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Perché, a 50 anni dalla decolonizzazione, un intero continente è squassato da guerre, crisi sociali e malattie? E soprattutto, i bianchi se ne sono mai andati?

DI SABINA MORANDI

Perché, a quasi cinquant’anni dall’inizio della de-colonizzazione, l’intero continente è sconquassato da guerre, crisi sociali e malattie? Perché, una volta che i padroni bianchi hanno fatto le valige, non è emersa nessuna leadership decente in grado di traghettare il proprio paese al di fuori del sottosviluppo e della fame?

Ci sono due risposte possibili. Quella classica, implicitamente razzista, attribuisce il ritardo alla natura delle popolazioni locali abituate a scannarsi per i motivi più futili. Per chi non crede nel destino del sangue – o della pelle – si aprono invece scenari più complessi che, alla fine, conducono a un’ulteriore domanda: ma i bianchi, se ne sono mai andati?

Decolonizzare per finta

Il ruolo assegnato dagli imperi coloniali ai territori conquistati è stato fissato ben prima che la rivoluzione industriale si affacciasse alla finestra della storia. Dall’Africa, dall’America Latina e dagli sperduti territori dell’Estremo oriente, dovevano arrivare zucchero, caffè, gomma, spezie, frutta tropicale e svariate materie prime d’importanza primaria. Fu sull’enorme ricchezza prodotta dal saccheggio che si edificarono le fortune della classe dirigente bianca e, in sostanza, della rivoluzione industriale stessa. Quando, negli anni Sessanta del Novecento, il fermento nazionalista portò all’indipendenza della maggior parte dei paesi africani, i bianchi se ne andarono procurando però di mantenere invariato l’assetto economico generale. Lo fecero in due modi: assicurandosi di lasciare il potere agli scagnozzi cresciuti all’ombra del governo coloniale – la maggior parte dei dittatori africani proveniva dritta dritta dalla polizia politica del passato regime – e facendo fuori ogni esperimento seriamente indipendente. Più che in ogni altro luogo del mondo, il tentativo di prendere in mano il proprio destino da parte dei paesi africani è stato soffocato nel sangue. Gli annali sono pieni di vittime illustri – da Lumumba a Saro Wiwa passando per Sankara, solo per citarne alcuni – e coraggiosi riformatori come Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana, o Julius Kambarage Nyerere presidente della Tanzania. Liquidata in un modo o nell’altro la generazione nazionalista della de-colonizzazione, ha prevalso l’élite formata – e finanziata – dalle potenze coloniali che ha finito con il consegnare il continente nelle mani delle agenzie creditrici internazionali. Le politiche della crescita basata sulle esportazioni, portate avanti negli anni ’70, hanno contribuito a ridurre la quota di mercato dell’Africa mentre, allo stesso tempo, i banchieri compiacenti del Nord favorivano la corruzione e la fuga di capitali. Negli anni ‘80 l’intero continente è finito nelle mani dei creditori, rappresentati dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario internazionale che, con le privatizzazioni selvagge, hanno aperto il paese all’assalto delle corporation straniere.

Caffè e suoi derivati

Mentre gli interessi sul debito sono continuati a salire, i prezzi delle materie prime alimentari non hanno fatto che scendere. I teorici del “vantaggio comparato”, neologismo con cui si è battezzata l’antica pratica delle piantagioni da esportazione, sono riusciti nell’intento di mettere l’uno contro l’altro i paesi del sud del mondo, innescando una spirale al ribasso senza precedenti.

Nei paesi dell’America centrale la crisi del prezzo del caffè ha avuto l’impatto di un uragano: le esportazioni sono crollate del 44 per cento in un solo anno, passando da 1,7 miliardi di dollari nel 1999-2000 a 938 milioni di dollari nel 2000-1. Nell’Africa sud-sahariana le cose sono andate più o meno allo stesso modo: i proventi delle esportazioni di caffè dell’Etiopia sono scesi del 42 per cento in un anno. In Uganda, dove almeno un quarto della popolazione dipende dal caffè, il volume delle esportazioni nei primi mesi del 2002 è rimasto lo stesso, ma i guadagni sono scesi del 30 per cento.

La stessa cosa è accaduta, più di recente, per un altro classico prodotto da monocoltura: il cotone. In nome del “vantaggio comparato” i paesi dell’Africa centrale e occidentale hanno legato il loro destino a questa coltura. Dalle 200 mila tonnellate l’anno degli inizi degli anni ’80, grazie alle pressioni della Banca mondiale e del Fondo monetario si è passati oggi a un milione di tonnellate. Per ottenere questo risultato le terre che le famiglie coltivavano per nutrirsi sono state destinate al cotone. Il Mali, il Burkina Faso, il Ciad e il Benin sono ormai legati a corda doppia alle fluttuazioni del mercato del cotone, da cui ricavano i proventi di circa metà delle loro esportazioni. Una fragilità strutturale che trasforma qualsiasi variazione delle tariffe – o qualsiasi apertura al tessile di altri paesi – in una catastrofe. A meno che non si scateni una guerra, come sta accadendo in questi giorni in Costa D’Avorio, le tariffe sono destinate inesorabilmente a scendere.

Petrolio e altre catastrofi

In una situazione di crisi strutturale permanente anche la scoperta di ingenti ricchezze può avere ricadute catastrofiche. La scoperta dei giacimenti del Golfo di Guinea – dalla Nigeria all’Angola – oltre a provocare ulteriori espropri delle terre contadine, con conseguente militarizzazione del territorio, sono probabilmente una delle cause del conflitto in Costa d’Avorio, paese interessato solo marginalmente come snodo di passaggio, una situazione simmetrica a quella del Sudan. Ovunque la corsa al petrolio, ai diamanti, all’oro e a tutte le ricchezze vecchie e nuove del sottosuolo, ha riacceso gli interessi delle potenze occidentali, e ovunque è sfociata in guerra.

Un esempio per tutti è il triste destino del Congo, forse il paese più ricco di materie preziose di tutto il pianeta: tre milioni e mezzo di morti per una guerra tutt’altro che conclusa. Oggi l’epicentro è situato nella regione orientale dell’Ituri, ricca di oro, platino e soprattutto di Col-Tan, ovvero il colombium tantalite utilizzato per le batterie dei cellulari e dei computer. Il conflitto si è trasformato in guerra continentale quando, nel 1998, l’Uganda invase l’attuale Repubblica Democratica del Congo con l’appoggio del Ruanda. A sostegno del governo congolese, guidato allora da Laurent-Désiré Kabila, si schierarono invece gli eserciti dell’Angola, della Namibia e dello Zimbabwe, a loro volta manovrati dagli interessi delle compagnie minerarie occidentali.

Sabina Morandi

Fonte:www.liberazione.it
11.11.04

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