DI MASSIMO FINI
Ho incontrato per la prima volta Fausto Bertinotti nel 1976. Dovevo fare per l’Europeo una radiografia di Torino, questa città di frontiera, rigorosa e squadrata come le sue strade, quasi jansenista, che sembrava aver perso la bussola dilaniata com’era da feroci lotte operaie e da un terrorismo rosso che, più che altrove, non dava tregua. Fra la gente di sinistra da sentire mi avevano indicato il direttore di Nuova Società, Saverio Vertone, Giuliano Ferrara, funzionario del Pci, questo giovane quadro della Cgil, Bertinotti appunto, che da un anno ne era segretario provinciale. Tutti e tre mi fecero un’impressione notevole. Ma Fausto Bertinotti più degli altri. Era tre spanne sopra non solo alla media dei quadri sindacali di allora ma anche dei loro dirigenti. Era un prototipo nuovo di sindacalista che si sarebbe affermato, in Cgil, solo trent’anni dopo con Guglielmo Epifani che per molti versi, e non solo per la proprietà nel vestire, gli è affine anche se ha meno carisma ed è meno radicale. Colto, l’eloquio elegante, quasi forbito, lucido, dalla logica stringente, concreto, poco retorico. Non parlava nè in sindacalese nè in politichese. Ma, in generale, non c’era in lui nulla della tipica rozzezza dei sindacalisti di allora. Le sue idee potevano anche essere estreme, ma erano esposte con grande garbo, gentilezza e rispetto personale dell’avversario. Insomma a trent’anni era già il Bertinotti di oggi e anche fisicamente non è cambiato granché.
Ne seguii quindi con curiosità la carriera. Ma lo rividi solo un quarto di secolo dopo, quando era diventato segretario di Rifondazione comunista. Fu alla trasmissione Iceberg di Telelombardia, condotta dal bravissimo Daniele Vimercati. Daniele aveva preparato un bel servizio sul quartiere Greco-Pirelli, all’estrema periferia milanese, dove Bertinotti aveva trascorso la sua infanzia e prima giovinezza, sentendo anche molte persone, soprattutto compagni operai, ma non solo, che lo avevano conosciuto ragazzo. E ne era venuto fuori un quadro della straordinaria Milano degli anni Cinquanta. Una città più semplice, più umana e più solida. Con una classe operaia, più socialista che comunista, solidale, in fabbrica e fuori, lavoratrice, sobria per niente piagnucolosa come sarebbe diventata poi con l’immigrazione meridionale, dura nelle sue lotte, che non concedeva niente al «padrone» ma lo rispettava. Perché, in un gioco di controspecchi, anche la borghesia era solida, lavoratrice, doverista. E nella mentalità operaia milanese di allora il «padrone» andava certamente combattuto ma meritava rispetto perché anche lui «ruscava». Certo allora le distanze erano nette e bastava una strada, viale Zara, per dividere la Milano proletaria e quella borghese, si guardavano con diffidenza ma senza odi o, piuttosto con una reciproca curiosità e la fabbrica, il lavoro, in qualche modo le univa.
Bertinotti si era turbato a quella rievocazione, si era commosso. E si vedeva che non era solo nostalgia della propria giovinezza. Gli avevo sussurrato all’orecchio: «Bertinotti , non era meglio allora?>> Lui aveva negato. È figlio della propria cultura; quella marxista, e chiede che il meglio stia sempre davanti a noi, nel «cambiamento», nella modernizzazione, nel progresso sia pure «sub specie» di sinistra.
Io la penso in maniera diametralmente opposta. Ma ho sempre apprezzato la sua coerenza. Per questo mi ha molto stupito che non solo abbia accettato la presidenza della Camera ma abbia fatto di tutto per ottenerla. Ma come, tu lotti una vita per i tuoi ideali, sotto sotto ti senti ancora un rivoluzionario, ti fai fotografare, felice, col subcomandante Marcos, e quando, entrando in un governo, potresti finalmente far valere le tue idee, ti fai imbalsamare alla presidenza della Camera? C’è chi dice che sia stato un atto di responsabilità per non mettere in ulteriori difficoltà il governo Prodi. Io temo invece che, al momento del dunque, la vanità abbia avuto la meglio sulla coerenza e che a 66 anni Bertinotti abbia voluto tirare i remi in barca preferendo un prestigioso laticlavio alla lotta. Sì – e lo dico con di spiacere – il compagno Bertinotti mi ha deluso.
Massimo Fini
Fonte: http://www.massimofini.it
Uscito su “Il gazzettino” il 05/05/2006