre presente.
Malgrado gli occasionali litigi con alcuni di loro, per i leader Arabi, Arafat era un dono del cielo. La sua presenza serviva a giustificare la loro assenza. Fu Arafat che insistette a riferirsi all’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) come al “legittimo e solo” rappresentante della gente Palestinese e i regimi Arabi abbracciarono appassionatamente lo slogan. Rappresentò un vero e proprio esonero dal loro totale fallimento nel difendere la causa della Palestina e della sua gente.
I Palestinesi, naturalmente — anche coloro che si oppongono alla sua linea politica e alle sue offerte incondizionate di pace — vedono Arafat sotto una luce differente. Quando un elicottero militare lo ha portato fuori dai suoi quartieri generali a Ramallah, ponendo fine ad un assedio Israeliano durato tre anni, i Palestinesi hanno guardato silenziosamente la più recente delle partenze di Arafat e l’hanno collegata alla storia di espropriazione di cui tutti sono stati parte. I commentatori Palestinesi hanno scritto di storia distante, tuttavia non dimenticata, collegando Amman a Beirut, a Tunisi, a Gaza, a Ramallah e adesso a Parigi.
L’eredità di Arafat è quella di un simbolismo non diluito — un simbolismo che è allo stesso tempo solido e pieno di significato. Anche se avesse voluto lasciar intendere che il suo viaggio in Francia era solo uno dei tanti, i Palestinesi sapevano che questo viaggio era diverso. Quando Arafat era stato costretto a lasciare il Libano nel 1982, i combattenti Palestinesi avevano sparato in aria. Arafat si era levato con fare sicuro e aveva detto ai suoi compagni che la via per Gerusalemme si stava facendo più vicina e che il Libano era solamente un’altra fermata nel loro lungo viaggio verso casa. Gli credettero, e continuarono a sparare.
La distanza fra Beirut e Tunisi conta poco. La presenza di Arafat si faceva sentire non soltanto fra i rifugiati del Libano ma anche nei campi di Gaza.
Da bambino ho visto spesso soldati Israeliani che obbligavano con la forza giovani Palestinesi a inginocchiarsi nel mio campo di rifugiati a Gaza, minacciandoli di picchiarli se non avessero sputato su una foto di Yasser Arafat. “Dì che Arafat è uno stupido” gridavano i soldati. Ma nessuno scambiava la propria sicurezza con l’insulto all’immagine di Arafat. Resistevano al dolore e alle ferite, ma non dicevano niente.
Non era il carattere di Arafat che induceva ad una tale resistenza ma piuttosto quello che l’uomo rappresentava. Questo spiega perché la gente di Gaza si fosse lasciata affascinare quando Abu Ammar aveva parlato del suo ritorno dopo la firma di Oslo. In maniera retrospettiva, questo spiega anche il pesante senso di tradimento provato da molti Palestinesi quando la loro icona, che per alcuni versi era stata divinizzata nel suo esilio, non era stata capace di soddisfare le loro aspettative sul suo ritorno in patria.
Era sembrato come se l’era di Arafat si stesse avvicinando alla fine nei momenti che seguirono il suo ritorno a Gaza alla metà degli anni 90. Un tale sentire non era stato motivato dalla sua età avanzata o dalla sua salute esitante, né dalla irrilevante designazione di Arafat come partner di pace o in altra maniera da parte di Israele. Era solo che l’uomo che aveva promesso la luna non era riuscito a salvare un desolato campo di rifugiati. L’uomo che aveva promesso Gerusalemme era impegnato in trattative per il piccolo sobborgo di Abu Deis. La guida astuta che aveva parlato della pace dei coraggiosi aveva poco da dire mentre la West Bank una volta di più veniva percorsa dalla macchina militare Israeliana.
Per Arafat non è mai stato facile mantenere intatta l’immagine del guerriero e del burocrate. Israele ha voluto che lui introducesse pesanti restrizioni contro coloro che combattevano con lui e per lui. Gli Stati Uniti hanno voluto che “condannasse il terrorismo, non a parole ma con i fatti”. Ma era stata la resistenza armata che per interi decenni aveva sostenuto la lotta di Arafat. I leader Arabi esercitavano pressione su di lui, convogliando messaggi Israeliani e Americani, e ponendo sé stessi in un ruolo marginale in quella che per decenni era stata la causa Araba. I suoi fedeli lo sfruttavano. Il suo atto di equilibrio ha finito per sgretolarsi e la sua aura si è lentamente sbiadita.
Quando Israele ha bombardato i quartieri generali di Arafat a Ramallah e lo ha imprigionato con la benedizione del governo degli Stati Uniti, molto difficilmente aveva intenzione di concedere al leader una tribuna da cui poter rivendicare un’ultima eroica presa di posizione.
L’occupazione di Israele della West Bank e la relegazione fisica hanno finito per assolvere Arafat di ogni responsabilità politica di fronte alla sua gente, mentre si rinvigoriva la sua immagine del guerriero che non si arrende mai, anche nella sconfitta. Proprio mentre Fatah sprofondava in lotte interne di potere e le accuse di corruzione guizzavano a frotte, l’immunità di Arafat rimaneva ben solida. Alcuni mesi fa il capo delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa mi ha detto durante un’intervista telefonica: “Arafat è il nostro simbolo e la nostra guida e niente potrà mai cambiare tutto questo.” Quando le Brigate hanno bruciato un edificio dell’Autorità Palestinese a Jenin in segno di protesta contro la corruzione della AP, i suoi combattenti hanno salvato dalle rovine una foto di Arafat e con fare protettivo se la sono portata via.
Poche persone possono rivendicare una legalità come quella di Arafat, o la sua capacità di venire incontro a tali interessi in competizione. Ma anche se la sua fine è stata rimandata per un poco di più, il punto è che l’era Arafat è comunque vicina al termine.
Nei giorni che seguiranno, Israele, gli Stati Uniti e i regimi Arabi si accapiglieranno per accertarsi che l’era post Arafat li serva al meglio. Nel caso dei governi Arabi questa nuova era dovrà assolverli da ogni responsabilità significativa verso la Palestina e la sua gente. Ma i Palestinesi sono pieni di risorse. Impareranno ad occuparsi della loro vita anche senza Arafat e la sua mistica. La loro unità nazionale rimane e rafforzerà la loro lotta, anche nel dolore. I guerrieri, i saggi e i leader vengono e vanno, alcuni tirano avanti un po’ più di altri, ma senza alcun dubbio la marcia per la libertà continuerà, dato che “la montagna non può essere scossa dal vento”.
Note:
Ramzy Baroud è un giornalista veterano Arabo-Americano, editore in capo di PalestineChronicle.com e capo del Dipartimento ‘Research & Studies’ di Aljazeera.net.
Da: www.counterpunch.org
Traduzione di Melektro – A Cura di Peacelink
Fonte:www.peacelink.it
7.11.04