LA BORSA PETROLIFERA DELL'IRAN NON E' UN CASUS BELLI…

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blankDI F. WILLIAM ENGDAHL

Ultimamente sono apparsi molti articoli che riportavano la tesi secondo la quale l’annunciato piano del governo di Teheran di istituire, probabilmente già da questo mese, una Borsa Petrolifera, è il vero motivo che si nasconde dietro ai progetti di guerra all’Iran da parte delle forze anglo-americane. Secondo la mia opinione, questa tesi è sbagliata per molte ragioni, non ultima delle quali il fatto che una guerra contro l’Iran è pianificata sin dagli anni 90, ed è parte integrante della Grande Strategia Mediorientale degli Stati Uniti.
Cosa ancora più importante, la Borsa Petrolifera è il classico specchietto per le allodole (in originale “red herring” – “aringa rossa” -, il tentativo intenzionale di confondere o distrarre l’interlocutore per condurlo su una falsa pista. Il nome deriva dall’usanza di affumicare le aringhe per fuorviare i cani attratti dall’odore. N.d.T.), usato per sviare l’attenzione dai reali piani geopolitici che condurrebbero ad una possibile guerra, e che sono già stati esaminati su questo sito e da un mio articolo, “Calcolare i rischi di una guerra in Iran”, pubblicato su GlobalResearch.ca il 29 gennaio 2006.
Nel 1996, Richard Perle e Douglas Feith, due neoconservatori che più tardi avrebbero avuto un ruolo fondamentale nella formulazione della politica mediorientale dell’amministrazione Bush, firmarono un documento indirizzato all’allora neo-eletto Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Questa relazione, dal titolo “Un Taglio Netto: una Nuova Strategia per Rendere il Dominio Sicuro”, esortava Netanyahu ad operare un “taglio netto nel processo di pace”. Inoltre invitava il Primo Ministro a rinforzare le difese di Israele in modo da poter contrastare con più fermezza Siria e Iraq, e tenere sotto controllo l’Iran, paese sostenitore della Siria.

Più di un anno prima di lanciare l’Operazione Shock and Awe (Colpisci e Terrorizza) contro l’Iraq, il presidente Bush, nel suo oramai tristemente noto discorso al Congresso sullo Stato dell’Unione del gennaio 2002, aveva marchiato il trittico Iran, Iraq e Corea del Nord come “L’Asse del Male”. Tutto questo accadeva ben prima che a Teheran si iniziasse solo a considerare la possibilità di fondare una borsa petrolifera per poter commercializzare il petrolio in differenti valute.

Il ragionamento portato avanti da coloro che sono convinti che la Borsa Petrolifera di Teheran possa essere il casus belli, il pretesto per portare Washington alla potenziale distruzione termonucleare dell’Iran, sembra basarsi sull’assunto che vendendo liberamente petrolio ad altre nazioni e a compratori in Euro, Teheran innescherebbe una catena di eventi per cui nazione dopo nazione, compratore dopo compratore, si arriverebbe ad acquistare petrolio non più in dollari USA, ma solo in euro. Il risultato sarebbe, secondo questa teoria, una frenetica corsa alla vendita di dollari, panico nei mercati azionari di tutto il mondo e il crollo del ruolo del dollaro come valuta di riserva, uno dei “Pilastri dell’Impero”. Ed ecco che il Secolo Americano andrebbe improvvisamente a rotoli, grazie alla Borsa Petrolifera Iraniana…Ma la realtà è un po’ diversa.

Alcune considerazioni di fondo

Questa teoria stenta ad essere convincente per svariate ragioni. Innanzitutto le argomentazioni, almeno nel caso di uno dei teorici della Borsa Petrolifera, si basano su un’errata interpretazione del processo che ho descritto in un mio libro, Un Secolo di Guerra, che riguardava la creazione nel 1974 del “riciclaggio di petrodollari”, sulla scia dell’impennata del 400% del prezzo del petrolio orchestrato dall’OPEC, processo in cui l’allora Segretario di Stato Usa Henry Kissinger era pesantemente coinvolto.

Non fu dunque il dollaro a trasformarsi in “petrodollaro”, nonostante Kissinger parlasse di “riciclaggio di petrodollari”. In realtà, egli si riferiva all’inizio di una nuova fase dell’egemonia globale statunitense, nella quale i “petrodollari” guadagnati dai paesi dell’OPEC attraverso l’esportazione di petrolio sarebbero stati riversati nelle casse delle più grandi banche di New York e Londra, e quindi ri-prestati sotto forma di dollari a paesi distrutti dalla crisi petrolifera, come Brasile e Argentina, dando di fatto origine a quella che verrà conosciuta come la Crisi Debitoria Latino Americana.

A quell’epoca, il dollaro era una moneta priva di valore (fiat currency – moneta di produzione statale valida per decreto, priva di valore intrinseco. N.d.T.) fin dall’agosto del 1971, cioè da quando il presidente Richard Nixon aveva abrogato il Trattato di Bretton Woods (abbandonando la convertibilità del dollaro in oro e tutti i correlati tassi di cambio fissi. N.d.T.) e rifiutato quindi di riscattare con lingotti d’oro i dollari USA depositati nelle banche centrali straniere. Il dollaro iniziò così una serie di fluttuazioni nei confronti delle altre maggiori valute, più che altro in calando, fin quando non fu riportato in vita dal ciclone provocato dallo shock petrolifero del 1973-74.

La crisi del 1973 regalò ad un dollaro agonizzante un improvviso incremento della domanda globale da parte di quelle nazioni che dovevano fare i conti con un prezzo del petrolio di importazione aumentato del 400%. A quel tempo, per una convenzione del dopoguerra e per convenienza, come il dollaro era l’unica valuta di riserva riconosciuta in tutto il mondo insieme all’oro, allo stesso modo, per esigenze pratiche, il prezzo del petrolio veniva stabilito dai membri dell’OPEC in dollari.

Quell’impennata dei prezzi fornì a paesi come la Francia, la Germania, il Giappone o altri importatori un ottimo pretesto per cercare di acquistare il petrolio nelle loro rispettive valute nazionali, in modo da diminuire la pressione provocata dal rapido decremento del valore delle loro riserve di dollari di scambio. Il Tesoro degli Stati Uniti e il Pentagono erano sicuri che ciò non sarebbe successo, sia per la diplomazia segreta di Kissinger, basata sulle minacce, sia per il gigantesco accordo militare stipulato con il paese-chiave dell’OPEC, l’Arabia Saudita. A quel punto fu inevitabile vedere l’ultimo Scià dell’Iran in visita a Washington come un vassallo di Kissinger.

Il nocciolo della questione non è che il dollaro divenne una petro-valuta, ma che lo status di valuta di riserva del dollaro, ora soltanto una moneta cartacea, venne ripristinato dall’incremento del 400% della richiesta mondiale di dollari, necessari per poter comprare il petrolio. Ma questa è solo una parte della storia. Nel 1979, in seguito all’ascesa al potere dell’Ayatollah Khomeini in Iran, il prezzo del petrolio schizzò alle stelle per la seconda volta in sei anni, ma paradossalmente, quello stesso anno, il dollaro invece di salire, iniziò una rovinosa caduta libera. Non era più tempo di “petrodollari”.

I possessori stranieri di dollari iniziarono a disfarsene, in segno di protesta verso la politica estera dell’amministrazione Carter. Fu proprio il dover far fronte a quella crisi a costringere Jimmy Carter a nominare Paul Volcker a capo della Federal Reserve, nel 1979. Nell’ottobre del ‘79, Volcker diede un altro grosso impulso al dollaro, innalzando i tassi di interesse negli Stati Uniti fino a un massimo del 300% in poche settimane, e poi lasciandoli liberi di fluttuare. La conseguenza fu che i tassi di interesse di tutto il mondo furono obbligati a subire un enorme incremento, innescando così una recessione globale che provocò disoccupazione di massa e miseria. Naturalmente questo provvedimento “salvò” il dollaro, che ridivenne l’unica e sola valuta di riserva; non era però più il “petrodollaro”: era la moneta di emissione della più grande Superpotenza mondiale, una Superpotenza decisa a fare tutto ciò che sarebbe stato necessario per mantenere lo status quo.

I dollari sostenuti dagli F-16

Dal 1979 in poi, l’establishment del potere statunitense, da Wall Street a Washington, ha fatto di tutto per mantenere lo status di incontestata valuta di riserva globale del dollaro. Questo, tuttavia, non è un ruolo puramente economico. Lo status di valuta di riserva è solo un tassello nel quadro del potere globale, e fa parte della determinazione degli Stati Uniti a dominare le altre nazioni e a controllare i processi economici mondiali. Gli USA non hanno raggiunto questo status attraverso un voto democratico delle altre banche centrali del mondo, ma facendo come l’Impero Britannico nel 19° secolo: scatenando guerre.

Perciò, il potere del dollaro è strettamente legato al ruolo rivestito dagli Stati Uniti, unica e indiscussa superpotenza militare mondiale. In un certo senso, dal 1971, da quando cioè non è più sostenuto dall’oro, il dollaro è sostenuto dai caccia F-16 e dai carri armati MI Abrams, che operano in oltre 130 basi statunitensi sparse in tutto il mondo, a difesa della libertà.

La sfida dell’Euro?

Affinchè l’euro possa iniziare a sfidare l’egemonia del dollaro USA, Eurolandia dovrebbe virtualmente rivoluzionare le proprie linee politiche. Innanzitutto la Banca Centrale Europea, l’organismo istituzionalizzato e antidemocratico creato dal Trattato di Maastricht allo scopo di preservare il potere delle banche creditrici di riscuotere i crediti, dovrebbe cedere i propri poteri ai legislatori. Quindi dovrebbe accendere le sue presse tipografiche e stampare euro a volontà, senza pensare al domani, perché l’attuale dimensione del mercato obbligazionario controllato dal governo di Eurolandia è ancora troppo ristretta se confrontata col gigantesco mercato del Tesoro degli Stati Uniti.

Come ha spiegato Michael Hudson in un suo brillante e poco considerato lavoro, intitolato ‘Super Imperialismo’, il perverso colpo di genio dell’egemonia globale del dollaro, è stato quello di prendere atto, nei mesi successivi all’agosto del 1971, che in un sistema monetario statale, il potere statunitense era strettamente legato alla creazione di un debito. La conclusione è quindi che il debito e il deficit commerciale degli Stati Uniti non costituiscono il “problema”, ma la “soluzione”.

Gli USA avrebbero potuto stampare una quantità infinita di dollari per pagare le importazioni di Toyota, Honda, BMW o qualsiasi altro bene, in un sistema nel quale i loro partner commerciali, possedendo dollari di carta per le loro esportazioni, avevano una tale paura di un crollo del dollaro da continuare a sostenerlo, comprando buoni e obbligazioni del Tesoro degli Stati Uniti. Non per niente, nei trent’anni successivi all’abbandono della convertibilità del dollaro in oro da parte degli USA, le riserve di dollari sono aumentate di un incredibile 2.500%, e tuttora continuano a crescere con tassi a doppia cifra.

Questo sistema è proseguito indisturbato negli anni ottanta e novanta. La politica statunitense era un misto di crisi amministrative unite ad un’abile e coordinata ostentazione della sua potenza militare. Negli anni ottanta il Giappone, spaventato dall’idea di contrapporsi a chi gli forniva l’ombrello nucleare, acquistò un’infinità di buoni del Tesoro degli Stati Uniti, nonostante sapesse che nell’operazione avrebbe perso una quantità esorbitante di denaro. Fu una decisione politica, non certo un investimento.

L’unica potenziale sfida al ruolo di riserva del dollaro arrivò alla fine degli anni 90, con la decisione da parte dell’Unione Europea di creare una moneta unica, l’Euro, amministrata da una sola banca centrale, la Banca Centrale Europea (BCE). L’Europa sembrò essere finalmente unificata, una voce politicamente indipendente in quello che allora Chirac definì un mondo multi-polare. Le illusioni di multipolarismo svanirono però con la decisione poco reclamizzata, presa dalla BCE e dalle banche centrali nazionali, di non condividere le rispettive riserve auree in modo che fossero di supporto alla nuova moneta. Questa decisione giunse nel bel mezzo dell’infuocata controversia relativa all’oro dei nazisti e ai dichiarati abusi commessi durante la guerra da Germania, Svizzera, Francia e altri paesi europei.

Dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 e la conseguente dichiarazione di Guerra Globale al Terrorismo da parte degli Stati Uniti, unita alla decisione unilaterale di ignorare le Nazioni Unite e la comunità internazionale, e procedere ad una guerra contro una nazione indifesa come l’Iraq, ben pochi paesi hanno avuto il coraggio di sfidare l’egemonia del dollaro. Oggi, la somma delle spese per la difesa di tutte le nazioni dell’UE impallidisce al confronto con le attuali spese, preventivate e non, per la difesa degli Stati Uniti: l’esborso nell’anno fiscale 2007 raggiungerà la sconcertante cifra ufficiale di 663 miliardi di dollari, mentre il totale di spesa dei paesi dell’UE raggiungerà a malapena i 75 miliardi di dollari, con tendenza a diminuire, in parte a causa della pressione esercitata dalla BCE sul deficit dei vari governi.

Quindi, almeno fino ad ora, nulla indica che il Giappone, gli stati dell’Unione Europea o altri possessori di dollari stiano pensando ad una liquidazione del loro patrimonio in dollari. Nemmeno la Cina, per quanto possa essere infastidita dalla proterva politica degli Stati Uniti, dà l’impressione di essere ansiosa di ridestare la furia del drago americano.

Le origini della Borsa Petrolifera

L’idea di creare una piattaforma di scambio in Iran per commerciare petrolio e per creare un nuovo prezzo di riferimento per il greggio, sembrerebbe venire dall’ex direttore del London International Petroleum Exchange, Chris Cook. In un suo articolo del 21 gennaio, apparso sul sito Asia Times, Cook descriveva la genesi di quest’idea, e ricollegandosi ad una lettera da lui scritta nel 2001 al Governatore della Banca Centrale Iraniana, il dott. Mohsen Nourbakhsh, riportava i suoi consigli:

In quella lettera facevo notare che l’attuale struttura del mercato petrolifero globale favorisce enormemente gli intermediari, in particolar modo le banche di investimento, e che, sia i consumatori che i produttori come l’Iran, vengono notevolmente penalizzati. Suggerivo dunque all’Iran di prendere in considerazione con una certa urgenza la possibilità di creare una borsa valori dell’energia in Medio Oriente, e soprattutto un nuovo prezzo di riferimento per il petrolio del Golfo Persico.

Ho assistito dunque, con amaro divertimento, alla vasta diffusione via Internet del mito secondo cui il motivo all’origine del progetto di “Borsa Iraniana” sarebbe la volontà di far crollare il dollaro americano, stabilendo i prezzi del petrolio in euro.

Come chiunque abbia una certa familiarità con l’OPEC (Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio) saprà, la denominazione del prezzo del petrolio in valute diverse dal dollaro non è un argomento nuovo, e chiunque sappia qualcosa delle regole economiche potrà confermare che stabilire il prezzo del petrolio non è una questione puramente transazionale: la cosa importante è in quale attivo (o, nel caso degli Stati Uniti, passivo) questi proventi vengono successivamente investiti.

Una vera e totale sfida allo strapotere del dollaro, implicherebbe ‘de facto’ una dichiarazione di guerra all’odierno “dominio a largo spettro” degli Stati Uniti, e i potenti membri del Consiglio della BCE lo sanno bene, così come i capi di stato dei paesi dell’Unione Europea. Idem per la Cina, il Giappone, l’India, e Vladimir Putin.

Fino a quando le potenze Eurasiatiche non si uniranno per lanciare una sfida all’indiscusso dominio dell’unica superpotenza rimasta al mondo, non vi sarà alcuna speranza che l’Euro, lo Yen o lo Yuan cinese possano anche solo tentare di contrastare il ruolo egemone del dollaro. E’ una questione di importanza vitale, così come altrettanto vitale è cercare di capire le reali dinamiche che stanno spingendo il mondo sull’orlo di una possibile catastrofe nucleare.

Una piccola nota finale. Un mio caro amico di Oslo mi ha recentemente inviato un articolo apparso sulla stampa norvegese. Alla fine del dicembre scorso, Sven Arild Andersen, direttore della Borsa di Oslo, ha annunciato di averne abbastanza della dipendenza dalla Borsa petrolifera di Londra, che commercia petrolio solo in dollari. La Norvegia, continua Andersen, uno dei maggiori produttori di petrolio, poiché vende gran parte del suo petrolio ai paesi dell’Unione Europea, dovrebbe istituire una propria borsa petrolifera e commerciare il suo petrolio soltanto in euro. Che la Norvegia, membro NATO, diventi il prossimo obiettivo dell’ira del Pentagono?

F. William Engdahl è condirettore del Global Research Contributing, e autore del libro ‘Un Secolo di Guerra: La Politica Petrolifera Anglo-Americana e il Nuovo Ordine Mondiale’ Pluto Press Ltd. Può essere contattato tramite il suo sito web www.engdahl.oilgeopolitics.net.

10 marzo 2006
© Copyright F. William Engdahl, GlobalResearch.ca, 2006
Link: GlobalResearch.ca

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIUSEPPE SCHIAVONI

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