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LA LEGGE DEL PETROLIO

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A cura di Davide
Il 7 Giugno 2008
127 Views
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DI LORETTA NAPOLEONI
Internazionale

La differenza con gli anni settanta è che le regole del gioco non le detta più l’occidente

L’impatto dell’inesorabile aumento del prezzo del greggio verso i 200 dollari al barile sarà disastroso per l’economia mondiale. Nessuno mette in dubbio questa cruda realtà. Come negli anni settanta, l’inflazione energetica erode il potere d’acquisto di salari e profitti, un fenomeno che a sua volta innesca la spirale della stagflazione: i prezzi salgono mentre la crescita rimane a zero.

Di fronte all’erosione della ricchezza, i consumatori cercano protezione nello stato. Negli anni settanta l’austerità che portò il mondo in bicicletta, l’introduzione dei limiti di velocità e le politiche di risparmio energetico cercarono di attutire l’effetto sui cittadini dell’onda anomala dei prezzi del greggio.

Nel villaggio globale, però, le cose vanno in modo diverso. La risposta dello stato tarda ad arrivare e i consumatori sono costretti ad arrangiarsi. In Irlanda del Nord gli automobilisti attraversano il confine per fare il pieno nel sud repubblicano, dove le tasse sulla benzina sono più basse.

Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna vanno sul sito petrolprices.com per trovare il distributore più a buon mercato della zona. E non si tratta di risparmi ridicoli: a Londra riempire il serbatoio di diesel da un benzinaio invece che da un altro può far risparmiare cinque sterline. Anche i ricchi sono diventati parsimoniosi. L’uso della carta platino dell’American Express, quella senza limiti di spesa, è in crescita ai distributori di benzina: su ogni acquisto si ottiene uno sconto tra lo 0.5 e il 5 per cento.

Chi non può o non sa arrangiarsi protesta. Dalla Scozia alla Bulgaria i camionisti scendono in piazza e bloccano le autostrade e Gordon Brown fa un’umiliante marcia indietro sull’aumento di due penny della benzina. I pescatori sfilano nelle capitali europee. A Madrid alcuni regalano il pesce ai passanti per far capire che il carburante assorbe tutti i profitti della pesca.

Per risparmiare, gli armatori del bacino del Mediterraneo non fanno più viaggi lunghi, quelli turchi e libanesi ormai lavorano solo nel mar Nero, e nessuno vuole spingersi fino all’Africa settentrionale. Tutti aspettano l’intervento dello stato e si chiedono perché tardi tanto. C’è chi sostiene che è la velocità con cui si è verificata l’impennata dei prezzi a paralizzare i politici.

Negli ultimi dodici mesi il costo di un litro di benzina è salito del 17 per cento nel Regno Unito, del 15 per cento in Austria e dell’8 per cento in Francia. Si tratta però di una giustificazione debole. All’inizio dell’ottobre 1973 un barile di petrolio costava tre dollari, poche settimane dopo dodici: quello fu un vero shock petrolifero.

Ma la natura della crisi ci riporta comunque agli anni settanta: uno squilibrio tra domanda e offerta fa crescere i prezzi e altera gli equilibri delle bilance dei pagamenti.

Chi importa petrolio soffre un deficit della bilancia commerciale, primi fra tutti gli Stati Uniti che consumano venti milioni di barili al giorno, circa il 25 per cento della domanda mondiale, e ne importano il 60 per cento a un costo giornaliero di un miliardo e mezzo di dollari. Le importazioni di gas e petrolio, e non le merci provenienti da Cina e Giappone, sono le voci principali del deficit commerciale statunitense.

I paesi produttori di petrolio invece si ritrovano con i bilanci in attivo. Circa tremila miliardi di dollari all’anno arrivano nei loro forzieri. Un fiume di denaro che negli anni settanta si riciclava in occidente con l’acquisto di buoni del tesoro americani e altri beni d’investimento in dollari. Erano queste le regole del gioco della supremazia del dollaro, accettate da tutti perché poggiavano su una reale supremazia economica occidentale.

Oggi, però, l’indebolimento del dollaro, la crisi dei mutui, l’impoverimento dell’occidente, il rallentamento della crescita le sta sgretolando. Oggi vige la legge del petrolio: chi ce l’ha lo sfrutta al massimo.

I paesi produttori non reinvestono più negli Stati Uniti o in Europa ma incanalano i profitti nei fondi sovrani, riserve monetarie diverse da quelle bancarie, e così evitano le pressioni alla rivalutazione delle loro monete mentre la ricchezza cresce. I fondi sovrani, che gestiscono tremila miliardi di dollari (il 10 per cento del pil mondiale), snobbano Wall street e la processione di banchieri occidentali che elemosina liquidità torna dal golfo Persico a mani vuote.

Grazie alla finanza creativa, il petrolio sottoterra frutta più di quello estratto: le partecipazioni petrolifere si riorganizzano in prodotti finanziari (gli assets backed securitites) il cui valore è agganciato al prezzo del petrolio.

A ogni impennata cambiano mano e fruttano profitti in un mercato virtuale, illusorio quanto quello dei mutui spazzatura americani. E allora perché sorprenderci se non s’investe abbastanza nell’esplorazione petrolifera e se l’appello di Bush per far aumentare la produzione cade nel vuoto?

L’incertezza dei governi occidentali su come gestire questa crisi è legata alla debolezza di chi consuma il petrolio rispetto a chi lo possiede. La differenza con gli anni settanta è che a dettare le regole del gioco non siamo più noi ma la legge del petrolio. L’era dell’energia a basso costo è finita e anche quella della supremazia degli stati occidentali volge al termine. Consumatori, camionisti e pescatori l’hanno già capito.

Loretta Napoleoni
Fonte: www.internazionale.it
Link: http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=19429
Internazionale 747, 5 giugno 2008

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