LA GUERRA IN EUROPA: DEUTSCHE BANK E LA MANOVRA DI RENZI

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DI PAOLO RAFFONE

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

Gli egemoni si sa che hanno la prerogativa dell’eccezione e dell’eccezionalità. Proprio in forza dell’esercizio di questa prerogativa si sta consumando uno scontro violento sul suolo europeo. Da un lato ci sono gli Usa che dalla fine del gold standard hanno sposato una politica monetarista manipolativa – composta di svalutazioni, aumento della massa monetaria, inflazione/deflazione legata alle commodities, linee di credito buy back, deregolamentazioni strumentali e l’uso delle sanzioni economiche – che hanno permesso di mantenere il dollaro come moneta di riserva mondiale.

Dall’altro c’è la Germania che dopo la stangata recessiva post riunificazione ha accelerato nella creazione dell’eurozona per creare un meccanismo di consolidamento dell’Europa attorno ai fondamentali tedeschi – un meccanismo composto da contrazione della massa monetaria, limite rigido dell’inflazione per beneficiare delle asimmetrie dell’eurozona, destrutturazione e compressione del ruolo dello stato nell’economia, riduzione della spesa pubblica sociale, e controllo sovranazionale delle politiche economiche nazionali.

Gli Usa hanno potuto contare sul lavoro di squadra con il Regno Unito che, come principale gestore mondiale dei derivati sulle commodities e sul forex, ha potuto trarre vantaggio per se mentre svolgeva il ruolo di “guardiano” del dollaro in Europa. A riprova di questo stato di cose, tutti ricordiamo ancora i (mis)fatti sul panfilo Britannia lungo le coste italiane nel 1992.

Questo quadro si è incrinato con il lancio (anticipato) dell’euro avvenuto con il regolamento della Commissione europea 1466/97, su proposta e redazione dell’allora ministro delle finanze tedesco, il falco della Cdu Theo Waigel. Probabilmente non fu un caso che dopo aver perso le elezioni legislative nel 1998 a favore di una coalizione Spd-Verdi, il cancelliere Helmut Kohl sia stato investito nel 1999 da un’ondata di accuse e processi che ne hanno gravemente rovinato l’immagine pubblica.

Mentre il governo rosso-verde di Gerhard Schröder rassicurava gli angloamericani mettendo in atto riforme neoliberiste e sostenendo il percorso di integrazione europea, è nel 2000 che la Germania mette le basi per diventare una vera potenza economica globale. Infatti, il consiglio di amministrazione della Deutsche Bank nominò Ceo lo svizzero Josef Ackermann. Quest’ultimo assunse le funzioni nel 2002, trasformando la blasonata e antica banca tedesca in un “attore principale mondiale dell’investment banking”. Tre anni furono sufficienti per costruire una potenza di fuoco finanziaria che servì a Schröder per approfondire i legami orientali, con la Russia. Quest’ultima, con l’ascesa di Putin, non fidandosi a ragione dei “gentili” servizi finanziari britannici, conferì proprio alla Deutsche Bank la maggioranza della gestione dei derivati energetici. Non a caso Schröder si dimise nel 2005 e il giorno successivo comparve a capo del consorzio North Stream con il conglomerato russo Gazprom. Dopo di lui, la Germania è governata da Angela Merkel che, senza deviare dalla linea di Ostpolitik di Schröder (finché ha potuto), invece ha operato alacremente per realizzare il progetto Waigel in Europa. Così la Germania è passata, in poco meno di un decennio, da importante economia regionale ad attore di rango globale.

Ma come ha fatto Josef Ackermann (2000-2013)? In poco tempo la Deutsche Bank è diventata un trader mondiale dei derivati, cioè quei contratti il cui prezzo futuro è stabilito in anticipo anche di un paio di decenni. Si stima che ad oggi il suo portafoglio totale dei derivati vale circa 55 triliardi di euro, cioè 5 volte il Pil dell’Ue e quasi equivalente al Pil mondiale. Ma il dato più sconvolgente è che questa massa di valore cartaceo è stata costruita con una leva finanziaria di oltre 100 volte rispetto al capitale depositato che è di 522 miliardi di euro. L’esposizione della banca verso le economie della periferia europea è minima (18 miliardi in Italia, 12 in Spagna e quisquiglie in Grecia).

È evidente che l’ascesa di un attore di queste proporzioni abbia infastidito la City di Londra dove i giganti bancari Hsbc e Barcalys si sentivano insidiati proprio nel settore dei derivati che gestivano in quasi monopolio con le banche americane, Goldman Sachs e Lehman Brothers. Dopo la crisi del 2007-2008 la Lehman Brothers è stata “sacrificata” mentre la Deutsche Bank ha continuato a lucrare (2004-2008) ben 32 miliardi di dollari proprio con i Cdo (obbligazioni di debito collateralizzato) sul mercato immobiliare americano. Si può ben immaginare che i risentimenti verso Deutsche Bank siano molti e crescenti. Considerata l’enormità del portafoglio dei derivati della Deutsche Bank, è abbastanza chiaro che semmai si dovesse procedere ad un bail-in nessuno degli attori europei potrebbe intervenire, mentre la Fed americana sarebbe disposta a farlo (anche può stampare denaro a piacimento).

È su quest’ultimo punto, infatti, che si consuma lo scontro sul suolo europeo. La Fed ha interesse a che la Deutsche Bank non imploda perché causerebbe un danno diretto al settore finanziario americano simile o peggiore di quello della Lehman Brothers del 2008. Tuttavia, ogni aiuto ha un costo. Così la pressione sulla banca tedesca è mantenuta a bassa intensità con multe sicuramente irrisorie se si comparano a quella comminata nel 2014 alla francese BNP (9 miliardi di euro). In cambio è la gestione politica della Germania che deve adeguarsi alle necessità americane: sanzioni alla Russia; sostegno negli interventi militari e di sicurezza; rilassamento delle regole di austerità nell’eurozona con l’obiettivo di mantenere a galla le economie più problematiche. D’altra parte, nel luglio scorso il Wall Street Journal pubblicava un articolo ricordando la lunga lista di “litanie e seri problemi in relazione alle operazioni della Deutsche Bank negli Usa, incluso l’inaffidabilità del sistema di reporting, come anche certificato dall’auditor Kpmg, e la debolezza dei suoi sistemi informatici”. Non proprio delle lusinghe per una banca così grande! Nel settembre scorso, la Deutsche Bank è stata condannata dai regolatori del Regno Unito e degli Usa per aver manipolato il Libor (un indice per gli scambi monetari interbancari) e la procedura di definizione delle ammende è in corso almeno fino al 2015. La banca ha già accantonato la somma di 7.8 miliardi di euro per il 2014 e ne ha stanziati altri 3 per il 2015. Tuttavia, ciò che preoccupa sono le attività investigative in corso da parte del dipartimento della giustizia americano, del U.S. Commodity Futures Trading Commission e della UK Financial Conduct Authority. Attività investigative che mantengono alto il “ricatto” americano sugli europei, come ebbe a dire piccato il ministro degli esteri francese, Laurent Fabius, dopo la multa a BNP.

Questo spiega abbastanza del comportamento tedesco rispetto all’eurozona, all’Ue, agli Usa e alla Russia. Il proiettile è in canna e un errore di valutazione potrebbe essere fatale per la Germania.

L’Italia, sebbene non abbia una situazione comparabile a quella della Deutsche Bank, si trova a dover dar conto agli Usa. Non a caso l’Eni, con un’imbarazzante inversione, ha dovuto sconfessare decenni di interessi con la Russia abbandonando il progetto South Stream declassificato a “mero investimento finanziario” (che costerà alcuni miliardi di euro di perdite secche e al quale va aggiunto l’altro
fallimentare investimento a Kashagan in Kazakistan). Inoltre, essendo l’Italia stretta dall’abbraccio asfissiante dell’eurozona, dalla quale non sembra avere alcuna intenzione di uscire, ha dovuto accettare (se non cercare) le iniezioni di liquidità cinesi, cedendo quote di importanti aziende. Secondo un recente articolo pubblicato dal Foglio si ipotizza che l’Italia diventi terreno di scontro (e di conquista) tra gli Usa e la Cina. La recente “campagna acquisti” della Cina su aziende italiane avrebbe destato preoccupazioni a Washington. Gli USA, quindi, avrebbero messo in campo alcuni loro attori geo-economici, quali il fondo di investimento Blackrock, per controbilanciare la presenza cinese. Soprattutto in società considerate strategiche (difesa, telecomunicazioni ed energia).

C’è poi da considerare la struttura del debito pubblico italiano. Nel 2012, in seguito all’aggiustamento imposto dalla Bce, il debito pubblico italiano è stato rimpatriato in carico agli istituti bancari italiani: gli investitori esteri sono scesi dal 51% (2011) al 35%. Ma vista l’enormità del nostro debito pubblico (oltre 2000 miliardi) il vero problema non è il valore netto (o reale) bensì quello finanziario, cioè quella enorme massa di titoli obbligazionari necessari a rendere sostenibile il debito stesso. Infatti, così si spiega come sia possibile che a fronte di una disponibilità di liquidità del Tesoro presso la Banca d’Italia di circa 35 miliardi di euro nel 2012 il debito effettivo al netto della liquidità ammonta a circa 2000 miliardi. È su questa leva finanziaria e sulla sua credibilità che si calcola il famoso spread.

Quindi, appare chiaro che il debito pubblico italiano è fluttuante, cioè dipende dalla capacità continua di rifinanziamento che si realizza attraverso la sua rinegoziazione sui mercati finanziari europei e globali. Si capisce quindi cosa accade al debito in Italia. Nonostante la tenuta del saldo primario di bilancio – quello richiestoci da Bruxelles, che si traduce nel contrarsi dei servizi sociali e degli investimenti legati a welfare e beni pubblici, pensioni, cassa integrazione e debito rinegoziato – è inevitabile che il debito italiano continui ad allargarsi. La contrazione della spesa per interessi presente nel Def non basta a renderci stabili. Infatti, siamo esposti ai giochetti degli hedge fund, come si è visto negli ultimi giorni in borsa e con lo spread.

La recente legge di stabilità attualmente all’esame di Bruxelles sembra che sia stata riscritta direttamente a Palazzo Chigi perché non si tratta, come in passato, di fare favori ad una gruppo corporativo o agli eurocrati di Bruxelles. La questione è squisitamente politica. I numeri sono piuttosto irrilevanti, come hanno dimostrato i mercati che hanno mandato a picco la borsa e fatto innalzare lo spread. La logica politica dettata da Renzi è di tenere sul deficit e allargare il debito. In questo modo si tiene tranquilla la burocrazia di Bruxelles (deficit/Pil) e si fa un gran favore ai mercati finanziari, allargando il terzo mercato obbligazionario al mondo. Le banche angloamericane ringraziano!

Non è tardata la reazione dalla Germania, scontenta perché tutta l’architrave della governance europea, ad egemonia tedesca, si basa sulla contrazione del debito. La ragione del dispiacere di Berlino è semplice: vendere merci europee con moneta prestata dall’Europa è possibile se scende il debito. Con un alto debito pubblico continentale il credito (basso) all’esportazione non è possibile.

La ragione del crollo delle borse non è quella cianciata bugiardamente da Renzi – fattori di instabilità geopolitica ed altre storielle – ma è il riflesso di quanto la Deutsche Bank annunciava da mesi nei suoi studi: la fuga dall’euro sta avvenendo, la crisi Ue è fortissima e l’architettura tedesca per l’eurozona è in crisi.

Il tentativo – la “scommessona” – del governo Renzi è di piazzarsi in una linea mediana tra le attuali logiche di potenza americana e tedesca: tenuta dell’avanzo primario di bilancio (che piace a Berlino) e aumento del debito (che piace alla finanzia anglo-americana e a chi acquista debito sovrano da tutto il pianeta).

Perché la logica di Renzi tenga sarà necessario “finanziarizzare” i costi della manovra. Traducendo, ciò significa che l’Italia dovrà aumentare il debito sovrano che a) renderà sempre più esacerbate le politiche di restrizione della spesa pubblica e di aumento dell’avanzo primario di bilancio, b) renderà sempre più dipendente questo paese dalla tempeste finanziarie globali.
Terzium non datur!

Che qualcuno lo spieghi, e presto, a quei politicanti che occupano le regioni italiane in un coacervo di collusioni e opacità. Cottarelli, indignato per la sua defenestrazione, ha fatto sapere che 8000 comuni sono troppi. È vero, ma anche 22 costosi apparati regionali sono decisamente troppi!

Paolo Raffone

21.10.2014

Il presente articolo è stato pubblicato il 18.10.2014 su ilsussidiario.net con il titolo Lo scontro Usa-Germania che passa per Deutsche Bank

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