DI CARLO GAMBESCIA
Non si può certo difendere un regime che, come accade, ordina ai suoi sgherri di sparare su una folla di monaci indifesi. La Birmania, o Myanmar (secondo l’attuale denominazione) è un paese privo di libertà, almeno nel senso in cui la intendono le organizzazioni internazionali votate a promuovere i valori dell’Occidente.
Ma per liberarsi, una volta per sempre, dei militari, unica istituzione sociale esistente insieme alla “chiesa buddista”, sarebbe necessaria una struttura sociale alternativa, che attualmente non esiste.
Che cosa vogliamo dire? Che le rivoluzioni democratiche e liberali implicano la presenza di un ceto borghese e di una società civile: due fattori sociali che in Birmania praticamente non esistono. Pertanto la caduta di un pessimo regime militare, favorirebbe quei gruppi di pretoriani più favorevoli a una specie di democrazia controllata, ma sempre reversibile.Qualche dato a conforto nelle nostre tesi (rinvenibile in qualsiasi buona enciclopedia aggiornata): il 75 % della popolazione birmana (circa 45 milioni di abitanti) vive di agricoltura; reddito e tasso di sviluppo umano sono tra i più bassi del mondo; il ceto commerciale è costituito da non birmani ( i birmani sono il 69% della popolazione): cinesi, pakistani, tailandesi e indiani. Quanto alla sfruttamento delle risorse naturali (di cui il paese sembra apparentemente ricco) è in crescita l’estrazione del petrolio e la produzione di gas naturali. Si tratta di settori controllati in larga misura dallo stato, che nel caso di privatizzazioni post-regime militare finirebbero in mani straniere, con la stessa complicità delle famiglie di militari, riciclatasi, come di regola avviene, alle attività civili. Dal momento che la famiglia allargata, in senso patriarcale, sembra sia l’unica struttura sociale tra quelle militari e religiose da una parte, e una popolazione dispersa in villaggi rurali dall’altra. I Birmani sono al 90% buddisti (la cui etica sociale, dunque, non è precisamente in linea con i valori individualistici e competitivi dell’Occidente). Inoltre ai suoi confini politici (con Bangladesh, India, Cina, Laos e Thailandia) vivono differenti etnie ( tra le maggiori: Kachin, Karen, nonché i cosiddetti gruppi delle pianure, Shan ), che in una situazione di caos politico, potrebbero trasformarsi in poteri “centrifughi” (o comunque in grado di imporre rinegoziazioni). Anche perché nella parte orientale, in corrispondenza del “triangolo d’oro”, è attivo un settore economicamente forte e collegato alla criminalità internazionale, come quello della coltivazione dell’ oppio.
Insomma, la caduta di quel che moralmente ripugna (una spietata dittatura militare), potrebbe condurre soltanto a una democrazia puramente formale, sempre controllata dai militari (magari da lontano), e dagli importatori di petrolio, gas naturale e oppio (tramite alcune grandi famiglie locali, sempre legate ai militari).
La nostra, ovviamente, non è un’analisi da studiosi di questioni internazionali. Cerchiamo solo di dimostrare sul piano sociologico, che senza prerequisiti e profonde trasformazioni sociali e culturali (che richiedono decenni se non secoli), l’introduzione della democrazia formale, non può portare nell’immediato, alcun vantaggio sostanziale a popoli non occidentali, come quello birmano. Anche la totale apertura al turismo occidentale, finirebbe per essere gestita – vista l’assenza di una imprenditoria birmana – da stranieri, e in particolare da grandi società occidentali. Con tutto quel che seguirebbe dal punto di vista di un’economia satellite, nell’ambito della disgregazione sociale e dello sviluppo di fenomeni come prostituzione, gioco d’azzardo, vendita e consumo di droghe. E una volta avviato uno sviluppo di tipo coloniale (seppure di tipo “postmoderno”), è difficile invertirne la rotta sul piano delle strutture sociali, perché i poteri si ricompongono e solidificano, fino a diventare impermeabili a qualsiasi riforma democratica basata sulla persuasione e la non violenza. Il che, di regola, provoca la nascita di un contropotere militare, lo scoppio di guerre civili, e la formazione di nuove élite militari “rivoluzionarie”, che a loro volta, appena giunte al potere, si solidificano in caste, e così via.
In conclusione, cacciare i militari, in assenza di alternative sociali, paradossalmente, può rendere il popolo birmano, formalmente più libero, ma sostanzialmente ancora più povero e disperato.
Se ci passa l’espressione, ci troviamo davanti a un’autentica tragedia sociologica.
Carlo Gambescia
Fonte: http://carlogambesciametapolitics.blogspot.com/
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28.09.2007