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La Redazione

 

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LA DEMOCRAZIA RADICALE E' UN PROCESSO DI APPRENDIMENTO.

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A cura di Truman
Il 7 Ottobre 2015
240 Views
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DI RAUL ZELIK

www.woz.ch

Il brusco risveglio circa Podemos e Syriza dimostra che una politica di sinistra deve mettere in dubbio le basi della democrazia dominante.

Chi è il “popolo”? E perché mai sovranità? Non dovrebbe la socializzazione del potere superare il dominio borghese?

La lotta per la democrazia quale componente centrale di un nuovo progetto di sinistra: su ciò insistono vari teorici come Slavoj Zizek, Jacques Rencière, Chantal Mouffe o Toni Negri ripetutamente. Dopo il collasso del blocco orientale è oramai chiaro che una società senza classi non è conseguibile con la forza tramite un’avanguardia. Dato che maggioranze sociali non nascono solamente da movimenti popolari, un progetto radicale deve chiarire come deve agire all’interno di istituzioni pubbliche. Con questa premessa persino i critici del parlamentarismo più convinti guardavano con simpatia l’idea di Syriza, di Podemos & Co, di forzare la democratizzazione con un parlamentarismo di sinistra.

Nel frattempo tuttavia questa partenza democratica sembra sia già terminata. I suoi limiti si sono visti in Europa molto presto: dopo solo otto mesi dalla vittoria elettorale di Syriza la Grecia ha un governo nel quale ex-eurocomunisti amministrano forzatamente il diktat della Troika. In Spagna il movimento dei cittadini Podemos, che partiva nel 2014 con una promessa radicale di democratizzazione, si è sottomesso in anticipo alla ragione di stato. Per paura di spaventare elettori conservatori, il partito fece una campagna elettorale talmente de-politicizzata, che Podemos fu sorpassato a sinistra persino da partiti borghesi catalani. “Insieme al sindacato di polizia contro la corruzione” – così si potrebbe riassumere ironicamente la strategia di Podemos.

La vecchia tesi anarchica, secondo la quale le società non si possono modificare con elezioni, sì è di nuovo nel principio confermata. Oppure argomentata in modo classico-marxista: la democrazia è la forma specifica di dominio della classe borghese e non può essere strumento di autogoverno dei molti.

Capitalismo senza democrazia

Ma perlomeno la seconda asserzione è stata nel frattempo confutata. Capitalismo e democrazia non sono affatto necessariamente connessi. Le élite cinesi dominano con buon successo senza alcuna democrazia ed anche le élite in Occidente scoprono nuovamente la propria debolezza per forme di dominio autoritario palese.

Evidentemente il discorso della democrazia è fuorviante. Lo stato borghese e le suo forme politiche sono mutati radicalmente negli ultimi 150 anni – e questo, però, mai spontaneamente e per niente sempre in meglio. Il discorso della democrazia presume invece che la Borghesia sia stata sin dal 18° Secolo, con determinazione, fautrice di uguaglianza, libertà e diritti politici. Ma già solamente la storia del diritto di voto evidenzia quanto falso sia il racconto preferito dai liberali.

In Gran Bretagna, patria delle rivoluzioni Borghesi, il suffragio universale fu introdotto solamente nel 1918; dapprima era un privilegio delle classi abbienti. Anche in Prussia dominava fino alla rivoluzione di Novembre il suffragio censitario: all’interno del cosiddetto “diritto di voto delle tre classi” i voti venivano soppesati in base al gettito fiscale. Il 4 % della popolazione più abbiente inviava al Landtag lo stesso numero di rappresentanti del più povero 85%

Negli USA, dove la fondazione dello Stato – come descriveva con fervore Hannah Arendt – si basava persino su riunioni di consigli democratici, gli afroamericani venivano trattati dalla borghesia come semi-umani o proprietà privata. Dovrebbe essere noto che le donne, dunque la metà della popolazione, che neanche comparivano nelle filosofia delle libertà dei liberali, ottennero il loro diritto di voto dopo lunghe battaglie solo nel corso del ventesimo secolo.

Dunque non può essere vero che la democrazia sia la forma di dominio per eccellenza della borghesia. Il sistema parlamentare nella sua forma odierna fu imposta da lotte sociali ed è quindi espressione di compromessi sociali. Non pensatori liberali borghesi, ma la classe lavoratrice, il movimento delle donne, i movimenti per la difesa dei diritti civili antirazzisti e così via hanno provveduto alla formale eguaglianza dei diritti nella società civile. Il dramma di questa società è di voler promettere diritti di libertà e di eguaglianze, promesse che non può mantenere a causa dei propri rapporti con le proprietà. La democrazia quindi, non è quindi la forma politica “naturale” del capitalismo, ma un compromesso estorto alla borghesia da parte delle allora classi emergenti.

Estensione del diritto di voto.

Pablo Iglesias, segretario generale di Podemos, nel suo libro programmatico „Disputar la democracia“ presenta la tesi che la democrazia sia “un movimento che ha l’obiettivo di togliere il potere a coloro che ne hanno preso possesso (il monarca o le elites) e di ridistribuire detto potere al popolo”. Questo “Movimento per la socializzazione del potere”, secondo Iglesias, è “il motore delle rivoluzioni moderne e delle lotte per l’estensione del diritto di voto “.

Ma anche questa asserzione non è corretta. Le democrazie come le conosciamo oggi non sono esse stesse detti movimenti di socializzazione, ma il loro risultato: esse democrazie sono l’espressione di un compromesso sociale tramite il quale le diseguaglianze di fatto – come quelle tra possessori di capitale e nullatenenti, tra cittadini dello stato ed immigrati e così via- vengono fissate in modo istituzionale. Rappresentano per così dire il terreno nel quale sono “congelate” ed allo stesso momento disputate le contraddizioni, ovviamente con premesse diseguali. Mentre anche il più istupidito erede milionario può acquistare un impero mediatico per influenzare l’opinione pubblica a suo piacimento, milioni di lavoratori sindacalmente organizzati in Germania o Francia non dispongono nemmeno più di un proprio quotidiano e, men che meno, di una proprio canale televisivo.

Anche il parlamentarismo ha che vedere con una socializzazione del potere solo in modo molto limitato. Il “libero” deputato il quale, a differenza del delegato sempre revocabile, deve “rispondere solo alla sua coscienza” aveva storicamente soprattutto la funzione, di impedire il potere diretto del “popolaccio”. Tra popolo dello stato ed esecutivo fu inserito un livello supplementare nel caso le masse dovessero votare in modo errato. Più tardi politici di professione svilupparono strategie di specializzazione per rendersi insostituibili: comunque per i singoli si trattava di reddito, influenza e notorietà. La classe politica professionale non ha oggettivamente alcun interesse ad essere resa superflua a causa di una perdurante democratizzazione e diviene anch’ essa un limite alla democrazia.

L’esistente forma politica di cui parla Iglesias è egualmente traguardo e barriera dei movimenti di socializzazione, motivo per cui si dovrebbe segnalare la contraddizione del termine” Sovranità popolare”. Chi è „il popolo“? Vi appartengono gli immigrati? Il comune processo di negoziazione termina ai confini dello stato nazionale? Ed in ogni caso perché dominio? La socializzazione del potere non dovrebbe portare al superamento del dominio?

Ciò nonostante esiste un buon motivo per il quale teorici radicali hanno fatto riferimento in modo positivo negli ultimi anni ad un’accezione non poco problematica. Il grande progetto anticapitalista, il comunismo, si basa notoriamente sulla socializzazione della proprietà privata dei mezzi di produzione. Diversamente dai liberali, che definiscono i rapporti di potere economici come rapporti privati staccandoli dalla politica e relegando la democrazia all’ambito pubblico, per la sinistra era essenziale l’espansione dei processi di negoziazione a tutti i settori della vita sociale, quindi anche ai rapporti di lavoro. Perché in realtà proprio questo è la socializzazione dei mezzi di produzione: la comune ricerca di decisioni orientata al fabbisogno per l’impiego di lavoro, di risorse, di beni, di solidarietà e di assistenza pubblica.

Commiato da desideri speranzosi.

Curiosamente la sinistra non ebbe mai una vera strategia per questo progetto. Socializzazione veniva tout court trasformata in statalizzazione, malgrado lo stato come apparato di dominio fosse piuttosto inadatto per un autogoverno sociale. Di fronte a ciò, la sinistra creativa propagava come controprogetto la democrazia dei consigli. Ma chi ha lavorato a lungo all’interno di progetti autogovernati, sa quanto sia faticoso organizzare in modo equo e solidale i processi di decisione. Una democrazia radicale tramite la quale possibilmente tutti decidono con uguale diritto, non può essere introdotta per decreto. Socializzazione è un processo di apprendimento durante il quale dei contraccolpi sono inevitabili.

Se la socializzazione non è solamente un atto di diritto tramite il quale la proprietà privata diviene proprietà pubblica, proprio quale processo con il quale la società impara a decidere congiuntamente in merito a tutti i settori della vita, anche lavoro, produzione, consumo e cura, allora la democrazia o meglio, la democratizzazione, deve essere un punto centrale della politica di sinistra. Diversamente da un parlamentarismo di sinistra alla Syriza, il movimento deve, al fine della socializzazione del potere, mettere in dubbio le fondamenta della democrazia regnante. In primo luogo la sinistra dovrebbe abbandonare il desiderio di essere meglio governata e rappresentata.

Il successo della politica di sinistra non si misura da un governo che amministra o distribuisce meglio le risorse. Se si prende sul serio il fatto che la democratizzazione è una parte centrale della politica di sinistra, allora il suo successo si misura dal protagonismo dei molti che si incrementa a scapito dei rappresentanti eletti e dei capi. Il disastro del governo Tsipras non sta nell’essersi fatto battere dalla Troika e di essere rimasti nell’euro, ma nel non aver tenuto pubblico dibattito su cosa avrebbe significato ciò per l’attivazione sociale che aveva trovato nel referendum Ochi la sua forza.

La sinistra pensa troppo spesso ed esclusivamente in termini di potere di stato e di governo. La democratizzazione, quale socializzazione del potere, invece è proprio quel processo che mette in dubbio proprio queste categorie di dominio borghese.

Fonte: WOZ N r. 39/2015

Link: http://www.woz.ch/1539/im-multiversum-des-kapitals-teil-3/radikale-demokratie-ist-ein-lernprozess

24.09.2015

Traduzione di Matthias von der Schulenburg per Comedonchisciotte.org

L’articolo è rilasciato con licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International (CC BY-NC-ND 4.0)

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