DI RITA PENNAROLA
lavocedellevoci.it
Dopo ben 41 anni di trapianti effettuati attraverso organi prelevati da ammalati a cuore battente, la comunità scientifica internazionale scopre oggi che la dichiarazione di “morte cerebrale” non era poi così infallibile e occorre un profondo ripensamento dei criteri. L’annuncio arriva da uno dei padri della trapiantistica, Ignazio Marino (nella foto).
Contrordine: dopo decenni di espianti a cuore battente, spacciati per “prelievo da cadavere” fin dalle ingannevoli parole della legge, la comunità scientifica italiana, costretta ad allinearsi a buona parte di quella internazionale, oggi fa marcia indietro: la morte cerebrale è una finzione, una convenzione buona per far prosperare carriere e primariati, holding statali dei trapianti ma, soprattutto, le multinazionali del farmaco, che proprio sui trattamenti antirigetto accumulano ogni anno fatturati da milioni e milioni di euro.La notizia arriva dal Festival della Salute di Viareggio dove uno dei padri della trapiantistica internazionale, Ignazio Marino, oggi alza le mani: «I criteri attualmente in uso per stabilire la morte cerebrale sono troppo rigidi. Bisogna rivederli in modo da tener conto della pratica clinica». In sostanza, «si dovrebbe evitare di ispirarsi a una rigida ortodossia, mantenendo invece un’apertura mentale su un tema così complesso e controverso», e vanno perciò «riconsiderate definizioni troppo rigide come la cessazione “irreversibile” “di tutte le funzioni”, “dell’intero cervello”, perchè è convinzione comune l’inapplicabilità di tali criteri nella pratica clinica».
L’appello è firmato dalla delegazione di scienziati presenti in Versilia, tutti di altissimo profilo: oltre a Marino (che è anche presidente della Commissione d’inchiesta sul sistema sanitario nazionale al Senato), ci sono Giovanni Boniolo (Fondazione Ifom e facoltà di Medicina di Milano); Bernardino Fantini (Università di Ginevra); John Harris (Università di Manchester); Robert Truog (Harvard Medical School) e Stuart Youngner (Case Western Reserve University). «Si stanno ancora scoprendo molti aspetti clinici, legali, sociali della morte cerebrale – sottolineano – dal momento che il concetto evolve in relazione alle differenze culturali e religiose. È necessario mantenere aperta la discussione con il mondo non scientifico».
Vaglielo a raccontare alle centinaia di migliaia di pazienti espiantati negli ultimi 41 anni in mezzo mondo perchè certificati in stato di “morte cerebrale”. Una storia che comincia nel 1968 quando Christian Barnard effettua a Città del Capo il primo trapianto di cuore sulla base dei criteri (coma, perdita irreversibile di qualsiasi funzionalità cerebrale e impossibilità di una respirazione autonoma) dell’Harvard Medical School che aveva cambiato la definizione di morte basandosi non più sull’arresto cardiocircolatorio, ma sull’encefalogramma piatto.
La polemica suscitata dal documento di Viareggio riaccende in realtà un fuoco che da tempo covava sotto la cenere. La testimonianza sta tutta in un libro shock di prossima uscita per Tullio Pironti Editore, nel quale vengono dettagliatamente riportate tutte le stridenti contraddizioni della stessa comunità scientifica internazionale sul fenomeno trapianti e, soprattutto, sulla dichiarazione di morte cerebrale. Ma saltano fuori anche i criteri aziendalistici che guidano le scelte, dai sistemi di premialità per i centri che effettuano il maggior numero di espianti, fino alle tecniche mercantili (le chiamano “benchmarking”) messe in atto per organizzare i reparti, o quelle di comunicazione per convincere i familiari riluttanti. Senza contare l’escalation di anestesisti che chiedono di poter esercitare l’obiezione di coscienza (non prevista in Italia per questi interventi) o le storie vere, raccontate nel volume, di coloro che si sono svegliati da uno stato definito di morte cerebrale. Mettendo a confronto ricerche di scienziati provenienti da diversi Paesi, il libro si sofferma poi sui business dell’ “indotto”, sul mercato clandestino degli organi e sui traffici di cellule staminali.
Con prefazione di Ferdinando Imposimato, nella quale si inquadrano gli aspetti normativi del fenomeno in ambito europeo, il volume, firmato da Rita Pennarola, si intitola “Ultimi – inchiesta sui confini della vita” ed è in uscita a novembre. Ne pubblichiamo in anteprima alcuni significativi stralci.
Quote di produttività. Dietro questo brutale dettato aziendalistico si cela una delle principali ragioni che inducono gli ospedali ad incrementare il numero dei trapianti effettuati nell’anno, pena il possibile smantellamento del reparto con relativi primariati, equipes chirurgiche, infermieri, acquisto di farmaci ed apparecchiature. Regioni e centri di riferimento trapianti hanno infatti il potere di revocare l’idoneità a quelle strutture che abbiano svolto nell’arco di un biennio meno del 50 per cento dell’attività minima di trapianto prevista dagli standard stabiliti dal ministro della Sanità.
Questo – secondo quanti si oppongono agli espianti a cuore battente – spiegherebbe la fretta. Spiegherebbe i casi delle migliaia di altri giovani considerati troppo presto donatori di organi. «Tutti morti – dicono alla “Lega contro la Predazione degli Organi e la morte a Cuore Battente” di Bergamo, che da anni raccoglie e diffonde documentazione scientifica internazionale – in nome di uno Stato divenuto ormai azienda di macellazione e distribuzione di organi, con un indotto multimiliardario». (…)
TRAPIANTI SPA
Il trapiantificio Italia è una macchina gigantesca che si alimenta di carriere, fatturati, giri d’affari farmacologici da milioni e milioni di euro. Una corazzata nella quale ognuno ha il suo ruolo. Anche gli anestesisti che in molte Aziende Ospedaliere – come ad esempio quelle della Campania – ricevono un bonus da duemila euro per ogni segnalazione di possibile donatore andata “a buon fine”. Ed anche ai tre medici componenti la commissione chiamata ad accertare lo stato di “morte cerebrale”, va un gettone di presenza ogni volta che si riuniscono.
(…) Perchè una struttura si veda revocare l’autorizzazione del ministero basta che in due anni abbia effettuato la metà del numero minimo di interventi previsti: che sono 30 di rene e 25 di fegato.
Per rendere tali principi maggiormente espliciti, a giugno 2004 è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale il provvedimento del 29 aprile di quello stesso anno attraverso il quale l’intera efficienza del sistema può essere determinata e controllata punto per punto, pena la chiusura della struttura sanitaria adibita ai trapianti (con relativa perdita di primariati, carriere, posti del personale parasanitario, addetti alla comunicazione, etc). (…) L’Accordo ministero-regioni inserisce espressamente tra gli indicatori il «numero di trapianti effettuati da donatore cadavere e da donatore vivente nell’ultimo triennio», ricorrendo ancora una volta alla consueta terminologia fuorviante del “cadavere”. Più avanti vengono elencati ulteriori criteri connessi alla produttività di ciascun centro trapianti regionale o interregionale: «numero di donatori utilizzati nell’area; numero di organi prelevati nell’area; numero di organi offerti al Centro trapianti; numero di organi offerti al Centro, rifiutati dal centro stesso ed accettati da altri centri trapianto». Entro il 31 gennaio di ogni anno i centri sono tenuti a comunicare i dati sulla propria efficienza, che devono essere valutati dal CNT.
(…) Nel Lazio solo per il rene esistono ben 5 centri trapianti. A Parigi ce n’è solo uno. Spiega Franco Filipponi, presidente della Società italiana per la qualità dei trapianti: «Difficilmente una struttura che produce meno di 25 trapianti di fegato all’anno svolge buona formazione e buona ricerca. Ma si sa, aprire nuovi reparti piace molto ai nostri politici, è veicolo di propaganda. I centri sono troppi e troppo frammentati».
Quale genere di computo “numerico”, allora, si adotta nelle procedure di valutazione dei centri trapianto? A gennaio 2003 il dicastero della Salute aveva presentato i primi dati ufficiali sulla qualità di queste strutture in Italia, basati sulla valutazione effettuata a partire dal 2002 ad opera del CNT. «L’intento – veniva spiegato nella presentazione – è quello di effettuare, al termine delle verifiche, un confronto dei risultati ottenuti da tutte le strutture ospedaliere del Paese analizzate, arrivando così all’individuazione dei centri di eccellenza; una tecnica di gestione comparativa, ben conosciuta nella cultura aziendalista e definita di benchmarking». (…)
Tre i criteri seguiti per il sistema di misurazione della qualità. In primo luogo il numero dei trapianti effettuati. Al secondo e terzo posto nei criteri di valutazione, la sopravvivenza ad un anno del paziente trapiantato e l’idoneità del Centro ad affrontare i casi complessi.
E il donatore? Le sue condizioni, la valutazione sul controllo effettuato dal collegio che deve dichiararne la morte cerebrale prima di procedere all’espianto? I tentativi di preservare fino all’ultimo la sua vita per esaminare ogni possibilità di salvarla? Non una parola, naturalmente. Questo genere di valutazione non viene presa in considerazione dalla legge: si dà per scontato che non possano esistere errori, fretta, negligenza o superficialità nella dichiarazione di “morte”, mentre per le équipe che effettuano l’espianto-trapianto si fissano criteri rigidi e severe procedure di valutazione.
MANAGEMENT DELLA MORTE
(…) Ancor piu’ esplicito il senso di questa sfida sul terreno della produttività fra i diversi centri trapianto regionali nel documento attraverso cui il CNT, a fine 2007, spiegava il percorso in atto per incentivare tali strutture ad adeguarsi agli elevati standard richiesti. (…) «Una grande importanza ai fini della valutazione verrà attribuita a tutti i dati relativi alle esperienze e ai processi, dove verranno conteggiati i decessi con lesione cerebrale acuta, gli accertamenti di morte, il numero di opposizioni e naturalmente il numero di donatori effettivi. In tale ambito, e per pervenire ad un indice realistico che evidenzi il reale volume di attività del centro, verranno esaminati gli aspetti di management della cerebro-lesione acuta».
Ictus, aneurismi, ischemie cerebrali acute ed altre devastanti lesioni traumatiche che fino a qualche anno fa erano solo di pertinenza dei medici, della loro preparazione professionale e di quella tensione capace di strappare tante vite alla morte lottando fino all’ultimo con tutti i mezzi, oggi sono piuttosto, nella terminologia della trapiantistica corrente, un fatto che riguarda management e procurement. Più ce ne sono, di candidati all’espianto, per traumi encefalici gravi, meglio è, per l’indice di valutazione del centro trapianti.
«Il processo di procurement – specifica infatti il CNT nel documento – verrà dunque valutato in relazione alle caratteristiche strutturali, organizzative, qualitative e quantitative dell’ospedale, della Rianimazione e del coordinamento locale, utilizzando indicatori per i singoli item di valutazione, in riferimento agli standard nazionali, europei e al benchmarking presente in letteratura».
Il benchmarking – che sembra diventato la parola d’ordine per quanti si occupano di espianti – è una metodologia di marketing che indica la competizione sul mercato e la capacità – o almeno la tendenza – ad arrivare primi. Adottato tempo fa oltreoceano nel campo della concorrenza fra produttori di fotocopiatrici, con l’aziendalizzazione spinta della sanità ha trovato la sua collocazione “ideale” nei criteri per definire la efficienza dei centri trapianti e le loro “dinamiche contrattuali”.
LE PAROLE PER DIRLO
Una cosa, naturalmente, è il linguaggio che i general manager del trapianto usano parlando fra loro, un’altra è imparare a trattare con i familiari degli ammalati gravi per ottenere il consenso all’espianto. Una abilità decisamente difficile da conquistare, quando si debbono fare i conti tutti i giorni con indici di produttività e audit aziendali, ma non meno strategica per quella attività di procurement considerata requisito indispensabile.
Servono, insomma, le parole giuste per dirlo. E non bastano semplici comunicatori. “Trapianti d’organo: dimensioni esistenziali ed etiche” è una risposta a questa delicata esigenza pubblicata sulla rivista ufficiale del Centro Nazionale Trapianti. A firmare il documento sono Ivo Lizzola, professore associato di Pedagogia Sociale all’Università di Bergamo, e Mauro Ceruti, preside della facoltà di lettere presso lo stesso Ateneo.
Il lungo saggio, più che una riflessione esistenziale sulle pratiche di espianto-trapianto, suona come un’operetta morale a beneficio dei medici che sono quotidianamente tenuti ad informare i familiari sullo stato di “morte encefalica” del proprio congiunto e a chiedere loro il consenso per la donazione. Destinatari del documento sono infatti i responsabili delle strutture create ad hoc per incentivare le donazioni nella popolazione. (…) «Attenzione alle contabilità, all’efficienza da migliorare, incrementare, garantire. Rischia di restare in penombra il dono-gesto con il suo carattere di continuità e di compimento di una biografia, e di patto di fraternità. (…) L’insistenza sugli organi da trapiantare – scrivono – sull’essere “risorse scarse”, bene pubblico da amministrare con cautela e “giustizia”, sviluppa un’attenzione sul dono-oggetto, avulso dal contesto umano». Insomma: insistete sul “dono fraterno” e non sognatevi di far trasparire le stringenti esigenze di benchmarking che pure sono alla base della richiesta.
IL MURO DEL DOLORE
(…) Nonostante tante “cautele” nel linguaggio, continua a crescere anche in Italia il numero delle opposizioni. Il Sistema informativo trapianti (nella terminologia ufficiale il termine “espianti” è rigorosamente bandito), con sede presso il ministero della Salute, aggiorna periodicamente le statistiche su donazioni, interventi eseguiti ed opposizioni all’espianto. Al 20 settembre 2008 venivano segnalati 1498 donatori, 1774 trapianti eseguiti, 71 trapianti da vivente, il tutto comprendente anche la donazione di tessuti e di cellule. La flessione diventa evidente nel raffronto con il 2007 (2201 donatori, 3031 trapianti, 131 da vivente) e soprattutto con il 2006, quando furono eseguiti 3183 trapianti. (…)
Per fronteggiare l’ondata montante del dissenso, il CNT ha pubblicato questa estate un documento dal titolo “Position Paper sulla determinazione di morte con standard neurologico”. Elaborato da uno staff di cinque medici, compresi il direttore del Centro Alessandro Nanni Costa (area PD) ed Andrea Gianelli Castiglione, sempre del Cnt, lo scritto ammette «l’esistenza di considerazioni dissonanti e dubbi riportati negli anni sulla stampa e nella letteratura medica».
A chi abbia letto con attenzione il documento non sfuggono alcuni controversi passaggi. In un periodare affrettato Nanni Costa e i suoi spiegano, ad esempio, che «le attuali tecniche rianimatorie potrebbero probabilmente essere in grado di procrastinare ad libitum l’arresto circolatorio, benchè uno studio prospettico in tal senso non sarebbe accettabile; la perdita irreversibile della “neural driving force of existence”, come funzione vitale essenziale ed esclusiva dell’encefalo, sembra essere al contrario il razionale indispensabile e sufficiente per la determinazione della morte dell’essere umano». Gli stessi aspetti, affermati qui con incrollabile certezza, sui quali oggi nel documento della Versilia si innesta una decisa retromarcia.
Non meno sorprendente, poi, la puntualizzazione che viene fatta sul termine “cadavere”: «La comunità scientifica parla di morte solo ed unicamente al fine di distinguere un cadavere da una persona, per poter dare alle persone le cure, ed ai cadaveri la dovuta sepoltura. Usa poi il termine “morte dell’uomo” o “morte della persona” sempre in un’ottica retrospettiva, cioé al fine di affermare che essa è avvenuta con certezza e che ci si trova di fronte ad un cadavere». Giusto. Ma come definire, allora, colui che sta per essere espiantato? Non è più una “persona”? O è una “persona” che diventa “cadavere” dopo il prelievo dei suoi organi?
DONARE? SOLO I PAZIENTI
(…) Fa notizia la nascita a Udine della prima ed unica associazione italiana di camici bianchi che si sono finalmente decisi a donare almeno il sangue. «Molti donatori – spiegano alcuni studenti di medicina, promotori dell’iniziativa – si chiedono se i medici, che conoscono l’utilità del sangue, siano anche donatori a loro volta… Ora ci auguriamo che la realtà di Udine possa essere presa d’esempio da altri Ordini».
Pare insomma che il motto, per i camici bianchi, sia sempre stato: “fate che a donare siano gli altri”. Ed effettivamente, scorrendo statistiche e cronache, i casi di medici diventati donatori di organi sono gocce in un oceano.
L’AFFARE CYCLOSPORINA
Tanto nel caso di trapianti legali, quanto nelle operazioni frutto di traffici illeciti, la riuscita degli interventi ha un nome ben preciso: si chiama cyclosporina ed esercita un effetto immunosoppressore molto simile a quello realizzato sull’organismo umano dal virus dell’Aids. E’ prodotta sin dal 1984, anno della sua scoperta, nei laboratori del colosso farmaceutico Novartis, non a caso principale sponsor a livello mondiale dei convegni sui trapianti. La cyclosporina viene usata per impedire la difesa autoimmune nell’organismo del soggetto ricevente che, in assenza di questo farmaco, letteralmente espelle l’organo estraneo, causando la morte del paziente.
No cyclosporina, insomma, no trapianto. E questo vale anche per quelli clandestini. «Perchè la Novartis – chiede lo storico sociale David J. Rothman, autore di uno fra i più autorevoli rapporti sul traffico internazionale di organi – non decide di vendere la cyclosporina solo ai medici e agli ospedali dove vengono rispettati gli standard delle donazioni?».
I RIPENSAMENTI DI IGNAZIO MARINO
Chi nel Partito Democratico, non meno che sul piano professionale, intorno all’exploit dei trapianti degli ultimi 40 anni ha costruito una strabiliante carriera è senza dubbio Ignazio Marino, per una vita sotto l’ala politica di Massimo D’Alema. La partecipazione del chirurgo alla sua Fondazione Italianieuropei era stata un fattore tutt’altro che secondario nel 2006, quando Marino fu candidato ed eletto in parlamento dove, nell’attuale legislatura, presiede la Commissione d’inchiesta sull’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale.
Benchè rivale del dalemiano Pier Luigi Bersani nella corsa per la segreteria del partito, è stato proprio in un convegno internazionale organizzato da Italianieuropei, il Festival della Salute 2009, che nei giorni scorsi un’équipe di prestigiosi ricercatori internazionali capitanata da Ignazio Marino ha sottoscritto il documento in cui si mettono in discussione i criteri di definizione medica della “morte cerebrale”, che hanno guidato la mano dei chirurghi negli espianti per oltre quarant’anni. Un dietro front che, per giunta, arriva negli stessi giorni in cui esce per Einaudi “Nelle tue mani”, il libro nel quale Marino ribadisce le sue convinzioni in fatto di trapianti. E si sofferma sui tanti, dolorosi aspetti della malasanità in Italia. «Come se – è stato il commento di molti lettori – lui stesso, tanto in veste di medico quanto ora da politico, potesse chiamarsi fuori da ogni responsabilità».
Tornato in Italia nel 1999 dopo la lunga permanenza negli Stati Uniti, Marino va a guidare l’Ismett, il complesso chirurgico di eccellenza gestito dalla Regione Sicilia in convenzione con l’Università di Pittsburgh. Una nuova, luminosa era sembrava dischiusa per la martoriata sanità al Sud. Ma meno di tre anni dopo, a settembre 2002, Marino rassegna le dimissioni in seguito alle aspre polemiche che avevano accompagnato la gestione dell’istituto in quel periodo e, soprattutto, all’inchiesta aperta dalla Procura palermitana, poi conclusasi in archiviazione, ma sfociata in un rapporto della Corte dei conti sull’Ismett, dove in quel triennio erano stati eseguiti appena 56 trapianti (contro i 440, per esempio, di Torino), a fronte di enormi risorse pubbliche impiegate, in particolare per la convenzione con i ricercatori statunitensi. Mentre i dati ufficiali del ministero vedevano l’Ismett mal piazzato anche sul fronte della sopravvivenza media dei pazienti trapiantati.
Rita Pennarola
Fonte: www.lavocedellevoci.it
Link: http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=232
5.10.2009