LA FUGA DEI CAPITALI SPINGE LA CINA SULL’ORLO DELLA SVALUTAZIONE

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DI AMBROSE EVANS-PRITCHARD

telegraph.co.uk

Per difendere lo yuan, Pechino non può continuare a bruciare riserve valutarie a ritmi da record e, allo stesso tempo, allentare la politica monetaria. Deve scegliere.

La Cina è pericolosamente vicina ad una svalutazione. Lo yuan rischia di ‘sfondare il pavimento’ del suo ‘paniere di valute’ [CFETS, The China Foreign Exchange Trade System, http://www.marketswiki.com/mwiki/China_Foreign_Exchange_Trade_System], nonostante il massiccio intervento della Banca Centrale a difesa del tasso di cambio.

Il paese ha bruciato almeno 120 miliardi di dollari di riserve in valuta estera nel solo mese di Dicembre – il doppio del record precedente e la prova più chiara che il deflusso dei capitali ha raggiunto proporzioni sistemiche.

“Si può sostenere, a ragione, che la situazione sia fuori controllo”, ha dichiarato Mark Williams di ‘Capital Economics’.

Il Sig. Williams ha aggiunto che le Autorità hanno decisamente pasticciato quando, ai primi di Dicembre, sono passate dal cambio fisso con il dollaro a quello con il ‘paniere valutario ponderato su base commerciale’, dando il via inavvertitamente all’esodo di denaro. I mercati sospettarono – probabilmente a torto – che si trattava di una svalutazione camuffata.

La Banca Centrale sta ora lottando per raccogliere i cocci.

I mercati globali sono molto sensibili a qualsiasi segnale che possa essere interpretato come una forzata rinuncia cinese alla difesa dello yuan, con incontrollate teorie cospirazioniste su una guerra valutaria in corso di preparazione per ‘affamare il vicino’ [beggar-thy-neighbor], acquisendo quote maggiori di esportazione.

Ogni mossa di questo tipo [svalutazione] invierebbe forti impulsi deflazionistici ad un’economia mondiale che è già in ginocchio e rischierebbe d’innescare una reazione a catena in Asia, replicando la crisi del 1998 ma su scala più grande e pericolosa.

I confusi segnali provenienti da Pechino hanno fatto schiantare la quotazione del Brent al livello più basso degli ultimi 11 anni, a 32.20 d/b. Hanno anche innescato un dramma parallelo nei mercati azionari cinesi.

Le Autorità hanno chiuso il principale mercato azionario cinese dopo che l’indice ‘Shanghai Composite’ è precipitato del 7,3pc in meno di mezz’ora, mettendo mano agli interruttori automatici. L’incidente ha spazzato via 635 miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato in pochi minuti.

Il crollo è stato innescato dalla preoccupazione per l’’indice composito PMI’ per la produzione ed i servizi, sceso al di sotto della linea del boom-bust [a ‘quota 50’: http://www.investopedia.com/terms/b/boom-and-bust-cycle.asp], combinata con l’angoscia causata dalle vendite a valanga effettuate dagli addetti delle società-insider [a conoscenza di informazioni riservate], per l’avvicinarsi dello stesso divieto a vendere azioni che era stato imposto lo scorso anno.

Poste di fronte al caos le ‘Autorità di Regolamentazione’, ancora una volta, hanno battuto in ritirata. Hanno solo esteso il divieto [rispetto a quello dello scorso anno], impedendo agli azionisti di vendere più dell’1pc del ‘flottante totale’ in un periodo di tre mesi. La ‘China Securities Regulatory Commission’ ha detto che la mossa è stata effettuata per ‘sdrammatizzare la situazione’.

Con il blocco delle vendite il governo ha ammesso di essere intrappolato, costretto a fornire un supporto vitale al mercato azionario per poterne fermare il crollo. La Commissione ha detto che il ‘China National Team’ [l’insieme di Istituti Finanziari di proprietà statale] avrebbe continuato ad acquistare azioni raddoppiando, se necessario, lo sforzo che aveva fatto lo scorso anno per salvare il mercato.

I tumulti al ‘casinò’ di Shanghai non hanno una grande connessione con l’economia cinese, che si è sempre mossa a ritmi completamente diversi. Sono poche le aziende che raccolgono capitali sul mercato azionario. Buona parte delle azioni è di proprietà degli ‘enti statali’ e non viene quindi negoziata.

Le reazioni dei mercati valutari sono molto più gravi. Ciò che preoccupa è che la Banca Centrale, fino ad ora, non è riuscita a fermare lo scivolamento dello yuan, nonostante abbia speso sul mercato dei cambi, solo il mese scorso, una cifra stimata in 140 miliardi di dollari.

Il passaggio al ‘paniere di valute’ [CFETS] effettuato lo scorso mese, per liberare la Cina dagli aumenti del dollaro conseguenti alla stretta monetaria della Federal Reserve, è stata una mossa tardiva. L’opinone di Pechino è che lo yuan si sia ormai rivalutato abbastanza, dopo l’impennata cominciata a metà del 2012.

Il Premier Li Keqiang aveva promesso di mantenere il tasso, rispetto al ‘paniere’ [ovvero al tasso ponderato delle monete che ne fanno parte], sostanzialmente stabile. Ma, al contrario, nel corso delle ultime tre settimane è sceso. Ora è in bilico, vicino al minimo degli ultimi 16 mesi. A Hong Kong gli spreads sui ‘contratti offshore’ espressi in yuan sono lievitati, segnalando che gli operatori si aspettano che il peggio debba ancora arrivare. I nodi stanno effettivamente arrivando al pettine.

La Banca Centrale [PBOC] ha issato la sua bandiera sull’albero maestro, dichiarando di avere potenza di fuoco a sufficienza per sconfiggere le ‘forze della speculazione’ e mantenere lo yuan stabile, ad un ‘ragionevole livello di equilibrio’.

Ha aggiunto che le giravolte del mercato sono slegate dall’economia reale e che un paese dotato di un avanzo delle ‘partite correnti’ pari a quasi 600 miliardi di dollari non ha bisogno di una valuta più debole: “Non è necessaria una svalutazione competitiva per stimolare le esportazioni e stabilizzare la crescita”.

Come misura ulteriore le Autorità hanno sospeso le operazioni in valuta estera della ‘Standard Chartered’ e del ‘DBS Group Holdings’, hanno represso le false fatturazioni effettuate dagli esportatori ed implementato efficaci misure di polizia per fermare la fuoriuscita di denaro dal paese.

Le riserve cinesi sono diminuite da 4.000 a 3.330 miliardi di dollari e non sono più così lontane dai 2.600 miliardi di dollari, considerati la ‘soglia di prudenza’ dal Fondo Monetario Internazionale – considerando che le passività cinesi in dollari sono pari a 1.200 miliardi.

La Banca Centrale ha ancora peso a sufficienza per effettuare un blitz shock-and-awe a difesa dello yuan, ma è una mossa dai costi altissimi. Lo sfruttamento delle riserve causerebbe una stretta monetaria che aggraverebbe la crisi economica. E’ l’esatto contrario di quanto accaduto negli ‘anni del boom’, quando la Cina le riserve le accumulava, provocando il surriscaldamento dell’economia.

In teoria, si potrebbe compensare quest’effetto tagliando il ‘coefficiente di riserva’ obbligatorio per le banche [RRR], abbassandolo dal 18pc al 5pc, lo stesso livello cui si trovava durante la crisi bancaria del 1998. Questo provvedimento potrebbe iniettare nell’economia uno stimolo pari a 3.000 miliardi di dollari, ma indebolirebbe la moneta, accelerando l’esodo dei capitali ed intrappolando la Cina in un circolo vizioso.

George Magnus della UBS ha detto che Pechino sta cercando di conciliare fra loro degli obiettivi impossibili: “[Le Autorità] non vogliono alcuna stretta. Stanno cercando di tenere i tassi interbancari il più in basso possibile”.

Nel linguaggio economico si parla di “Impossible Trinity”. Non è possibile mantenere simultaneamente un regime di cambi fissi, una perfetta mobilità dei capitali e una politica monetaria indipendente. Bisogna prenderne atto.

In termini commerciali la Cina non ha bisogno di svalutare … e in ogni caso non servirebbe a molto. La quota del commercio [internazionale] sul PIL è scesa al 41pc dal 65pc di dieci anni fa, man mano che il paese si muoveva sulla sua scala economica. Tuttavia, ha bisogno di uno stimolo interno per tenere a bada la possibilità di un ‘atterraggio duro’, obbiettivo che non potrebbe essere facilmente raggiunto se la ‘politica del credito’ fosse tenuta troppo ‘stretta’ per difendere il ‘tasso di cambio’.

Pechino dovrà scegliere.

Jonathan Anderson dell’‘Emerging Advisors Group’ di Shanghai ha detto che l’ultima raffica di stimoli – guidata da un aumento del credito del 18pc – è la prova evidente che Pechino non è disposta ad ‘ingoiare la sua medicina’ e a far sgonfiare la ‘bolla dei prestiti’, pari a 27.000 miliardi di dollari: “Il rapporto del debito [rispetto al Pil] è andato alle stelle. Ma la Cina continua ad aggiungere nuova leva, ad un ritmo frenetico”.

E ha concluso: “Le autorità stanno chiaramente dimostrando di non avere alcuna intenzione di affrontare il problema della ‘leva’. Il nostro nuovo ‘scenario di base’ è che il governo cinese stia semplicemente lasciando che la ‘festa del debito’ vada avanti, fino a quando crollerà sotto il proprio peso”.

Ambrose Evans-Pritchard

Fonte: www.telegraph.co.uk

Link:http://www.telegraph.co.uk/finance/china-business/12088033/Capital-flight-pushes-China-to-the-brink-of-devaluation.html

7.01.2016

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