LA GUERRA IN LIBIA SPIEGATA A TUTTI

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DI ALFIO NERI

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Siamo avvolti dalla nebbia della propaganda planetaria. Per cercare di far luce sul panorama bellico attuale viene in nostro soccorso un prezioso libro scritto da Paolo Sensini, Libia 2011 (Jaca Book, Milano 2011 – € 12,00), in cui l’autore prova a far luce sulle ombre del “fatato” mondo della demagogia da quattro soldi che ci avvolge come una tiepida e confortevole bolla. Si tratta di uno di quei pochi lavori che, con una paziente azione di scavo e di cesello, ci permettono di focalizzare le trame che vengono proiettate da chi controlla i flussi di informazione mondiali. Un lavoro preliminare che è essenziale per formulare delle spiegazioni capaci di andare oltre gli slogan della propaganda.Il dato di fondo degli ultimi mesi è l’impressionante bolla mediatica che ha gestito i flussi informativi a livello mondiale creando una diffusa richiesta di un intervento umanitario che di umanitario aveva ben poco. La rete informativa mondiale ha fatto da battistrada all’intervento armato umanitario, letteralmente, creando prima un evento virtuale e poi istigando l’opinione pubblica a richiedere esattamente ciò che i poteri forti avevano il desiderio di fare per proteggere i propri interessi materiali.

Questo piccolo grande libro cerca di dare una risposta a questo meccanismo di produzione di una realtà virtuale disumana. Il testo è stato pensato e scritto nella prima fase, quando erano iniziati bombardamenti ma anche quando i giochi erano ancora aperti. Un momento molto particolare in cui la NATO aveva optato per lo scontro aperto ma anche l’esatto istante in cui erano possibili altri esiti, meno sanguinosi e più legato al buon senso; molto differenti da quello che poi si è avuto davvero. Letto a cosa fatte, questo volume permette di comprendere che la guerra non era l’unica possibilità e che all’inizio del 2011 esisteva davvero la possibilità oggettiva di trovare altre strade. Esisteva (e continua ad esistere) un abisso fra quanto è stato detto nei giornali di tutto il mondo e quanto c’era (e rimane) di nascosto e di non detto in tutta questa vicenda.

Libia 2011 è, nella sua sintesi, un testo ambizioso. Il suo scopo è quello di illustrare alcuni nodi irrisolti dell’attuale intricata questione libica. Il libro, con un tono agevole e risoluto (supera di poco le 170 pagine, poteva essere tranquillamente lungo il doppio), affronta di petto la storia libica degli ultimi cento anni. Inizia con l’invasione d’inizio Novecento fatta dall’Italia giolittiana e termina con l’attuale insurrezione “democratica”, organizzata dalle tradizionali potenze imperialiste dell’area (Francia, Regno Unito, Stati Uniti e naturalmente Italia). La narrazione comincia con l’invasione della Libia del 1911 e con l’imprevista feroce resistenza delle tribù libiche alla penetrazione coloniale italiana. In questa storia, mai veramente raccontata in Italia (e sarebbe anche il caso di chiedesi perché), emerge con forza la Senussiya, una confraternita islamica, fautrice di un nuovo rigorismo religioso, che dirige per venticinque anni il più forte movimento di resistenza alla colonizzazione italiana nell’entroterra della Cirenaica. La storia di questa confraternita è assolutamente rilevante sia per l’importanza storica della prolungata resistenza all’occupazione italiana, sia soprattutto per la sua centralità nella formazione del primo stato indipendente libico. Infatti, grazie agli ottimi rapporti che avevano con gli inglesi che occupavano l’Egitto, con l’indipendenza del paese venne nominato monarca un loro esponente, Re Muhammad Idris, una specie di santone completamente estraneo alla modernità. Re Idris era un uomo politicamente molto vicino alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti che, in cambio dell’alleanza, che ottennero, per decenni, due enormi basi militari, rispettivamente a Bengasi (inglesi) e a Tripoli (americani).

I primi decenni di indipendenza della Libia hanno dato forma a un nuovo Stato apertamente clericale, arcaico e patrimonialista, controllato politicamente dalle due potenze egemoni. Contro questo regime corrotto, alla fine degli anni Sessanta cospirarono un gruppo di giovani ufficiali rivoluzionari direttamente appoggiati dai servizi segreti italiani (il colpo di Stato venne pianificato a Abano Terme). Il gruppo, alla cui guida vi è anche Gheddafi, si ispirava alla figura di Nasser e a una forma di nazionalismo popolare e rivoluzionario. In termini più operativi si proponeva la costruzione di una specie di uno Stato socialista e islamico che avrebbe dato alle masse arabe la possibilità di partecipare a un nuovo Stato nazional-rivoluzionario connotato da una forte impronta partecipativa di tipo romantico-popolare. Le attese iniziali erano enormi e i risultati furono comunque inferiori alle aspettative suscitate. Tuttavia questo sforzo di entrare di forza nella modernità con una strategia d’attacco, come attori di primo piano, ebbe conseguenze non secondarie. Nel giro di un decennio viene costruito uno Stato ipertrofico composto da una pletorica massa impiegati statali non particolarmente produttivi. La distribuzione dei profitti petroliferi permette comunque l’urbanizzazione di gran parte del paese, la diffusione del benessere in un paese che prima era poverissimo e di una certa forma di modernità, forse non compiuta ma reale in termini di assistenza sanitaria e di scolarizzazione di massa. Appare esemplare, ad esempio, il ruolo della donna che, con la rivoluzione, diviene più propositivo e attivo nell’intera società. Questo processo di emancipazione femminile, promosso dall’alto, fu uno dei fattori (assieme alla riduzione dei privilegi economici del clero) che porta prima a un marcato peggioramento dei rapporti con i settori sociali più clericali della società libica e poi ad uno scontro aperto con i gruppi islamisti che assumono nel tempo posizioni apertamente eversive. In Cirenaica, la zona in cui per ragioni storiche l’influenza islamista era più forte, si formano gruppi armati fondamentalisti che furono repressi da parte delle forze di sicurezza libiche.

L’apparente vittoria di Gheddafi lascia nel paese una situazione di tensione latente che è stata usata l’anno scorso dai servizi di sicurezza francesi, inglesi e americani per tentare un nuovo colpo di Stato. I servizi segreti delle vecchie potenze imperialiste fomentano un nuovo governo che rimanda alle vecchie relazioni preferenziali del passato, quelle che c’erano nel momento dell’indipendenza del paese. Il cuore della rivolta, che ha dato origine al nuovo regime, appare essere la Cirenaica della Senussiya e tutti quegli strati sociali che si sono apposti al vecchio regime. Un’analisi, anche superficiale, dei dati a disposizione mostra degli elementi assolutamente inquietanti come la presenza fra Bengasi, Derna e Tobruch (l’area dove iniziò la rivolta contro il laico Gheddafi) della più alta concentrazione di martiri islamismi per abitante al mondo, molto di più di quella che si rintraccia in altri paesi toccati dal problema come l’Arabia Saudita, l’Iraq o l’Afganistan.

L’epilogo della vicenda è di questi giorni. La morte del “dittatore”, ucciso dopo che, incolume, era stato fatto prigioniero, e l’assassinio di alcuni suoi familiari più prossimi. La vittoria di una coalizione raffazzonata di attori politici eterogenei che viene definita “democratica” dai giornali di regime delle potenze imperialiste da sempre affamate di petrolio.

Adesso appare ormai una facile profezia predire che il futuro della Libia sarà infelice. La guerra civile, che potrebbe non essere ancora terminata, si sfuma nella richiesta esplicita da parte dei vincitori di introdurre la Sharia, mentre le potenze vincitrici parlano apertamente di una “vittoria della democrazia”. Nel movimento armato dei vincitori, detto appunto “democratico”, troviamo integralisti islamici che in Afganistan sarebbero tranquillamente definiti come collaterali ai Talebani.
Non è compito mio trarre altre conclusioni. L’autore sottolinea che una delle ragione principali dell’intervento è nell’esistenza di fondi sovrani libici che con la guerra civile sono stati prima bloccati nelle banche prive di liquidità e poi resi politicamente inoffensivi con la fine della guerra. La Libia aveva enormi investimenti all’estero che oggi, in un momento di crisi finanziaria possono essere decisivi per la vita di una nazione. Inoltre i bombardamenti, che hanno distrutto le infrastrutture del paese, hanno determinato una realtà in cui quel poco che il nuovo governo riuscirà a salvare dovrà essere velocemente usato per riportare il paese a un livello di vita accettabile. In questa situazione il petrolio dovrà essere dato, forse a prezzi di favore, a chi ha permesso la vittoria del nuovo regime. Delle ragioni umanitarie che hanno condotto all’intervento resta ben poco. I presunti “massacri” che hanno scatenato l’intervento erano una menzogna giornalistica inventata di sana pianta dalle televisioni scandalistiche delle monarchie feudali del Golfo Persico. L’ingerenza militare dettata da ragioni umanitaria appare ormai nient’altro che una scusa usata da più forte per stritolare il più debole.
Per finire vanno dette almeno due parole sul movimento pacifista. Gheddafi non era un santo; il suo regime era una delle tante forme di nazionalismo populista che troviamo in molte parti del mondo. L’indubbia popolarità della lotta all’imperialismo dei suoi primi tempi non ha comunque impedito la formazione di uno Stato ipertrofico, corroso da forme di nepotismo (possibile che attorno avesse solo servi e parenti?). Il punto è però che un club di potenze egemoni (chi più chi meno; l’Italia ne faceva parte anche se, a mio modesto parere, agiva contro i suoi interessi nazionali) ha deciso che era venuto il momento di controllare politicamente i fondi sovrani e di impadronirsi degli idrocarburi della Libia. Di fronte ad una guerra imperialista che ha calpestato tutti gli accordi internazionali attualmente in vigore (a rigore gli eventi erano di politica interna quindi al di fuori delle competenze dell’ONU) e giustificata con una serie di bugie grossolane (i massacri erano stati inventati di sana pianta), il movimento pacifista doveva impegnarsi in una lotta per la difesa del diritto internazionale. Con questo non intendo fare l’apologia, banalmente, di un personaggio pieno di buone intenzioni che ha dato forma a una realtà con taluni aspetti discutibili. Il punto è che, in questa fase storica, l’uso della menzogna umanitaria come giustificazione delle azioni più abbiette è diventata sistematica e si è ripetuto nel tempo.

In questo contesto, il movimento pacifista non si è mosso. La guerra era nel cortile di casa e tutti hanno taciuto (e intendiamoci, il caso è così lampante che il silenzio non può che essere colpevole). Se non vi è stata la capacità di mobilitarsi per una guerra ai nostri confini, che cosa si potrà dire quando ci saranno altre guerre, altrettanto ingiustificabili, come quella potrebbe interessare la Siria (manca il petrolio) oppure più probabilmente l’Iran (c’è il petrolio)? Il movimento pacifista deve capire che potrebbero sorgere a breve conflitti ancora più devastanti di quello libico. Potrebbero ripetersi, nei prossimi mesi, guerre inutili e pericolose come l’invasione dell’Iraq (forse un milione di persone morte e nessuno se ne è accorto, e poi chi ha vinto? Noi? E chi erano i nostri nemici?), o come quella ancora in corso dell’Afghanistan (ma poi è possibile che i nostri alleati in Libia, gli integralisti musulmani, siano anche i nostri nemici in Afghanistan? Possibile che nessuno se ne sia accorto?). Il movimento pacifista deve riflettere sugli eventi e realizzare, perlomeno, di avere perso l’occasione di schierarsi dalla parte giusta.
Rimane, mi sembra necessario ripeterlo, la necessità di uscire dalla bolla mediatica. Rimane la necessità di tanti altri lavori, ancora non scritti, piccoli e grandi, per fare fronte a una massa enorme di dati, spesso fuorvianti, che permettano un’autentica comprensione storica degli eventi. Quello che al momento possiamo però dire con certezza è che, Libia 2011, risulta essere un libro indispensabile per comprendere a fondo le ragioni e la dinamica di questa sporca guerra. E forse anche per quelle che seguiranno.

Alfio Neri

13.12.2011

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