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La Redazione

 

La classe dirigente italiana corre verso il baratro: cerchiamo di non fallire insieme a loro

Autonomia Differenziata, una lunga storia che non ha più senso di continuare.
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A cura di Redazione CDC
Il 10 Dicembre 2024
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La classe dirigente italiana corre verso il baratro: cerchiamo di non fallire insieme a loro

Di Giacomo Simoncelli, contropiano.org

Non si può comprendere a pieno il senso dell’Autonomia Differenziata se ci si ferma alla superficie delle diatribe politiche o dei favori che, attraverso lo strapotere regionalistico, gli amministratori locali sperano di poter elargire alle proprie consorterie.

Non c’è dubbio che tale elemento esiste, ed è un grave pericolo per la cosa pubblica, ma non deve essere considerato come l’origine di questo processo. Al solito, ciò che deve essere osservato è il sostrato economico e strutturale che sta dietro all’Autonomia Differenziata.

Il parassitismo dei nostri “prenditori” e il servilismo della classe politica non sono la causa, quanto semmai il risultato di un modo in cui la gestione della cosa pubblica è stata riorganizzata. L’opportunità è arrivata con la fine della Guerra Fredda e la sconfitta dell’Unione Sovietica.

Quando si parla di quel passaggio storico, viene in mente, com’è ovvio, il terremoto successivo alla caduta del Muro di Berlino che, per il Vecchio Continente, culmina con la firma del Trattato di Maastricht. Ma in questo caso bisogna andare ancora un po’ più indietro.

Il 9 settembre 1988 le regioni di Auvergne-Rhône-Alpes (Francia), Baden-Wurttemberg (Germania), Catalogna (Spagna) e Lombardia (Italia) misero la firma su un accordo per ampliare la cooperazione reciproca, riscontrando una comunanza di “performance in termini economici e di ricerca”.

Nacque il circuito dei “Quattro motori per l’Europa“, una rete regionale che si presentava come la punta di diamante dell’economia continentale e, in prospettiva, anche dell’integrazione europea. Tale circuito ancora esiste (la Lombardia quest’anno ne detiene la presidenza).

Esso, in sostanza, esprimeva le mire di una borghesia transnazionale che era pronta a cogliere le opportunità della nuova fase storica. Una fase che si apriva con il crollo del Blocco Orientale e, dunque, con l’apertura di larghe opportunità di espansione economica verso est e i Balcani.

L’Occidente cominciò a propagandare come binomio inscindibile quello tra economia di mercato e democrazia. E con esso si spinse su privatizzazioni, tagli alla spesa e alle amministrazioni pubbliche, di pari passo col processo di globalizzazione, ovvero di conquista di nuovi mercati.

Ma non va ridotta la questione a una semplice avanzata del privato sul pubblico: era innanzitutto una questione dell’opportunità di giocare un ruolo nuovo tra gli attori globali, in un mondo non più imbrigliato nello scontro tra blocchi. L’Unione Europea si edificava su questa opportunità.

Se in Italia la presenza di una delle borghesie più retrive e prive di visione a lungo termine ciò ha portato semplicemente alla rapina del pubblico e allo sfruttamento intensivo, il Trattato di Maastricht serviva a far fare un salto di qualità all’integrazione europea.

La cornice dei vincoli europei, affinata negli anni successivi, serviva a riorganizzare le filiere e i servizi continentali in una forma aggregata, con il conseguente processo di fusioni e acquisizioni che avrebbe dato vita a grandi campioni europei, capaci di competere sul piano internazionale.

Insomma, nulla che non possa essere descritto a pieno dallo sviluppo di quei conglomerati monopolistici tipici dello stadio imperialistico del capitale, seppur nella specifica condizione storica dell’Unione Europea a cavallo tra secondo e terzo millennio.

I Quattro motori per l’Europa aprivano la strada, in una dinamica che vedeva una divisione internazionale del lavoro in cui alcuni paesi perdevano su altri (i paesi periferici su quelli core), ma che è proceduta sostanzialmente nella stessa logica con cui si è formata quella rete: quella regionale.

Le nuove filiere si sono modellate con l’integrazione di specifiche regioni attraverso l’azione di una competizione interna regolata in virtù di tali mire imperialistiche. L’Autonomia Differenziata è il frutto ultimo, per ciò che riguarda l’Italia, di questo processo storico.

Insieme alla Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna hanno costituito un nuovo “triangolo industriale”, che nel tempo ha però assunto il ruolo di sub-fornitore di prodotti per le filiere tedesche. Tutte insieme sono poi cresciute secondo un modello export-oriented di carattere mercantilistico.

Alcuni dati. Nel 2023 le esportazioni venete hanno contribuito al 45,5% del PIL regionale (quasi 82 miliardi di euro, il 13,1% del totale italiano); la fetta maggiore è andata proprio in Germania, ovvero circa 11 miliardi di euro. La Lombardia scambia con Berlino più del doppio del Veneto.

E anche alcune iniziative europee. Un ruolo cardine nell’integrazione per regioni lo ha svolto il Committee of the Regions, che ha da poco festeggiato i suoi 30 anni. Al suo interno, l’Automotive Intergroup, creato nel 2009, ha avuto un peso strategico dal 2009, vista la filiera di cui si occupa.

Nel 2022 è partita anche la Alliance of Regions Automotive che unisce 36 regioni coinvolte a vario titolo nella produzione di auto. La Lombardia ne ha appena assunto la guida, in contemporanea ai Quattro motori: la logica di muoversi passo per passo, regione per regione, viene confermata.

In maniera consequenziale, tra le 23 materie sulle quali le regioni possono chiedere l’Autonomia Differenziata, ce ne sono 9 che non sono direttamente collegate ai Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP). Tra di esse, i rapporti internazionali e il commercio con l’estero.

A luglio Liguria, Lombardia, Piemonte e Veneto hanno chiesto al governo maggiori poteri proprio sull’ultima materia. In pratica, si mostra come con l’Autonomia Differenziata si porta a compimento il saldarsi per vie regionali delle nuove filiere della UE che lotta nella competizione globale.

Ma lo spacchettamento del paese in decine di politiche commerciali estere differenti porterà, in sostanza, a una competizione interna che si svolgerà su campagne pubblicitarie e riduzione dei prezzi, che saranno compensati con tagli ai salari o sussidi pubblici finanziati dalla riduzione delle spese sociali.

Il ministro degli Esteri Tajani, in uno di quei pochi momenti di lucidità che ogni tanto si impossessa dei nostri politici, ha detto: “poi cosa facciamo, la guerra tra i vini piemontesi e quelli pugliesi?”. È proprio quello che accadrà, perché prenditori e loro amici non sanno guardare più in là del proprio naso.

La prospettiva della borghesia nostrana è quella di avvantaggiarsi di qualche accordo che, sul breve termine, potrebbe dare qualche entrata in più. Ma sul lungo termine ci sarà una caduta dei profitti e la perdita definitiva di ogni strumento per programmare una politica di sviluppo per l’intera collettività.

In questo scenario, i politicanti regionali, che sono ormai più amministratori di condominio che altro, guadagneranno sulla promozione delle consorterie varie, in maniera legale o meno. Ma è qui che va ribaltato il discorso, sulle responsabilità all’origine dell’Autonomia Differenziata.

Non sono i politici che spingono su questa riforma mortale per il paese, ma è la logica di mercato cresciuta senza visione strategica, nel fagocitamento del pubblico e nel restringimento dei diritti, che ha portato alla selezione di una classe politica che è capace solo di assecondare gli appetiti più retrivi.

In un certo senso, in maniera speculare è promossa la trasformazione di tutto il Mezzogiorno in Zona Economica Speciale. L’idea che lo sviluppo possa avvenire solo garantendo sgravi e regimi contrattuali, salariali, previdenziali agli investimenti privati si concretizzerà così nelle aree meridionali.

Tutta la nostra classe dirigente si è arricchita nell’ultimo trentennio su di un parassitismo che si faceva scudo del mantra “ce lo chiede l’Europa”, mentre si legavano mani e piedi in maniera subordinata all’industria tedesca. E oggi non hanno dunque nemmeno la capacità di vedere che il mondo è cambiato.

Col COVID-19, ma soprattutto col conflitto russo-ucraino del 2022, è finita la globalizzazione e si sta delineato la frammentazione del mercato globale. Si va sviluppando una divisione tra blocchi che non sono magari omogenei ideologicamente, ma certamente contrapposti a livello geopolitico.

Su questo palcoscenico, il modello export-oriented UE guidato da Berlino è morto. L’ondata di licenziamenti che attraversa l’Europa lo dimostra, e si ripercuote sulla produzione industriale italiana: 20 mesi di indice in calo a settembre, con la produzione di mezzi di trasporto che cola a picco (-15,4%).

L’Autonomia Differenziata è, dunque, come la scelta di accelerare in curva. Frutto di politica incardinata nell’imperialismo europeo, continua anche se ormai non risponde più alla realtà. Nella più completa incapacità della classe dirigente di immaginare un’alternativa.

Diciamolo, la cultura politica e gli strumenti statali per immaginarla una di queste alternative la classe dirigente non ce l’ha, li ha smantellati insieme allo stato sociale e agli strumenti della politica industriale. E dunque oggi corre verso il baratro del suo fallimento.

Cerchiamo di non fallire con loro, e immaginiamola noi un’alternativa.

Di Giacomo Simoncelli, contropiano.org

04/12/2024

Articolo ripreso da resistenze.org

Titolo originale: Autonomia Differenziata, una lunga storia che non ha più senso di continuare

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