DI SABINA MORANDI
Liberazione
E’ l’alba di un giorno scuro e piovoso. Un ragazzo si nasconde fra la folla per assistere alla tortura e all’esecuzione del suo maestro, la cui unica colpa è stata quella di avere diffuso le conoscenze sacrileghe e blasfeme degli antichi filosofi greci. Sul rogo, insieme al filosofo, bruciano infatti le traduzioni proibite in un’Europa dominata dalla superstizione e dalla violenza dei signori della guerra che regnano incontrastati. Dopo avere assistito all’atroce spettacolo il ragazzo scappa verso Sud portando con sé alcune opere del maestro, deciso ad abbandonare quelle terre di oppressione e di oscurantismo. Quando finalmente riesce a valicare i Pirenei gli si apre davanti una terra ricca e pacifica, dove le donne discutono alla pari con gli uomini e dove i libri, invece di essere distrutti, vengono conservati nelle biblioteche pubbliche.
E’ l’inizio de Il destino, un film di qualche anno fa ambientato nei secoli più bui del Medioevo che il regista egiziano Youssef Chahine ha dedicato alla vita di uno dei più importanti filosofi della storia, Averroè, il cui razionalismo influenzò fortemente gli intellettuali occidentali dell’epoca. Dante, fra gli altri, si considerava un “averroista” convinto e l’intero pensiero islamico era una vera e propria boccata di ossigeno fra i cristiani illuminati che mal sopportavano la soffocante cappa di censura e superstizione che era, all’epoca, la caratteristica principale della cristianità. I libri di Averroè venivano contrabbandati, le sue dottrine trasmesse e le sue parole imparate a memoria per non incorrere nelle ire dell’Inquisizione. Spostando il punto di vista come ha fatto il regista, e riportando alla luce la storia rimossa di quei secoli oscuri, si capisce che la religione ha ben poco a che fare con i fondamentalismi di ogni epoca e di ogni latitudine.
Lo spiazzamento del pubblico occidentale nei confronti di un film girato per denunciare il fondamentalismo islamico attuale, non stupisce. Ci hanno insegnato che i secoli che separano la caduta dell’impero romano dal rinascimento sono stati anni di paura e barbarie, ma non ci è stato spiegato che ne siamo usciti unicamente perché siamo venuti in contatto con la civiltà più ricca e più evoluta dell’epoca, appunto l’Islam. Pochi occidentali sanno che, mentre l’Europa veniva spopolata dalle malattie e dalla fame, a Sud fioriva una civiltà che aveva come capitali Baghdad e Damasco, una civiltà cui noi occidentali dobbiamo la salvezza del patrimonio che consideriamo fondativo per la nostra cultura: la filosofia greca. Se gli studiosi dell’epoca di Solimano e del Saladino non avessero fatto propria la grande filosofia antica non avremmo né Platone né Aristotele perché la raffinata rete dei traduttori arabi, attraverso i quali ci sono pervenute le loro opere, non sarebbe esistita. Né, del resto, sarebbe potuta nascere la scienza moderna senza la libertà di studiare e sperimentare concessa ai matematici e agli scienziati arabi, il cui contributo è stato completamente cancellato per fare posto alla propaganda dello scontro fra civiltà.
Nell’ottica di Allah
Beltegeuse, Rigel, Aldebaran, Algol e Sirrah. Le stelle parlano arabo da secoli, da quando scienza, civiltà e tecnologia se ne stavano al di là del Mediterraneo, e i barbari sporchi, ignoranti e poveri che calavano per razziare le ricche città o per emanciparsi attraverso lo studio nelle rinomate università locali, eravamo noi. Per secoli la filosofia, la matematica e la medicina, per non parlare dell’astronomia, della chimica o dell’ottica, sono state islamiche, nel senso che l’Islam ha trasmesso e rielaborato le antiche discipline egizie, babilonesi, indiane e greche, e ne ha fondate di proprie. Un debito, quello nei confronti della scienza islamica, di cui si trovano innumerevoli tracce nel linguaggio stesso di molte discipline moderne che consideriamo, a torto, figlie della superiore “civiltà occidentale” ma che i nostri progenitori riconoscevano appieno, facendo di tutto per procurarsi i testi scientifici degli “infedeli”.
L’origine della scienza islamica affonda nei nostri secoli più bui. Gli arabi avevano già preso a studiare il cielo, raccogliendo l’eredità dei greci e degli indiani, già nel VIII° secolo e nell’828 fu costruito a Baghdad il primo osservatorio astronomico del mondo. L’astronomia andava di pari passo con l’ottica e con lo studio della fisiologia dell’occhio: se ne ritrovano tracce nell’origine araba di termini medici come “retina” o “cataratta”. L’amore della cultura musulmana per tutto ciò che aveva a che fare con la visione ha indubbiamente radici religiose, ma l’afflato mistico non deve trarre in inganno: la scienza islamica era sostanzialmente empirica – cioè amava sperimentare – e fortemente matematizzata, cosa questa che fa affermare ad alcuni storici che siano stati proprio gli arabi a insegnarci i primi rudimenti della formalizzazione matematica, caratteristica principale della scienza occidentale doc. Ibn Al-Haitham, ad esempio, noto in occidente con il nome di Alhazen, è considerato il massimo esperto di ottica tra Tolomeo e Witelo. L’alta considerazione di cui godeva anche fra i contemporanei non deve stupire: già intorno all’anno Mille Alhazen combinava elaborati trattamenti matematici con i modelli fisici e un’accurata sperimentazione, dando così una svolta empirica all’indagine scientifica, cosa che, in Occidente, avverrà solo dopo cinque secoli.
I calcoli degli astronomi e degli studiosi di ottica arabi furono possibili solo perché gli strumenti matematici erano già altamente sviluppati. L’apporto degli arabi alla scienza del calcolo fu così importante che non se ne è persa memoria e infatti uno dei pochi debiti che gli occidentali non hanno dimenticato è l’invenzione dello zero che rese possibile la nascita del calcolo posizionale, quello in colonne per intenderci. L’introduzione dei numeri indiani – da noi chiamati arabi – e lo sviluppo dell’algebra, fecero il resto. Un nome per tutti è quello del grande matematico del IX° secolo, Al Khwarizmi, che scrisse il Libro del compendio nel processo di calcolo per trasporto ed equazione , più volte tradotto in latino e diffuso in Europa con il nome di Liber Algorismi , una latinizzazione del suo nome da cui deriva il termine “algoritmo”.
La medicina
Per secoli la medicina araba è stata talmente più avanzata di quella occidentale da indurre gli stessi crociati a servirsi dei dottori cavallerescamente offerti dal nemico assediato. Gli arabi conoscevano infatti i testi greci di Ippocrate e di Galeno, che l’Europa aveva perduto, insieme alle molte nozioni derivanti dalle teorie e dagli esperimenti degli alessandrini che si erano diffuse nell’Egitto ellenizzato e in Asia minore. L’arrivo in Occidente delle traduzioni di Platone e Aristotele rese accessibile agli studiosi del barbaro Nord anche le teorie dei filosofi e dei medici islamici. Per circa due secoli la filosofia greca è stata infatti studiata nelle versioni arabizzate tratte dai commenti del razionalista Averroè o del mistico Avicenna, i più importanti filosofi dell’Islam, ed è a queste versioni che si riferivano i nostri filosofi. A Bologna come a Parigi gli studenti, ma anche i padri del dogma cattolico come San Tommaso d’Aquino, dovettero piegarsi alla superiorità della sapienza araba del tempo.
Ma Avicenna non era soltanto un filosofo. Mentre nei villaggi nordici che in seguito divennero noti con il nome di Parigi o di Londra, si curavano le malattie con gli incantesimi, nel profondo Sud veniva fondata la medicina moderna. Il Canon medicinae di Ibn Sina, nome originale appunto del grande Avicenna, è stato praticamente l’unico libro di testo degli studenti di medicina per quasi tre secoli e ha continuato, per tutto il Rinascimento, a essere il libro più stampato in Europa. Ma Avicenna è in buona compagnia. Fu l’arabo Al-Razi a fondare l’ostetricia e a fornire la prima descrizione scientifica del vaiolo e del morbillo – e a prospettare la possibilità di immunizzare i sani attraverso le secrezioni dei malati – mentre Ibn Nafis fu il primo a descrivere il meccanismo della circolazione sanguigna. Tutti nomi ignorati dai manuali di storia della medicina che riportano solo le date – e gli autori – delle ri-scoperte occidentali.
Con le sue grandi intuizioni, come l’ipotesi dell’esistenza dei microbi e i primi esperimenti con i vaccini, la medicina araba era decisamente all’avanguardia nella teoria così come lo era nell’insegnamento e nella pratica. Nelle scuole di medicina islamiche si cominciò a pretendere che gli studenti si misurassero con la pratica clinica oltre che con i testi e per favorire l’apprendistato, oltre che per il controllo delle epidemie, venne abbracciata un’idea del tutto nuova: raggruppare i malati in una struttura dove i medici avrebbero potuto assisterli e gli studenti imparare dalla pratica dei propri maestri. Venne inventato insomma quello che, per dirla con parole moderne, è il policlinico universitario, che fece la sua comparsa in Europa solo nel diciannovesimo secolo. A Damasco la prima struttura ospedaliera del mondo venne costruita esattamente mille e cento anni prima: nel 707 dopo Cristo, data che lascia un tantino allibiti visto che, a quell’epoca, dalle nostre parti ancora non si pensava nemmeno ai lazzaretti.
Malgrado un’attenzione particolare per l’aspetto psicosomatico che colpisce per la sua modernità, l’approccio medico islamico era sostanzialmente razionalista e si basava su approfondite conoscenze anatomiche che gli europei, a cui non era consentito lo studio dei cadaveri, non potevano avere. Del resto il tabù sulle autopsie rimase valido in tutta la cristianità almeno fino al XVII° secolo e oltre – come testimoniano le rocambolesche “avventure” dei pittori rinascimentali, più note di quelle dei loro contemporanei medici. Ma un’altra caratteristica che rendeva i dottori arabi estremamente efficienti rispetto ai colleghi occidentali, era la possibilità di disporre di una quantità incredibile di sostanze provenienti dagli estesi domini dei califfi – ovvero sali, acidi, alcaloidi ed erbe – che rifornivano il prontuario con una serie di rimedi degni di una moderna farmacia. L’alchimia, da cui trae origine la moderna chimica, era infatti un altro settore particolarmente fecondo della scienza islamica.
A tutta chimica
Lo sviluppo dell’alchimia proviene dall’altro grande filone culturale che si unì a quello greco per dare luogo alla scienza islamica, ovvero le antichissime conoscenze provenienti dall’India e dalla Cina. Nel periodo della sua massima espansione, infatti, l’Islam si estendeva dall’India alla Spagna passando per la Persia, il nord-Africa e la Sicilia. La capitale venne spostata da Damasco a Baghdad dove, grazie alla grande tolleranza culturale del califfo Harum al-Rashid (786-809 d.C.), cominciarono a convergere i saperi e le tradizioni dei popoli conquistati. Sotto il regno dell’Illuminato, come venne chiamato il califfo più volte citato in Le mille e una notte , venne fondata e sviluppata la “Casa della sapienza”, ovvero un centro di mecenatismo finanziato dallo Stato che sorgeva intorno a una grandiosa biblioteca inter-religiosa. Nella Casa della sapienza cominciarono ad affluire da tutto il mondo studiosi e religiosi, pensatori e praticanti, in un’atmosfera di libertà intellettuale mai conosciuta prima, e Baghdad diventò per la scienza quello che Atene era stata per l’arte durante l’età di Pericle.
Fu in questo clima che l’alchimia si sviluppò e cominciò a cimentarsi con la produzione di alcune sostanze utili. La chimica islamica, libera dalle condanne e dai pregiudizi religiosi che in Europa la condannarono alla clandestinità fino ai tempi di Newton, a Baghdad ebbe la possibilità di svilupparsi come una scienza e una tecnologia specifica, separandosi molto presto dalle sue origini magiche. Jabir ibn Hayyan, il più famoso alchimista arabo vissuto nella seconda metà del VII° secolo, perfezionò il processo di distillazione dell’alcool (la cui etimologia deriva appunto dalla parola araba “al-ghul”), costruendo nuovi tipi di alambicchi. E’ da notare che la preparazione e la produzione dell’alcool a uso medicinale fu consentita, malgrado la ben nota proibizione coranica.
Un altro importante frutto degli esperimenti dei chimici di Baghdad furono i progressi relativi alla fabbricazione della carta, che utilizzarono e migliorarono gli antichi metodi importati dalla Cina. Nel 793 venne fondata a nella capitale una vera e propria fabbrica che, attraverso una produzione semi-industriale, ricavava la carta da una pasta di fibre di canapa e di gelso mescolate ad allume e colla. E con la produzione della carta su larga scala, ovviamente, la diffusione dei libri nel mondo islamico divenne molto più rapida e immensamente più economica, anche se bisognerà aspettare l’invenzione della stampa in Occidente – più di sette secoli dopo – per arrivare alla possibilità di un accesso davvero universale al sapere scritto.
Sabina Morandi
Fonte: www.liberazione.it
13.04.08