LA CINA NON PUO’ RISCHIARE IL CAOS GLOBALE SVALUTANDO SIGNIFICATIVAMENTE LA SUA MONETA

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DI AMBROSE EVANS PRITCHARD

telegraph.co.uk

Redazione: la Cina non ha niente da guadagnare ad innescare una scossa deflattiva. La sua economia é in ripresa: gli stimoli adottati stanno creando 1.2 milioni di nuovi posti-lavoro al mese. Aspira all’avanguardia economica, ma resta sotto il controllo top-down del Partito Comunista. Dritta verso la “trappola del reddito medio”.

Se l’obiettivo della Cina fosse quello di svalutare significativamente la sua moneta per ottenere un vantaggio commerciale, il mondo si troverebbe a dover affrontare un momento molto pericoloso.

Questo disperato comportamento causerebbe uno shock deflazionistico nell’economia globale – che peraltro, dall’inizio di quest’anno, è già scossa di suo da una quasi-recessione – e porterebbe ad una ripetizione della crisi valutaria est-asiatica del 1998, ma su scala planetaria.

Gli investimenti fissi della Cina hanno raggiunto i 5.000 miliardi di dollari lo scorso anno, che corrispondono a quelli di Europa e Nord America messi assieme. E’ questa la causa principale della cronica sovraccapacità produttiva a livellomondiale: dai trasporti all’acciaio, dai prodotti chimici ai pannelli solari.

La svalutazione cinese consentirebbe un’esportazione ancora maggiore di quest’eccesso di offerta verso di noi. E’ un qualcosa che potrebbe anche essere fatto quando il commercio mondiale è in fase di espansione ma, nel mondo a somma zero di quest’anno, con nessuna crescita dei volumi di spedizione, equivarrebbe ad una guerra valutaria del tipo beggar-the-neighbour [rovina il tuo vicino].

Non c’è da stupirsi, quindi, che al primo soffio di questa possibile minaccia mercantilista si sia scatenata la “tempesta d’Agosto”, che ha lacerato le Borse globali. L’indice Bloomberg delle materie prime è precipitato al minimo degli ultimi 13 anni.

L’Europa e l’America non sono riuscite a costruire delle adeguate riserve di sicurezza contro l’importazione di questa nuova ondata di deflazione. I prezzi-core [in sintesi, quelli dell’energia e degli alimentari] stanno aumentando ad un tasso di appena l’1% su entrambi i lati dell’Atlantico, nell’ambito di un ciclo economico che dura da ben sei anni.

Non si riesce nemmeno a pensare a cosa potrebbe accadere se precipitassimo, in queste circostanze,in una recessione globale, con i tassi d’interesse ancora a zero, con la carta dei Quantitative Easings già giocata e con livelli di debito aggregato superiori di 30 punti [di Pil] rispetto a quelli del 2008.

“L’economia mondiale sta navigando attraverso l’oceano senza scialuppe di salvataggio da utilizzare in caso di emergenza”, ha dichiarato Stephen King della HSBC, nella sua inquietante relazione pubblicata lo scorso mese di Maggio.

A prescindere da come Pechino possa vedere le cose, il Congresso degli Stati Uniti reagirebbe molto male ad ogni accenno di guerra valutaria da parte di un paese che, nel solo secondo trimestre di quest’anno, ha collezionato un surplus commerciale record – pari a 137 miliardi di dollari – ad un ritmo annuo superiore al 5% del Pil.

Solo i paesi in deficit commerciale, non altri, possono plausibilmente giustificare il ricorso a questo gioco.

I Senatori Schumer, Casey, Grassley, e Graham si son messi in fila per accusare Pechino di manipolazione valutaria, un termine che implica una possibile ritorsione sotto forma di sanzioni, ai sensi del diritto commerciale degli Stati Uniti.

Qualsiasi moderazione politica che in passato il Congresso degli Stati Uniti avrebbe potuto attuare è stata rapidamente erosa dalle prove riguardo la costruzione di piste d’atterraggio e postazioni d’artiglieria cinesi sulle contestate barriere coralline nel Mar Cinese Meridionale, appena al largo delle Filippine.

E’ troppo presto per sapere con certezza se la Cina ha preso in modo veramente consapevole la decisione di svalutare. Bo Zhuang della “Trusted Sources” ha detto che c’è stato un “tiro alla fune” all’interno del Partito Comunista.

Nei riguardi del dollaro, la Banca Centrale [PBOC], fino ad ora, non ha fatto altro che passare da una situazione di cambio-fisso ad una di fluttuazione controllata. Si tratta, quindi, di un passo in avanti verso il libero scambio di mercato, che è stato ben accolto dal Tesoro degli Stati Uniti e dal Fondo Monetario Internazionale.

L’effetto immediato, Martedì scorso, è stato un calo dell’1.84% dello yuan rispetto al dollaro, descritto con un po’ d’affanno come il più grande spostamento giornaliero dal 1994. La PBOC ha detto che si è trattato solo un adeguamento tecnico, niente più di una mossa “una tantum”.

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Se così fosse, si sarebbe potuto supporre che la PBOC avrebbe difeso questa nuova parità, a 6.32, limitandosi a portare a casa il risultato. Ciò che allarma, seppur in modo abbastanza vago, è che la Banca Centrale non l’ha fatto, lasciando scivolare la sua moneta di un ulteriore 1.6% Mercoledì scorso, prima di reagire.

Nel tentativo di calmare le acque, la PBOC ha diffuso una dichiarazione in cui ha sostenuto che “non ci sono attualmente le condizioni per una svalutazione persistente” dello yuan, e che l’economia cinese sta in ogni caso crescendo.

Fate quindi la vostra scelta: o è una cospirazione, oppure solo un lieve incasinamento.

Di che cosa si tratti, in realtà, ce lo dirà l’immediato futuro. La PBOC ha 3.650 miliardi di dollari di riserve per prevenire qualsiasi ulteriore svalutazione, almeno sul breve termine. Se non dovesse farlo si potrebbe legittimamente sospettare che il Consiglio di Stato Cinese abbia optato per una segreta guerra valutaria.

Personalmente, dubito che questo sia solo l’inizio di una lunga scivolata. I rischi sono troppo elevati. Le aziende cinesi hanno preso in prestito quantità ingenti di dollari sui mercati off-shore per aggirare le restrizioni in casa propria, e queste aziende sono in generale quelle più deboli, quelle escluse dal sistema bancario cinese.

Hans Redeker della Morgan Stanley ha dichiarato che le passività a breve termine espresse in dollari hanno raggiunto i 1.300 miliardi di dollari all’inizio di quest’anno: “Equivale al 9.5% del Pil cinese. Quando nei paesi emergenti il debito estero a breve termine raggiunge questi livelli, significa che un forte stress è in arrivo. E’ esattamente quello che abbiamo già visto nella crisi asiatica degli anni ‘90”.

La svalutazione rischierebbe di scatenare una grave fuga di capitali, ben oltre il genere di deflusso che abbiamo visto fino ad ora – le stime variano da 400 ad 800 miliardi di dollari, nel corso degli ultimi cinque trimestri.

Questo deflusso potrebbe facilmente andare fuori controllo se i mercati sospettassero che Pechino sta soffiando sul fuoco. Se è vero che la PBOC potrebbe far fronte alle uscite facendo diminuire le sue riserve – come del resto sta già facendo, ad un ritmo di 15 miliardi di dollari al mese – è anche vero che questa politica implica un’automatica stretta monetaria, e potrebbe far peggiorare le cose.

Il rallentamento cinese non è ancora così grave da giustificare un tale rischio, nonostante il tasso di cambio ponderato sia salito del 22% dalla metà del 2012, conseguenza dell’esseri legati al dollaro nel momento sbagliato [quello della sua rivalutazione] – mentre quello contro lo yen giapponese è cresciuto del 60%!

Questa perdita di competitività è stata dolorosa – e sta sempre più peggiorando, visto che la contrazione dell’offerta di “lavoro proveniente dalle campagne” sta spingendo i salari verso l’alto – ma non è stata la causa principale della crisi di questa prima metà dell’anno.

L’economia era andata dritta contro un muro perché la politica monetaria e fiscale era semplicemente troppo “stretta”. Le autorità non avevano reagito quando il calo dell’inflazione aveva spinto gli oneri finanziari ad un anno, in termini reali, dallo zero del 2011 al 5% di fine 2014.

Non erano riuscite a prevedere nemmeno lo “scoglio fiscale” dell’inizio di quest’anno. Parallelamente al crollo delle entrate ufficiali derivate dalla vendita dei terreni, alle “amministrazioni locali” fu proibito d’indebitarsi con le banche – comprensibilmente, forse, visto che i loro debiti ammonterebbero, secondo alcune stime, a 5.000 miliardi di dollari.

La riduzione dell’indebitamento, calibrato dal Premier Li Keqiang, era andato semplicemente troppo lontano. Ma da allora ha decisamente invertito la rotta.

Il mercato dei Titoli delle “amministrazioni locali” ha conseguentemente tirato fuori la testa, emettendo 205 miliardi di dollari di nuovo debito tra Maggio e Luglio. E questo è davvero un serio stimolo fiscale!

Nomura sostiene che la politica monetaria sta ora emergendo dalle profondità della crisi post-Lehman. Il suo “growth surpise index” [misura se un dato ha battuto o ha invece mancato le previsioni] per la Cina ha toccato il fondo, a Maggio, ma sta ora segnalando un forte rimbalzo.

“Capital Economics” ha scritto che i prestiti bancari sono saliti del 15.5% nel mese di Giugno, il ritmo più veloce dal 2012: “Alcuni segnali già indicano che la politica di allentamento sta guadagnando trazione”.

Vale la pena ricordare che le autorità cinesi non hanno più il solo obbiettivo della crescita. Oggetto dei loro pensieri, in questi giorni, è il mondo del lavoro, un indicatore di gran lunga più rilevante per la sopravvivenza del regime comunista.

Ma non siamo in ogni caso davanti ad un grande dramma. L’economia ha generato ulteriori 7,2 milioni di posti di lavoro nella prima metà del 2015, ben al di sopra del target annuale, che è di 10 milioni.

Pochi contestano il fatto che la Cina sia in difficoltà. Il credito è stato allungato fino al limite, e forse anche oltre. Il fatto che i debiti [totali] siano passati dal 120 al 260% del Pil, in soli sette anni, non ha precedenti in qualsiasi grande economia dei tempi moderni.

L’eccesso di credito è del doppio rispetto a quello della bolla di fine anni ‘80 del Nikkei giapponese … e dubito che possa andare a finire meglio.

Il Giappone, almeno, era già ricco quando ci fu lo strappo. La Cina, inoltre, dovrà affrontare molto della stessa crisi demografica, prima di poter varcare la soglia dello sviluppo.

Sarà alle prese, in ogni caso, con una contraddizione “impossibile”: aspira all’avanguardia economica attraverso la crescita dell’high-tech, ma resta sotto il controllo top-down del Partito Comunista, nell’ambito di una diffusa repressione.

In questo modo la Cina verrebbe a trovarsi nella classica “trappola del reddito medio” [quando un’economia – dopo aver fatto uscire dalla povertà milioni di persone – si ferma, attestandosi su uno stadio di sviluppo intermedio], la maledizione di tutti i regimi autoritari che non riescono a riformarsi per tempo.

Ma questa è una storia per i prossimi quindici anni. Il Partito Comunista Cinese non è ancora a corto di stimoli, e al momento sta chiaramente coinvolgendo il sistema bancario statale nella progettazione di un altro mini-ciclo.

Arriverà il giorno in cui la Cina tirerà la leva … ma non accadrà nulla. Ma non siamo ancora a quel punto.

Ambrose Evans-Pritchard

Fonte: www.telegraph.co.uk

Link: http://www.telegraph.co.uk/finance/economics/11799504/China-cannot-risk-the-global-chaos-of-currency-devaluation.html

14.08.2015

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org a cura di FRANCO

Fra parentesi quadra [ … ] le note del Traduttore

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