DI WILLIAM NORMAN GRIGG
Lewrockwell.com
La bolla del dominio USA-israeliano in Medio Oriente scoppierà non appena finirà l’egemonia globale del dollaro di carta.
Come succede ogni volta che Israele conduce un’importante campagna militare, l’assalto continuo dell’IDF su Gaza – che ha annientato centinaia di non combattenti, bambini compresi – ha fatto spuntare i fanatici come funghi.
Un esemplare particolarmente rinomato ha confezionato il messaggio trasmesso dall’attacco israeliano contro Hamas in termini che potrebbero risuonare fra gli anti-semiti più estremi: “Do not f**k with the Jews.”
Quel parere non è stato tirato fuori da un neonazi o da qualcun’altro contagiato da simili ossessioni. Era Martin Peretz, il redattore capo di The New Republic, l’auto-investitasi autorità in materia di etichetta etnica, e pigmalione accademico di Al Gore ai tempi di Harvard, che ha benedetto la blogosfera con tale saggezza così elegantemente espressa.
Ciò che Peretz ha scritto avrebbe potuto abbastanza facilmente uscire dalle labbra o fluire dalle dita di David Duke o di qualcun’altro con le sue convinzioni. Se così fosse successo, Peretz – dalla cui attenta sorveglianza nessuna figura pubblica è esente, neppure sua preziosa maestà il principe Alberto – avrebbe probabilmente accusato l’autore di trafficare in spiacevoli stereotipi riguardanti il “potere ebreo.” Ma Peretz stesso è ossessionato da quell’argomento, almeno per quanto concerne il potere esercitato dal governo israeliano – che apparentemente considera l’incarnazione dell’identità collettiva ebraica.
Peretz è fissato sulla conservazione del potere dello Stato israeliano. E come il giornalista di sinistra Eric Alterman ha osservato in un profilo critico, le opzioni politiche preferite da Peretz “quasi sempre [significano] più guerra” – non solo fra Israele ed i palestinesi, o Israele e un vicino non sufficientemente docile, ma anche tra Washington e qualsiasi nemico di Israele che sia visto come un po’ troppo grande perché il governo israeliano possa occuparsene da solo. E come molti altri commentatori che condividono le sue priorità, Peretz è stato attento a limitare la sua partecipazione alle guerre di ogni genere al ruolo dello spettatore.
Rush Limbaugh dichiarò notoriamente che il femminismo è stato inventato “per concedere a donne non attraenti l’accesso al cuore della società.” Similmente sembra a volte come se il sionismo fosse degenerato in poco più di una celebrazione vicaria del militarismo israeliano, offrendo così a dei meschini pallidi e mosci come Martin Peretz, Bill Kristol e Michael Medved il modo per indulgere nella loro fantasia di essere dei duri.
La gente di questo genere non vive in Israele né serve nell’esercito di alcuna nazione, così da non doversi occupare direttamente della sanguinosa faccenda delle guerre che istigano e applaudono. Dalla confortevole distanza di svariate migliaia di miglia e di due continenti macinano fuori della retorica da pseudo-duri dalle tastiere del computer, o piantano i loro ben nutriti culi sulle comode sedie degli studi televisivi o radiofonici ed eruttano compiaciute omelie circa la virtù di spedire i figli altrui ad uccidere e morire a nome di uno Stato lontano e assolutamente malfamato.
Un paio d’anni fa, avventurandomi con una certa riluttanza in un soggetto che non avrei trattato non vi fossi stato costretto, presentai una prospettiva da outsider sul sionismo, così come su due tipi di giudaismo:
Il giudaismo religioso, come la vedo io, è concentrato nel culto di Dio. Il testo che lo definisce è stato consegnato sul Sinai.
Il giudaismo culturale, al contrario, è basato sul culto di un popolo. Ha molto meno a che fare con il Sinai che con Seinfeld.
Il sionismo, che deriva da entrambe le cose, è il culto di uno Stato politico.
Il sionismo, che ebbe inizio come un movimento secolare collettivista del diciannovesimo secolo, è venuto a definire non solo la visione ebraica della politica e della religione, ma è la prospettiva dominante all’interno di gran parte della Cristianità Evangelica. Ha impiantato gli assiomi che governano qualsiasi discussione sugli affari del Medio-Oriente nelle cerchie politiche sia religiose che secolari.
Tuttavia c’è poca o nessuna comprensione per il letale paradosso che il sionismo rappresenta per i responsabili della sopravvivenza del popolo ebraico: il movimento ha dato vita ad uno Stato ebraico presumibilmente per fornire un rifugio per il popolo ebreo, tuttavia gli israeliani godono di una rischiosa esistenza come cittadini di ciò che è descritto di regola come un minuscolo paese del Medio Oriente perpetuamente in pericolo.
“Per 2.000 anni,” osserva Charles Krauthammer, “gli ebrei hanno trovato protezione nella dispersione – protezione non per le diverse comunità, che sono state regolarmente perseguitate e massacrate, ma protezione per il popolo ebraico nel suo complesso. Decimati qui, potevano sopravvivere là…. Hitler mise termine a quell’illusione. Dimostrò che l’antisemitismo moderno unito alla tecnologia moderna – ferrovie, burocrazie disciplinate, camere a gas che uccidono con efficienza industriale – poteva catturare un popolo disperso e ‘concentrarlo’ per l’annientamento.”
La “crudele ironia storica” dell’Israele moderno, continua Krauthammer, è che la creazione dello Stato ebraico “richiese la concentrazione – rimettere tutte le uova nello stesso cestino, un minuscolo territorio bagnato dal Mediterraneo, largo otto miglia. Un obiettivo tentatore per coloro che vorrebbero finire il lavoro di Hitler.”
La vulnerabilità demografica e geografica di Israele è invocata costantemente da coloro che credono che il governo degli Stati Uniti – e, pertanto, il popolo dal quale quell’entità saccheggia le necessarie risorse – debba, per una questione di dovere morale, assicurare la sopravvivenza dello Stato ebraico.
Il corollario non detto a quella richiesta – in effetti, non è altro che un delitto discutere tali corollari in pubblico, almeno qui nella presunta Land of the Free – è che gli ebrei sono in pericolo unicamente vivendo in Israele. Questo significa che Israele può essere in realtà una passività netta per il popolo ebraico, così come un peso evitabile per il pubblico americano in generale.
Sono agnostico per quanto riguarda l’affermazione che lo Stato d’Israele, come attualmente esiste, sia l’adempimento dei pii desideri degli antichi profeti e martiri. Ma sono convinto al punto della certezza morale che Israele non abbia alcun diritto legittimo sui soldi delle nostre tasse o sul nostro aiuto militare, e che le sovvenzioni di Washington ad Israele siano state un puro disastro sia per Israele che per la regione.
Il flusso continuo di aiuti finanziari e materiali in Israel
e ha generato una forma eccezionalmente dannosa di azzardo morale. L’importo del sussidio aumenta in proporzione alla minaccia percepita in Israele. Allo stesso tempo, Washington distribuisce con parsimonia sussidi “alla direzione palestinese,” generalmente favorendo i peggiori e più corrotti elementi tra quella popolazione. I dollari delle nostre tasse sono inoltre usati per spandere sussidi di governi come l’Egitto, la Giordania, il Pakistan e, naturalmente, l’Iraq “liberato.”
Elargizioni di questo genere sono giustificate come parte del “processo di pace,” ma in realtà creano un perverso incentivo per sostenere la violenza, o almeno la minaccia di essa: se la pace dovesse davvero realizzarsi, la logica per quei sussidi sparirebbe.
In un certo senso il sussidio di Washington ad Israele è analogo ad esempi da museo di stupidità governativa come il programma di assicurazione contro le inondazioni della FEMA, che incoraggia la gente a costruire case in pianure alluvionali, o il ruolo svolto dalle entità sponsorizzate dal governo quali Fannie Mae e Freddie Mac nella sottoscrizione ed assicurazione di mutui ipotecari difettosi. Tutti quei programmi sovvenzionano il comportamento rischioso e socializzano i costi quando quel comportamento conduce al disastro.
L’escursione militare punitiva di Israele a Gaza è uno splendido esempio dello stesso genere di stoltezza sovvenzionata, questa volta negli affari internazionali invece che domestici.
Gaza è il campo di prigionia più grande del mondo; un embargo israeliano impedisce agli abitanti di Gaza di ottenere la maggior parte delle necessità della vita. Governati un tempo dal partito Fatah di Yasser Arafat, gli abitanti di Gaza sono ora governati da Hamas, “un movimento di indipendenza” dominato da terroristi che è stato creato con l’aiuto dell’intelligence israeliana per fare da “contrappeso” al movimento di Arafat.
Intermittenti lanci di razzi in Israele dei membri di Hamas hanno fornito il pretesto per l’attuale guerra israeliana contro Gaza. Questi attacchi non sono “resistenza” al soffocante blocco di Gaza del governo israeliano; sono cinici e odiosi attacchi terroristici contro i cittadini israeliani – eseguiti, ironicamente, da elementi di un movimento creato e sostenuto dallo stesso governo israeliano.
Il governo israeliano e i suoi difensori descrivono gli attacchi di razzi di Hamas come violazione di un accordo di cessate il fuoco e, pertanto, di una prova che la popolazione di Gaza è incorreggibilmente votata alla violenza. Ma l’attuale campagna israeliana è stata progettata più di sei mesi fa – persino prima che il cessate il fuoco entrasse in effetto. Se Hamas non fosse stata abbastanza stupida da lanciare una manciata di largamente inutili razzi in Israele, sarebbe stato organizzata qualche altra provocazione per giustificare l’invasione di Gaza.
I principi della guerra giusta non richiedono una risposta rigorosamente proporzionale ad un attacco. Tuttavia, c’è un punto in cui l’azione punitiva intrapresa come autodifesa si trasforma in aggressione e l’aggressione si trasforma in un massacro.
In questo caso, l’esercito israeliano sta intraprendendo una guerra chiaramente indiscriminata contro una popolazione civile impotente. E questo viene fatto come parte di una missione punitiva che non eliminerà, né ridurrà significativamente, la capacità di Hamas di eseguire lanci di razzi a malapena dannosi in Israele – un fatto che almeno alcuni sostenitori dell’azione israeliana considera come prova dell’insufficiente spietatezza dell’IDF.
Muovere guerra in questo modo è politicamente vantaggioso per gli elementi sia del governo israeliano che della direzione palestinese. Ciò riflette una simbiosi durevole e attentamente celata, descritta da Ben Cramer nel suo libro immensamente importante How Israel Lost.
Un’immagine di quella simbiosi menzionata da Cramer è la creazione da parte del Mossad di Hamas, che ha consolidato il culto degli attacchi suicidi ed ha ucciso centinaia di israeliani dal 1988. Anche se questo è stato fatto presumibilmente per fornire un “contrappeso” ad Arafat, l’establishment israeliano ha mantenuto legami intimi anche con lui – perfino mentre gli israeliani ed i palestinesi stavano morendo a centinaia in un presunto conflitto irreprimibile.
“I viscidi affari dell’Autorità Palestinese si intersecano con gli affari israeliani ai più alti livelli della vita politica israeliana,” ha scritto Cramer con palpabile disgusto. “Le cose non sono come sembrano.”
Cramer ha illustrato questa cinica “comprensione” evidenziando il rapporto fra la Dor Energy di proprietà israeliana ed il monopolio palestinese del carburante guidato dall’OLP. Il deposito di petrolio della Dor era un grande, ben visibile obiettivo sul confine con Gaza, rifornito ad intervalli regolari e prevedibili dalle grandi e lente autocisterne. In qualsiasi dei numerosi attacchi militari israeliani su Gaza, sia il deposito che i camion sarebbero obiettivi irresistibili. Tuttavia, a causa dell’accordo organizzato fra gli agenti del potere in ambo i lati del conflitto, né il deposito, né alcuna delle autocisterne sono stati mai colpiti.
Di gran lunga “l’accordo” più lucrativo, spiega Cramer, è il conflitto israelo-palestinese in sé, in cui gli scoppi di violenza sono cronometrati per servire gli interessi politici dei leader da ambo i lati.
Prima della sua morte nel novembre 2004, la popolarità di Arafat “nei sondaggi d’opinione [avrebbero spesso] oscillato vicino al nulla – all’invisibilità – fino al suo salvataggio con un’azione israeliana contro di lui,” nota Cramer. Lo stesso era vero per Ariel Sharon: “se i suoi sondaggi calavano, qualche cosa di terribile sarebbe accaduto: ebrei morti dappertutto in TV,” e le sue fortune politiche sarebbero aumentate.
Esattamente lo stesso cinico gioco è ora in corso nell’ultimo bagno di sangue a Gaza. Il conflitto attuale, ricordate, è stato progettato sei mesi fa, e viene giocato per dei vantaggi politici dall’incombente governo israeliano.
Una volta che si è compreso che il sanguinoso conflitto israelo-palestinese è, per alcuni versi, un esercitazione secondo copione analogo ad un “incontro” di wrestling professionista – anche se su una scala molto più grande, con ferite e morte reali – allora è facile capire perché la pace sia così incerta. Gli incaricati dello Stato israeliano e coloro che aspirano a guidare l’embrionale Stato palestinese, semplicemente trovano il conflitto politicamente e materialmente troppo vantaggioso per abbandonarlo, malgrado gli orrori che infligge sulle vittime del loro malgoverno.
“Perché non c’è la pace?” chiede Cramer. “Chi la vuole?”
È impossible immaginare come questa micidiale sciarada potrebbe continuare senza l’intervento finanziario e materiale di Washington. Se gli Stati Uniti facessero ciò che la nostra costituzione e i nostri principi fondanti richiedono – ritirare tutte le sovvenzioni e il sostegno a entrambi i lati del conflitto – i perversi incentivi che muovono gran parte di questo conflitto verrebbero rimossi.
Il ritiro degli Stati Uniti non minimizzerebbe le antiche rimostranze etno-religiose, o quelle più recenti radicate nell’espropriazione dei palestinesi. Ma obbligherebbe gli antagonisti a fare dei conti più realistici dei costi reali del conflitto, il che potrebbe spingerli a fare quel tipo di aperture materiali a denti stretti, zoppicanti, dolorosamente riluttanti, che alla fine conducono alla pace.
Naturalmente, il ritiro americano accadrà comunque quando la distruzione del dollaro sarà completata, un fatto che non dovrebbe sfuggire a chi è interessato alla sopravvivenza di Israele. La capacità di quella nazione di dominare militarmente i propri rivali è l’equivalente geostrategico di una bolla d’investimento particolarmente perniciosa, una bolla che ha distorto le priorità d’Israele e l’ha scoraggiata dal creare una struttura di sicurezza su presupposti che non coinvolgono il potere di leveraging degli Stati Uniti a suo favore.
La bolla del dominio USA-israeliano in Medio Oriente scoppierà non appena finirà l’egemonia globale del dollaro di carta.