Perchè questa forma di tumore continua a crescere a dispetto dei progressi fatti nella diagnosi precoce e del costante sviluppo di nuove terapie ?
DI LUCINDA MARSHALL*
Sappiamo che ottobre è arrivato quando le foglie cominciano a cambiare colore e il mondo assume una gloriosa tonalità rosa. Già, rosa, il colore simbolo della campagna americana contro il cancro al seno (NBCAM, mese della prevenzione del tumore alla mammella). Ogni anno, le donne sono invitate a sottoporsi alla mammografia perché, secondo il motto della campagna “La diagnosi precoce salva la vita”. E così si acquistano rossetti rosa e si indossano fiocchetti rosa, perché parte dei proventi vanno alla ricerca sul cancro della mammella.
Ciò che però non si fa è chiedersi se davvero “conoscere il male” significa salvarsi la vita. Per cominciare è inconcepibile che esista un solo adulto pensante in questo paese a non conoscere il tumore della mammella. Secondo l’American Cancer Society, una donna su sette sviluppa un tumore al seno prima o poi nella vita (nel 1975, solo una su undici era a rischio). Quindi, quest’anno il tumore della mammella sarà diagnosticato a più di 250.000 donne. Ogni anno, di cancro al seno muoiono 40.000 donne. Paradossalmente, le opzioni terapeutiche per le donne affette da questo male sono cambiate molto poco rispetto a 40 anni fa: radioterapia, chemioterapia, chirurgia.
Sarebbe logico cominciare a chiedersi perché l’incidenza di questa forma di tumore continua a crescere a dispetto dei progressi fatti nella diagnosi precoce e del costante sviluppo di nuove terapie. Lo sanno anche i bambini che non si può risolvere un problema se non si conoscono le variabili. Eppure, gran parte dei finanziamenti gettati nel calderone della ricerca sono spesi nel tentativo di trovare delle cure e delle terapie, mentre la ricerca fa pochissimo per individuarne le cause.
Ciò sembra particolarmente strano perché circa metà dei casi di tumore al seno risulta inspiegabile in base alle caratteristiche individuali, il che porta molti a sospettare che la causa sia ambientale. A partire dagli anni Quaranta, sono entrate nell’impiego quotidiano decine di migliaia di sostanze chimiche sintetiche, e solo una minima percentuale di queste è stata testata in termini di sicurezza per la salute. Anche i livelli di inquinamento sono aumentati a dismisura. Da lungo tempo si è appurato che esiste un legame fra alcuni pesticidi e il cancro della mammella e si sa anche che gli estrogeni non-steroidei sono cancerogeni. Le sostanze chimiche ad attività estrogena contengono PVC e bisfenol-A (additivi plastici presenti in molti prodotti per la casa) e benzene (additivo della benzina). Altri inquinanti, come i parabeni e gli ftalati contenuti in molti cosmetici, possono agire da disturbatori dell’attività ormonale e sono stati collegati all’insorgenza dei tumori. Vi sono poi sostanze che possono contribuire al tumore alla mammella, fra cui il DDT, la diossina e il PCB.
Inoltre, il “State of the Evidence 2004”, documento sullo stato della ricerca pubblicato congiuntamente da Breast Cancer Fund e Breast Cancer Action, illustra le seguenti connessioni fra esposizione agli agenti chimici e insorgenza del tumore alla mammella:
“I composti clorati presenti nell’acqua potabile e in molti processi industriali, fra cui la produzione di componenti elettronici, sono stati associati a un rischio elevato di cancro alla mammella in tre nuovi studi;
Si è riscontrato che un solvente utilizzato in molte vernici, pitture, tinture e additivi di carburanti (l’etere metil glicoletilene) sensibilizza il tessuto della mammella agli effetti degli estrogeni e delle progestine, aumentando di conseguenza il rischio di cancro al seno e;
Il Million Women Study condotto nel Regno Unito ha rivelato che tutti i tipi di terapia ormonale sostitutiva post-menopausa aumentano sensibilmente il rischio di tumore della mammella, corroborando le prime scoperte fatte in tal senso dallo studio statunitense del Women’s Health Initiative. Un altro studio ha riscontrato che l’utilizzo di terapie ormonali dopo una diagnosi di tumore al seno triplica il rischio di ricorrenza o insorgenza di un altro tumore al seno.” (1)
Eppure, organizzazioni quali l’American Cancer Society e la Susan G. Komen Foundation si esimono puntualmente dall’affrontare questi temi. Si scopre così che entrambe hanno legami con diverse aziende dell’industria chimica, cosmetica e farmaceutica, molte delle quali hanno enormi interessi finanziari nel tumore della mammella. A parte le buone intenzioni, per loro è molto più proficuo diagnosticare e curare il cancro al seno piuttosto che prevenirlo, il che porta a un enorme conflitto di interessi fra il benessere di queste aziende e il fatto che tali organizzazioni sono enti benefici.
Il principale sponsor aziendale del NBCAM è AstraZeneca, produttrice del famoso farmaco anticancro Tamoxifen. Il fatto è che il Tamoxifen stesso può causare il cancro e fino a poco tempo fa AstraZeneca produceva anche altre sostanze cancerogene. Apparentemente, l’azienda ha il pallino del marketing a colori. Non solo ci incoraggia a pensare in rosa, ma è anche produttrice della pillolina viola, la Nexium, frequente sponsor delle news notturne. E ciò solleva la questione di come il fatto che l’azienda sia sponsor del telegiornale possa influire sul modo in cui i network riportano le notizie sulle “cure” e le cause del cancro.
AstraZeneca non è l’unica azienda a giocare in entrambi i campi nella partita della causa/cura. Anche la Dupont produce diverse sostanze che sono state collegate al cancro (fra le quali il Teflon), nonché gran parte delle pellicole utilizzate per le mammografie. Inoltre, la General Electric detiene impianti nucleari che producono radiazioni ionizzanti, causa accertata di tumori, oltre che macchine per la mammografia (che paradossalmente producono radiazioni ionizzanti cancerogene). La GE, poi, possiede la NBC.
Quello che queste grandi corporation hanno capito è che la campagna di prevenzione del tumore al seno è un grande affare di pubbliche relazioni. Come sottolinea Barbara Brenner della Breast Cancer Action: “Basta schiaffare un nastrino rosa su un qualsiasi prodotto e lo compreranno”. Ma dove vanno a finire i proventi delle vendite di quel prodotto? Alcune aziende dichiarano apertamente quale percentuale dei proventi è assegnata in donazione, ma molte altre si limitano a dire qualcosa del genere ‘una generosa porzione dei proventi sarà donata alla ricerca di una terapia contro il cancro’. La definizione di ‘generoso’ è piuttosto ampia e troppo spesso non esistono rendiconti consuntivi sulle somme raccolte e sui beneficiari di tali proventi. (2)
E cosa dire di organizzazioni quali la fondazione Susan G. Komen Breast Cancer Foundation, che sponsorizza l’annuale Maratona per la Cura? Secondo la Toxic Links Coalition, la maratona si concentra sulla ricerca di cure mediche, trascurando totalmente le cause ambientali. In “Running From the Truth”, Mary Ann Swissler rivela che nel portafoglio azionario della suddetta fondazione sono presenti diverse partecipazioni in grandi case farmaceutiche, oltre che nella General Electric, una delle maggiori produttrici di attrezzature per la mammografia. (3) Il Rapporto annuale 2003-2004 della fondazione elenca fra le aziende partner la Ford (i gas di scarico delle auto sono una causa da tempo conclamata di cancro) e la Johnson and Johnson (produttrice di diversi farmaci anticancro e attrezzature diagnostiche).
Nel 1998, la Komen fu l’unica associazione nazionale per la lotta al tumore del seno a sostenere il Tamoxifen come terapia preventiva in alcuni casi, mentre altri gruppi vi obiettavano fortemente. Come si sa, chi produce il Tamoxifen, la AstraZeneca, è una strenua sostenitrice della Maratona per la Cura e ha ricevuto dalla Komen il riconoscimento “Amico nella Lotta” nel 2003.
La fondazione Komen è poi evidentemente taciturna sui temi ambientali. Cosa interessante: la Occidental Petroleum, grande inquinatore ambientale (pensate a Love Canal) è uno dei principali sostenitori della fondazione. Come sostiene Judy Brady, attivista nella lotta al tumore della mammella, se la Komen può essere mossa dalle migliori intenzioni, resta il problema che non capisce assolutamente che il “business as usual” è la vera causa del cancro”. (4)
Tanto ACS che Komen sono grandi sostenitori della mammografia annuale per le donne sopra i 40 anni e continuano a insistere sul potere salvifico della diagnosi precoce. Entrambi, poi, ricevono finanziamenti sostanziosi dai costruttori di macchine per la mammografia, quali la GE e la DuPont.
Purtroppo, però, la verità sulla mammografia e sulla diagnosi precoce non è così semplice e netta. La mammografia può anche rilevare precocemente un tumore (sebbene in gran parte dei casi, siano le pazienti stesse a individuarlo), ma non lo previene, né protegge le donne dal cancro. Inoltre, una diagnosi precoce non sempre si traduce in maggiori probabilità di sopravvivenza.
Molte donne cui viene diagnosticato un tumore in sede di mammografia sono affette da tumori a lenta progressione che non sarebbero comunque mortali, mentre altre forme di cancro sono molto aggressive e sarebbero letali indipendentemente dal tempismo della diagnosi. Quindi, come appare, la diagnosi precoce non ha influenza sulle aspettative di vita in nessuno dei due casi. Inoltre, poiché il tessuto della mammella nell’età premenopausale tende ad essere più denso, la mammografia può non essere in grado di rilevare masse sospette. Nelle donne giovani, il tessuto della mammella è poi anche più sensibile ai rischi legati all’esposizione alle radiazioni.
È interessante notare che in nessun altro paese oltre agli Stati Uniti si effettuano screening mammografici prima della menopausa. Secondo l’attivista Jennifer Drew, in Inghilterra si effettuano controlli solo su “donne fra i 50 e i 64 anni che siano registrate presso un medico generico, le quali ricevono una lettera di invito a sottoporsi a un esame mammografico. Si pensa di aumentare il limite d’età ai 70 anni nel 2004. Le donne comprese in tale fascia d’età hanno diritto all’esame gratuito ogni tre anni. Il governo del Regno Unito crede che una volta ogni 3 anni sia sufficiente, in base ai risultati della ricerca medica.” In contrasto rispetto agli Stati Uniti, solo una donna inglese su nove è affetta da tumore della mammella, e lo stesso vale per il Canada, dove il programma di screening prevede controlli ogni due anni dopo i 40 anni. In Australia, solo una donna su undici è colpita da tumore al seno e le donne in età compresa fra 50-69 sono invitate a sottoporsi a mammografia ogni due anni.
Ciò che è forse la cosa più importante da capire è che le probabilità di sopravvivenza si calcolano a partire dal momento in cui il tumore viene diagnosticato. Quindi, se un tumore è diagnosticato nel 2000 e la paziente vive altri 15 anni, le cose non cambierebbero se il tumore venisse diagnosticato nel 2005, perché vivrebbe comunque altri 10 anni e morirebbe comunque nel 2015. In altre parole, una donna potrebbe vivere più a lungo dopo una diagnosi precoce, ma non necessariamente più a lungo in assoluto.
Sembra plausibile che i legami aziendali a organizzazioni come la ACS e la Komen abbiano un ruolo significativo nel determinare le raccomandazioni e il modo in cui si utilizzano i fondi di cui queste associazioni sono beneficiarie, e spiegano il perché le attività di finanziamento pendono così evidentemente verso la diagnosi e la terapia farmaceutica. È indubbio che si siano finanziati numerosi progetti utili, ma la realtà resta che le donne, troppe donne, continuano a morire di cancro al seno e che ancora non sappiamo né perché né come impedirlo.
Ciò che è chiaro è che è veramente ora di rivalutare il tutto, di smetterla di promuovere indiscriminatamente la diagnosi precoce e concentrare molte più risorse per la ricerca sullo studio delle variabili ambientali in cui il cancro al seno insorge e su terapie efficaci per le donne che ancora sono sprovviste di cura. Come indica il raffronto fra le raccomandazioni a proposito della mammografia e l’incidenza del cancro in altri paesi, bisogna porsi alcune domande sui benefici reali della campagna di screening precoce e così frequente in questo paese e su quali altri fattori determinino un’incidenza più elevata di questo tumore nel nostro paese. Occorre anche stabilire in modo più esauriente il ruolo degli inquinanti ambientali e delle sostanze ad attività estrogena sull’incidenza del tumore della mammella.
Dovremmo quindi sostenere con maggior entusiasmo progetti di ricerca quali quello della dottoressa Susan Love sui condotti lattiferi, che sono la sede di inizio del tumore della mammella. Dobbiamo anche concentrare gli sforzi sul tentativo di capire altri fattori, ad esempio il contributo degli antibiotici all’insorgenza della malattia, o della chirurgia stessa alla diffusione del cancro. Anzitutto, però dobbiamo garantire che le decisioni politiche siano prese nel miglior interesse delle donne la cui vita è messa in pericolo dal tumore, e non a beneficio del profitto aziendale.
Lucinda Marshall
Fonte: www.countercurrents.org
Link: http://www.countercurrents.org/us-marshall021005.htm
2.10.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di RAFFAELLA GRASSELLI
Note:
1. “State of the Evidence: What is the Connection between the Environment and Breast Cancer”, a cura di Nancy Evans, Breast Cancer Action e Breast Cancer Fund, 3^ edizione, 2004.
2. “Breast Cancer Month Spurs Pink-Product Debate” di Rebecca Vesely, Women’s Enews, 21.10.2004.
3. “The Marketing of Breast Cancer” di Mary Ann Swissler, Alternet, 16.09.2002.
4. “The Marketing of Breast Cancer” di Mary Ann Swissler, Alternet, 16.09.2002.
5. Per approfondimenti su questi temi:
Breast Cancer Fund
Breast Cancer Action
°Lucinda Marshall è un’artista, scrittrice e attivista femminista. È fondatrice del Feminist Peace Network, www.feministpeacenetwork.org. Ha pubblicato numerosi articoli in diverse pubblicazioni americane ed estere, fra le quali Awakened Woman, Alternet, Dissident Voice, Off Our Backs, The Progressive, Rain and Thunder, Z Magazine, Common Dreams e Information Clearinghouse.