LA FINE DELLA CRESCITA ECONOMICA

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“La crescita economica riduce la povertà” è da sempre l’intramontabile e martellante motto degli esperti in statistica della Banca Mondiale. Queste quattro semplici parole, per quanto superate e polemiche siano, erano in effetti il titolo di un recente articolo della rivista Forbes, che prendeva spunto dalle previsioni sulla riduzione della povertà nel sud-est asiatico formulate dalla banca [1]. Come sottolineava la rivista statunitense destinata ai super ricchi, se la crescita economica continuerà ad aumentare, “la povertà potrà essere sensibilmente ridotta, se non addirittura eliminata, nel giro di una generazione” da una regione in cui si registra la maggiore concentrazione di poveri al mondo.

La previsione, avanzata dal direttore delle operazioni per l’Asia meridionale della Banca Mondiale, è stata poi seguita a ruota dalla pubblicazione degli indicatori di sviluppo mondiale per il 2007 [2] e dalla apparentemente positiva notizia che il livello d’indigenza assoluta è sceso a un miliardo di persone. L’economista capo della banca, François Bourguignon, ha tenuto a puntualizzare che le cifre “vanno al di là della semplice crescita” e che bisogna anche chiedersi come sono distribuite le entrate e se cure mediche e istruzione stanno migliorando in proporzione.
Il sottinteso rimane però chiaro: la globalizzazione è buona, libertà di commercio e liberalizzazione sono i prerequisiti per porre fine alla povertà, la sola risposta ai bisogni umani è un’economia mondiale basata sul mercato, così come delineata dal Washington Consensus.

La pubblicazione annuale dei dati, che quest’anno sembra essere stata passata quasi sotto silenzio da buona parte dei media internazionali, è estremamente importante per due motivi: in primis perché le statistiche della Banca Mondiale sono la sola fonte di cui disponiamo per sapere se le entrate dei poveri stanno aumentando o riducendosi, e poi perché dimostrano implicitamente il successo del modo in cui viene affrontata la povertà e sono quindi un’arma formidabile nelle mani delle nazioni ricche, interessate a mantenere un’architettura economica strutturalmente a loro vantaggio. Secondo molti esperti [3], la Banca Mondiale continua a diffondere queste cifre soprattutto per confermare la bontà delle proprie politiche e dimostrare che stanno funzionando. In tale contesto appare opportuno analizzare a fondo e demistificare gli argomenti di coloro che sono favorevoli alla globalizzazione e dei cosiddetti “teorici del trickle down ” [NdT: la teoria delle “ricadute favorevoli”. Giustifica i programmi che rendono i ricchi ancora più ricchi sostenendo che alla fine i benefici “ricadono” fino ai poveri].

Come NON contare i poveri

Nel 2002, due docenti statunitensi, Sanjay Reddy e Thomas Pogge, avevano pubblicato un rapporto (How not to count the poor) in cui affermavano che le cifre della Banca Mondiale sul numero di poveri nel mondo erano “ingannevoli e inaccurate”, “inutili e poco affidabili” ed “estrapolate in modo scorretto a partire da un numero ristretto di dati” [4]. La valutazione era talmente netta e inequivocabile che le Nazioni Unite l’avevano fatta propria aggiungendo altre critiche sulla metodologia erronea e gli “errori concettuali” [5].

Ovviamente, quando l’anno dopo erano stati resi noti i nuovi dati aggiornati, molti attivisti e ONG non avevano esitato a metterli in dubbio, e i loro argomenti non concernevano tanto le minuzie tecniche – come “i fattori di conversione” o le “parità del potere di acquisto”- ma il valore effettivo delle informazioni, considerate autorevoli anche se raccolte in modo sciatto. Come ha scritto un commentatore britannico [6]: “Il fatto che le statistiche economiche mondiali siano state per lunghi anni ottenute con metodologie palesemente inutili è un chiaro segno di quanto poco gli uomini che reggono il mondo si preoccupino dell’impatto delle proprie politiche. Visto che non si vergognano di elaborare indicatori della povertà mondiale privi di senso, non c’è motivo di prenderli sul serio quando dichiarano di volersi impegnare per eliminare il problema”.

I dati più recenti della Banca Mondiale sono stati presentati con più prudenza, sottolineando in particolare l’inclusione della Cina e dell’India. Nei primi due rapporti sullo sviluppo mondiale (1990 e 2000/2001), le due più grandi nazioni al mondo non erano state nemmeno menzionate (omissione che era poi diventato uno dei maggiori argomenti per sostenere la mancanza di attendibilità delle statistiche) mentre vengono adesso citati come la ragione principale della minore povertà nel mondo: anche se analizziamo i paesi in via di sviluppo “senza questi due giganti”, ci è stato detto, “constatiamo comunque tassi di sviluppo molto elevati” [7]

Successi putativi

Il rapporto cita un certo numero di successi putativi: afferma che a partire dal 2000 la crescita reale delle entrate pro capite nell’Africa subsahariana è stata superiore a quella di “qualsiasi altro periodo” dagli anni ’60 in poi e in linea con i migliori tra i paesi a reddito medio, e non esita a sostenere che “uno dei motivi di tale risultato è il ricorso a severe politiche macroeconomiche”, in altre parole a quelle politiche globalmente indicate col nome di liberalismo economico. La crescita nei paesi a basso reddito, viene disinvoltamente sottolineato, ha avuto come “ovvia conseguenza” una minore incidenza della povertà.

Non è necessario mettere in dubbio anche tutti gli altri miglioramenti (ad esempio i 34 milioni di bambini dei paesi in via di sviluppo che hanno potuto frequentare le scuole elementari, il quasi raddoppio dei fondi destinati a istruzione e sanità, o il “significativo progresso”, nell’ambito dell’obiettivo 7 del Millennium Development Goals, verso il dimezzamento entro il 2015 della percentuale d’individui che non hanno accesso all’acqua potabile), ma il quadro complessivo delineato dal rapporto dev’essere costantemente tenuto presente. Secondo il rapporto, l’indigenza assoluta si “concentra sempre di più negli stati fragili” (un gruppo di 35 paesi tra cui Gaza, Zimbabwe, Afghanistan, Congo e Sudan, anche se l’assieme dell’Africa subsahariana è comunque già più duramente colpito di qualsiasi altra area del mondo). Anche se tra il 1999 e il 2004 la percentuale d’individui nella regione che vivono in condizioni d’indigenza assoluta è scesa del 4,7%, oltre il 41% della popolazione deve ancora lottare per sopravvivere con meno di un dollaro al giorno, e oltre 16.000 bambini muoiono quotidianamente per denutrizione. L’Africa subsahariana rappresenta oggi il 30% della parte più povera del mondo, ricorda il rapporto, rispetto al 19% del 1990 e “a solo” l’11% del 1981: un peggioramento del 300% in meno di 30 anni.

In questa situazione, “la rapida crescita globale” del 2006 può ragionevolmente indurre a “essere ottimisti sui progressi verso il raggiungimento degli obiettivi del Millennium Development Goals”, come continua a ribadire la Banca Mondiale? Il fatto che un miliardo circa di persone, un sesto della popolazione mondiale, sopravviva in condizioni d’indigenza assoluta, e che gli abitanti di quasi la metà dei restanti paesi in via di sviluppo viva con due dollari al giorno, può veramente essere motivo di “ottimismo”?

Deprimenti contraddizioni

È interessante notare quante deprimenti contraddizioni possono essere rilevate semplicemente confrontando gli avvenimenti che si succedono nel mondo con i dati di un rapporto che cerca abilmente di portare acqua al suo mulino. Il giorno dopo la pubblicazione dei dati della Banca Mondiale sulla povertà, Ban Ki-moon, il nuovo segretario generale delle Nazioni Unite, ha visitato l’Africa orientale per discutere le previsioni secondo cui nel 2007 il numero di abitanti di bidonville dovrebbe raggiungere un nuovo picco. Parlando a Nairobi, una città che ospita le più grandi bidonville dell’Africa subsahariana, ha affermato che, se il settore privato non fornirà maggiori aiuti, i soli governi dei paesi in via di sviluppo saranno sempre più impantanati nel tentativo di fornire un alloggio adeguato ai più poveri tra i poveri.

Quest’anno sono stati inoltre pubblicati vari studi indipendenti e inquietanti sulla povertà e la distribuzione della ricchezza. Secondo una recente analisi di McClatchy Newspapers dei dati del censimento statunitense per il 2005, ad esempio, il numero di americani che vivono in indigenza assoluta o semiassoluta ha raggiunto il punto più alto degli ultimi 32 anni, con una crescita del 26% tra il 2000 e il 2005; il fenomeno viene definito “un inquietante effetto collaterale di una insolita espansione economica” [8]. Il livello di povertà si sta riducendo, afferma la Banca Mondiale. Il livello di povertà – quanto meno su base nazionale in uno dei paesi più ricchi – sta in effetti crescendo come mai era accaduto in passato, affermano gli studi indipendenti. E per la prima volta da quando Tony Blair aveva preso il potere nel 1997, anche le cifre britanniche più recenti mostrano un aumento della povertà [9].

Crisi di ineguaglianza

Il problema fondamentale non riguarda solo la povertà in quanto tale o l’ingannevole parametro del “dollaro al giorno”, ma piuttosto la corrispondente crisi di ineguaglianza. La Banca Mondiale non nasconde il fatto che, nonostante l’apparente declino in termini globali dell’indigenza assoluta, stanno invece crescendo le disparità tra cittadini di uno stesso paese. Ammette anche che nell’ultimo decennio la riduzione della povertà non è stata sempre, o non è stata dappertutto, commisurata alla crescita delle entrate. Come hanno dimostrato recenti studi [10], l’ineguaglianza danneggia la crescita economica, e la distribuzione delle entrate non solo peggiora di anno in anno ma sta portando al paradosso di una riduzione globale dei livelli di povertà accompagnata però da un contemporaneo aumento del numero di persone che vivono in indigenza assoluta.

Secondo una recente analisi condotta sui dati fiscali statunitensi [11], la differenza delle entrate si è allargata al punto che il 10% più ricco degli americani si spartisce una percentuale del prodotto nazionale mai raggiunta dal crollo di Wall Street nel 1929: l’1% più pagato tra i salariati ha registrato un aumento del 14%, rispetto a una contrazione per il restante 90% del paese. Come si rileva da altri dati [12], la differenza delle entrate sta crescendo più rapidamente negli USA che in qualsiasi altro paese industrializzato.

L’ingordigia delle aziende

La polemica in corso al Congresso sugli stipendi dei manager è un’allegoria che aiuta a capire il problema dell’ingordigia delle aziende: i membri di una potente lobby (la Business Round Table [13]) stanno furiosamente contrastando le misure proposte per imbrigliare i compensi dei manager. Il loro stipendio, come si è scoperto [14], supera del 50% quello medio dei direttori generali (circa 9 milioni di dollari all’anno i primi, rispetto a una media di 6 milioni dei secondi). E nonostante tutto combattono aspramente per poterlo fare ancora aumentare.

Il governo statunitense, nel frattempo, continua ad affermare che la sua politica fiscale, modulata in modo da favorire l’1% più ricco del paese più di qualsiasi altro cittadino, non sta contribuendo ad allargare la forbice delle entrate, ma è semplicemente “più progressiva” [15]. Tasse più alte per i ricchi, dichiara, spingerebbero quelli che hanno le maggiori entrate a lavorare meno e prendere meno rischi, sfidando così il feticcio della crescita economica e minacciando la gallina dalle uova d’oro; una posizione che nessuno straccio di teoria o prova empirica è in grado di sostenere [16]. Non c’è bisogno di studi approfonditi o di indagini a livello nazionale per capire il motivo che spinge le aziende a difendere tenacemente lo status quo; per usare le parole dell’economista britannico Sir Dudley Seers, “Quelli che dispongono di entrate elevate… cercheranno inevitabilmente di mantenere i propri privilegi, ricorrendo… alla violenza politica piuttosto che farne a meno [17]”.

La crescita non sta funzionando

Guardare alla crescita economica come unica misura del successo nazionale non è, nonostante i dogmi della Banca Mondiale, una conclusione scontata o un assunto inevitabile. È difficile contraddire la sempre maggiore evidenza: Growth Isn’t Working[18], un recente rapporto della New Economics Foundation, sottolinea che se un miliardo di aiuti esterni avessero veramente tirato fuori 434.000 persone da una situazione d’indigenza assoluta, come afferma un altro rapporto della Banca Mondiale [19], e se i governi dei paesi industrializzati avessero mantenuto fede all’impegno assunto nel 1970 di versare in aiuti lo 0,7 delle proprie entrate nazionali, il mondo sarebbe un posto completamente diverso. Invece di fissare gli obiettivi del Millennium Development Goals e cercare semplicemente di dimezzare entro il 2015 la percentuale di poveri che vivono con meno di un dollaro al giorno, i leader mondiali avrebbero dovuto impegnarsi a celebrarne la totale sparizione. Ora ci troveremmo da sei anni in un programma per sradicare la povertà al di sotto dei due dollari al giorno.

La realtà, naturalmente, è ben diversa da una favola a lieto fine: mancano oltre 150 miliardi di dollari per rispettare gli obiettivi fissati nel 1970, e anche se nel 2005 il G8 aveva promesso di aumentare gli aiuti di 50 miliardi prima della fine del decennio, negli ultimi due anni il loro livello globale ha continuato a ridursi [20]. Nonostante la retorica e il falso “ottimismo” della Banca Mondiale, le priorità globali sono chiaramente l’egemonia e la supremazia e non certo la sincera volontà di sradicare la miseria. La protezione/aiuto, conclude il rapporto della NEF [21], rappresenta soprattutto un potente strumento nelle mani dei governi dei paesi industrializzati e delle organizzazioni internazionali (come la Banca Mondiale e il FMI) per rafforzare ulteriormente “le inique strutture del sistema economico mondiale che sono alla radice del problema”.

Metafore banali

Anche non pochi sostenitori della “teoria delle ricadute favorevoli” usano alcune banali metafore per giustificare la propria ossessione per la crescita economica: ad esempio quella dell’onda di marea che muove tutti i battelli, o quella secondo cui, piuttosto che tentare di tagliare un dolce in fette uguali per tutti, è meglio farne uno più grande. Quasi tutti gli economisti e i governi danno per scontato che la crescita economica genera maggiori entrate a livello nazionale e mondiale e produce “ricadute favorevoli” che permettono ai membri più poveri della società di aumentare la propria percentuale delle entrate totali; per dirla in altre parole, i ricchi mangiano più dolci e i poveri si accapigliano per qualche briciola in più. Ma la compiaciuta considerazione trascura i miliardi di persone che guadagnano meno di due dollari al giorno e che possono dirsi fortunati di vivere in una baracca di lamiera ondulata, certo senza pensare a “dolci” o “battelli”. L’eradicazione della povertà è un’idea abbastanza buona, sembra essere il succo della questione, fino a quando non contraddice il principio secondo cui i ricchi devono diventare sempre più ricchi.

Propugnare la ridistribuzione delle ricchezze, anche solo l’1% delle entrate del 20% più ricco della popolazione a favore del 20% più povero, equivale a sognare di avere una bacchetta magica, almeno fino a quando le attuali politiche macroeconomiche continueranno a condizionare la politica internazionale. La crescita economica come panacea dev’essere considerato il noumeno degli attuali leader mondiali, senza il quale la premessa ideologica del Washington Consensus e le sue “dieci ricette” si sbriciolerebbero dinanzi ai nostri occhi: liberalizzazione e privatizzazione hanno senso solo se le forze di mercato vengono costantemente lasciate libere in una cieca ricerca dell’espansione infinita. Volendo aggiungere un’altra metafora al limitato repertorio dei sostenitori delle “ricadute favorevoli”, potremmo allora parlare di un tumore maligno.

Per citare un fondamentale rapporto delle Nazioni Unite sulle ignominie della riduzione della povertà [22], “Ci sono momenti, ha dichiarato l’economista keynesiano J.K. Galbraith, in cui il ricorso al più elementare buon senso ha un sapore di eccentricità, irrazionalità, e persino insanità mentale”. Si può sperare che il disconoscimento neoliberalista di coloro che osano mettere in dubbio l’argomentazione del profitto appaia un giorno come l’arresto di Galileo quando affermò che il sole non girava attorno alla Terra. La sola cosa sicura è che sarà necessario un cambio paradigmatico nel nostro modo di pensare se vorremo superare la nostra ossessione di modelli economici obsoleti, se vorremo capire la nostra “incapacità di considerare misurabile quello che è importante e non invece importante quello che è misurabile” [23], se la vera panacea, il principio di condivisione, dovrà governare l’economia. La sola domanda che resta in sospeso è fino a quando continueremo su una strada che ci porta al disastro prima che qualcuno ci svegli.

Note

[1] Chisaki Watanabe. 2007. “World Bank: Economic Growth Cuts Poverty.” (Forbes Magazine) 4 aprile.

[2] World Bank, 2007. “World Development Indicators.” Washington D.C. (Banca Mondiale) 13 aprile.

[3] Per esempio: Chakravarthi Raghavan. 2002. “World Bank poverty data, methodology faulted”. Third World Network.

[4] Sanjay G. Reddy & Thomas W. Pogge, 2005. “How Not to Count the Poor” (Colombia University ) Versione 6.2.3. 29 ottobre

[5] Chakravarthi Raghavan. 2002. Ibid.

[6] George Monbiot, 2003. “Poor, but pedicured: It appears that those at the bottom are getting richer – but sadly the maths just doesn’t add up.” (The Guardian) 6 maggio.
[7] World Bank, 2007. “World Development Indicators.” Washington D.C. (Banca Mondiale) 13 aprile.

[8] Tony Pugh, 2007. “U.S Economy Leaving Record Numbers in Severe Poverty.” (McClatchy Newspapers) 22 febbraio.

[9] Mike Brewer, Alissa Goodman, Alastair Muriel & Luke Sibieta, 2007. “Poverty and inequality in the UK : 2007.” (The Institute for Fiscal Studies: IFS Briefing Note No. 73). 27 marzo.

[10] Ad esempio: Jan Vandemoortele, 2002. “Are we really reducing global poverty?” (United Nations Development Programme: Bureau for Development Policy) New York , luglio 2002.
[11] Thomas Piketty e Emmanuel Saez. “Income Inequality in the United States : 1913-1998,” (Quarterly Journal of Economics). febbraio 2003. Dati aggiornati nel marzo 2007. La serie dei dati aggiornati è reperibile all’indirizzo http://elsa.berkeley.edu/~saez/TabFig2005prel.xls
[12] Dati citati da Paul Buchheit, 2007. “The Income Gap: Profits Up 93%, CEO Pay Up 571% — Worker Salaries Stagnant.” (Counterpunch.org). 28 febbraio.

[13] Sarah Anderson, Sam Pizzigati, Chuck Collins, John Cavanagh e Charlie Cray. 2007. “Selfish Interest: How Much Business Roundtable CEOs Stand to Lose from Real Reform of Runaway Executive Pay.” (Institute for Policy Studies). 10 aprile.

[14] Chris Frates, 2007. “Highest-Paid CEOs Fight Compensation Reform.” (The Politico). 11 aprile.

[15] Paul Buchheit, 2007. (Counterpunch.org). Ibid.

[16] Robert H. Frank, 2007. “In the Real World of Work and Wages, Trickle-Down Theories Don’t Hold Up.” (The New York Times). 12 aprile.

[17] Seers, Dudley. 1969. The Meaning of Development. International Development Review 11(4).

[18] David Woodward and Andrew Simms, 2006. “Growth isn’t working: the unbalanced distribution of costs and benefits from economic growth.” (New Economics Foundation). 23 gennaio.

[19] Goldin, I. et al (2002) “The role and effectiveness of development assistance: lessons from World Bank experience” (World Bank: Washington DC ) 18 marzo.

[20] Organisation for Economic Co-operation and Development. 2007. “Development aid from OECD countries fell 5.1% in 2006.” (OECD). 3 aprile.

[21] David Woodward and Andrew Simms, 2006. Ibid.

[22] Jan Vandemoortele, 2002. Ibid.

[23] David Woodward e Andrew Simms, 2006. Ibid. Cfr. ‘Conclusion’.

Adam W. Parsons è l’editore di Share The World’s Resources (www.stwr.net), una campagna ONG per l’economia globale e la giustizia sociale. Può essere contattato all’indirizzo [email protected]
Articoli di Adam Parsons su Global Research

Fonte: http://www.stwr.net/
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24.04.2007

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CARLO PAPPALARDO

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