DI ANDRES DEVESA
A tutte le persone che sollevano polvere guidando una ruggente automobile mostro sempre una faccia dura e severa e non ne meritano un’altra migliore. Pensano allora che sia un vigilante o un poliziotto, incaricato da alte autorità ed istituzioni di vigilare sui conduttori, prendere il numero di targa e successivamente denunciarli. Sempre osservo in modo cupo e oscuro alle ruote, al corpo meccanico, e mai agli occupanti, nei confronti dei quali provo un sentimento di disprezzo, non per ragioni personali, ma per un’esclusiva questione di principio; perché non capisco e non capirò mai come possa essere un piacere passare a tali velocità di fronte a tutte le creature e a tutti gli oggetti che la nostra splendida Terra mette in mostra, come se uno fosse impazzito e dovesse correre per non disperarsi miseramente.
Robert Walzer: El paseo (1)
Ho una cosa da confessare. C’è un aspetto della mia vita che è ben noto a tutti i miei cari, ma che non manca di impressionare quando appreso da persone sconosciute. Non possiedo un’automobile. Ebbene sì, lo devo confessare. E non è tutto. Ho la patente(2) , ma non l’automobile e inoltre, cosa che crea ancora maggiore scompiglio tra la gente, provocando sguardi interrogativi e sussulti di sorpresa, non ho la minima intenzione di comprarne una. Quello che è certo è che provo un profondo disprezzo per quei mostri meccanici.
Non intendo possedere un’automobile. Anche nel caso in cui disponessi del denaro sufficiente per comprarne una, non lo farei. Perché? In primo luogo, per motivi di coscienza: l’uso dell’automobile implica uno spreco, tanto in energia quanto in materiali, tra i più assurdi dell’odierna civiltà industriale; sono altamente contaminanti; necessitano di petrolio, un combustibile pericoloso (ricordiamoci del Prestige e del motto “Se hai un’automobile mangerai benzina” “Si tienes coche, comeràs fuel”
) oltre che scarso, ragione per la quale si combattono guerre per il suo controllo; determinano migliaia di morti e feriti tutti gli anni, essendo la maggior causa di mortalità tra i giovani; trasformano definitivamente il paesaggio e la città ecc (3). L’automobile riassume in sé tutte le caratteristiche del capitalismo: l’individualismo esacerbato, il disprezzo della vita, lo spreco delle risorse, l’imposizione totalitaria al resto della società,…. Ma c’è un altro motivo che, sebbene decisamente relazionato a tutti questi, prevale e mi spinge a non avere una macchina: il desidero di conservare, fino a dove sia possibile, la mia libertà.
Che relazione passa tra l’automobile ed il mantenimento della libertà? Considerato poi il fatto che, secondo quanto trasmesso dagli annunci pubblicitari, i Santi Evangelici della nostra epoca, l’automobile ci permette una maggiore libertà. Libertà di circolare, di spostarci secondo ogni evenienza. Ma allora mi chiedo: perché dovremmo cambiare aria se tutti i luoghi sono uguali, se tutto si è standardizzato ed omologato, se non c’è un luogo incontaminato? La libertà, nonostante la sua importanza, è utilizzata da tutti e da tutti lasciata ai piedi del letto il giorno seguente. Viene utilizzata, ma disprezzata profondamente, perché temuta. Per tale motivi ci viene venduta, sotto forma di libertà, la maggiore delle schiavitù, la neolingua orwelliana allo stato puro.Per quanto mi riguarda, la libertà è qualcosa di così semplice come poter passeggiare per la città, senza direzione ne coscienza, godendosi semplicemente la strada, le persone, il paesaggio: in una parola, vagabondare. Questo è diventato francamente difficile oggigiorno. La città spettacolare, con la sua monumentalizzazione, specializzazione ed estraneità alla dimensione umana (la città si disegna per l’automobile, non per l’uomo) impedisce che in essa si possa sviluppare quello che una volta si chiamava vita. Il semplice atto di passeggiare, come tempo fa avrebbe fatto un “flaneur” di Parigi (4), è qualcosa che appartiene alla preistoria, tanto lontano dal tempo in cui viviamo quanto i rupestri dipinti di Altamira.
< La vita per strada è un inferno. Tutto è colonizzato dalla mercanzia, dalla funzionalità del sistema capitalista. Capita che, se ci si ferma tranquillamente in mezzo alla strada per il semplice piacere di osservare ciò che ci circonda o di rilassarsi fumando una sigaretta, non passi molto tempo prima che arrivi qualcuno, generalmente vestito di azzurro con cappello e distintivo, a disturbare: “Si è perso??”. Non possono comprendere che il maggior atto di libertà che rimane all’essere umano è sottrarsi al domino della schematizzazione del vivere e che un modo stupendo per farlo è negarsi a partecipare alla pazzia del trasferimento obbligatorio, godendo del vagabondare nella misura in cui sia ancora possibile farlo. Mi rifiuto di perdere la mia libertà dentro la massa informe di blocchi metallici che giorno per giorno avanzano ritorcendosi in mezzo alle rovine della città! Mi rifiuto di partecipare alla follia! Chiedo una città umana, una città basata sulla Ragione: “E’ necessario ricostruire tutto: Città e Ragione sullo stesso terreno e le macerie scelte e riordinate, allo stesso modo degli abitanti delle “baraccopoli”, espulsi dalle città cammello e dai campi della menzogna (5)
Non molto tempo fa, quando ancora rimanevano resti di qualcosa chiamato vita, non era strano vedere bambini giocare nelle strade, signore che portavano le sedie in strada e parlavano tranquillamente sedute di fronte alle loro abitazioni. La città conservava una traccia di umanità. Ancora aleggiava un leggero ricordo di come era la vita nella comunità, il godere della strada come un o spazio pubblico, il mercato, la piazza, l’agorà come punto d’incontro di persone che condividono uno spazio pubblico. Pensare ad una città diversa è essere un nostalgico. Si deve celebrare il trionfo della città moderna, con i suoi spazi separati (6) a immagine e somiglianza della divisione che ha sottomesso l’essere umano. La città spettacolare è riuscita a porre fine a qualsiasi traccia di solidarietà e comunità, consacrandosi alla dittatura della funzionalità, della mercantilizzazione e dell’omologazione. Non possiamo muoverci per la città senza andare in qualche posto: all’ufficio, al centro commerciale, alla discoteca, al cinema,….correndo per non arrivar tardi e poter produrre o consumare (7) sempre più. La città appartiene all’automobile, in quanto motore e simbolo del sistema industriale tutto si organizza in funzione delle sue necessità, le esigenze umane sembrano non importare in assoluto, trasformando il paesaggio, tanto urbano che rurale, riducendolo ad una successione di tappe del trasferimento automobilistico. Luoghi di transito per il consumo di surrogati momenti di vita, mentre la realtà (da vivere) ci scivola via tra le dita artritiche della standardizzazione.
Ad ogni modo, nonostante tutto, tra automobili parcheggiate in seconda fila, ingorghi stradali, annunci luminosi, centri commerciali, polizia di quartiere, degrado, disperazione, attraverso la città claustrofobia, fedele immagine della follia moderna, il nostalgico e irriducibile vecchio flaneur passeggia, deambula senza meta precisa, senza alcuna occupazione, senza saper dove si dirige, lasciandosi trasportare, fermandosi di qua o di là ad osservare alcuni bambini giocando per strada, interrompendo il traffico, sorridendo alla vista di automobilisti infuriati, isterici alla vista dell’orologio, gridando che arrivano tardi….arrivano tardi nel lasciarsi consumare la vita….
Andrés Devesa
Fonte: www.rebelion.org
Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=21270
13.10.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di OROSPESA
NOTE
1) Robert Walzer: El Paseo, Siruela, Madrid, 2005, p.23.
2)Le ragioni per le quali tengo la patente sono riconducibili ad una sola: l’imposizione sociale e familiare. Non avere la patente a vent’anni era come se non si esistesse, come essere una nullità. Adesso, con il passare degli anni, mi rallegro di essere un signor Nessuno, con patente, ma senza macchina.
3) Per approfondire meglio questi aspetti, niente di migliore che dare un’occhiata ad alcune monografie sul tema:
Trenes, tranvías, bicicletas. Volver a andar, Archipiélago. Cuadernos de crítica de la cultura, 18-19, 1994.
4) “Il flaeneur è al cospetto tanto della grande città come della borghesia. Nessuna delle due lo ha dominato. In nessuna delle due si incontra a suo agio come se fosse a casa sua. Cerca asilo nella moltitudine.” Walter Benjamin: Paris capital del siglo XIX”, Poesia e Capitalismo. Illuminaciones II, Taurus, Madrid, 2001, p.184.
5) Encyclopédie des Nuisances: La sinrazón en las ciencias, los oficios y las artes, Likiniano elkartea, Bilbao, 2000, p. 40.
6) La città moderna consacra la “separazione radicale tra luogo di lavoro e luogo di alloggio, tra centro amministrativo-commerciale e periferia abitata”, Miguel Amorós: “Urbanismo y Orden”, Las armas de la crítica, Likiniano elkartea, Bilbao, p.101.
7) Tanto l’una come l’altra cosa, poiché ormai sono talmente affini che è impossibile distinguere l’ozio dal lavoro, entrambi compulsivi e svuotati di contenuti.