DI PIERO VALERIO
Tempesta perfetta
Quando l’equipaggio di una nave si trova in mare aperto, nel mezzo di una tempesta, e di una Tempesta Perfetta per giunta, l’unica cosa che vorrebbe disperatamente scorgere
all’orizzonte è la luce di un faro.
La salvezza, la terraferma. In Argentina, all’estremità sud del paese, poco più a est della Terra del Fuoco, si trova una piccola isola, quasi uno scoglio in verità, dove c’è un antico faro dal nome evocativo: il Faro della Fine del Mondo.
Poco più in là c’è l’Antartide, con le sue immense distese di ghiaccio, voltandosi indietro si intravedono invece le sconfinate e rigogliose praterie argentine. E in mezzo il Faro.
Un luogo magnifico ai confini del mondo, che non a caso lo scrittore francese di romanzi d’avventura Jules Verne, l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”, ha utilizzato per ambientare uno dei suoi libri meno conosciuti: “Il faro in capo al mondo”. In effetti a partire dal 1991, il faro argentino ha perso il primato di essere quello più a sud del mondo, perché né è stato
costruito uno a Capo Horn in Cile, ma rimane sicuramente il monumento più antico e
famoso, che oggi più che mai rappresenta un vero spartiacque simbolico di civiltà. Una speranza per tutti i naviganti che transitano da quelle parti e sono sommersi e travolti dalle onde
della Tempesta Perfetta globale, senza sapere ancora come venirne fuori e quali strumenti utilizzare per domarla.
In perfetta analogia, l’Argentina guidata dalla presidentessa Cristina Kirchner, così come il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, è diventato un faro, una speranza per quei popoli del mondo, dall’Europa alla Cina passando per gli Stati Uniti, che oggi aspirano a ripristinare un regime democratico al servizio dei cittadini e dei diritti umani, dopo essere stati soppressi e repressi dall’occupazione quasi militare dei tecnocrati, dei faccendieri, dei politicanti, degli elefantiaci apparati dirigisti che lavorano alacremente soltanto per tutelare gli interessi delle lobbies finanziarie, dei comitati d’affari, delle corporazioni multinazionali. Un abisso di distanza in termini di cammino evolutivo della civiltà, che è ancora più accentuato dal fatto che la censura della propaganda di regime dilagante in Europa impedisce a noi cittadini di sapere cosa stia accadendo esattamente in Sudamerica, visto che gli organi di informazione su ordine preciso dei loro potenti committenti hanno completamente tagliato fuori dai circuiti della stampa e della televisione le notizie provenienti da quei paesi. Senza andare troppo per il sottile, il continente sudamericano è stato letteralmente cancellato dalle carte geografiche del mondo, perché i cittadini lobotomizzati e teleguidati d’Europa e degli Stati Uniti non devono sapere nulla dei cambiamenti che stanno avvenendo laggiù. I drastici mutamenti di paradigma rispetto al dogmatismo medievale dell’Occidente, con il loro cattivo esempio, potrebbero infatti spezzare di colpo la catena psicologica su cui si fonda gran parte dell’egemonia totalitarista che ci governa: TINA, There Is No Alternative, non c’è nessuna alternativa alla tecnocrazia neoliberista, si fa come dicono loro e basta. E
invece, al pari di ogni altra questione che coinvolge la vita umana, l’alternativa c’è, eccome se c’è. E si chiama Argentina.
La storia della crisi e successiva rinascita dell’Argentina è abbastanza nota e per certi versi, soprattutto nelle caratteristiche della fase di declino, molto simile a ciò che sta accedendo oggi nell’eurozona. Con il pretesto di creare maggiore stabilità nei rapporti commerciali con l’estero e in particolare con gli Stati Uniti, nel 1991 il governo Menem decide di ancorare il cambio del peso al dollaro, con una scellerata parità fissa di 1:1 che ovviamente apprezzava troppo la moneta argentina rispetto alla valuta statunitense. Il risultato è stato che per un certo periodo di tempo per gli argentini è stato molto conveniente importare prodotti dall’estero prezzati in dollari e questo eccessivo ricorso alle importazioni ha creato un deficit permanente nella bilancia commerciale, che è stato inizialmente compensato dal notevole afflusso di capitali e investimenti esteri. Sull’onda di questa maggiore fiducia e apertura del
governo alle imprese straniere, le multinazionali
americane ed europee strapparono facilmente diverse concessioni per gestire
i servizi essenziali un tempo pubblici, dagli acquedotti all’energia, dall’industria
estrattiva e mineraria alle telecomunicazioni, esportando i profitti in patria,
lontano dall’Argentina, e ponendo le basi per un maggiore indebitamento estero del paese. Sia i titoli finanziari
privati che quelli pubblici argentini, i famigerati Tango Bonds, venivano
piazzati in tutto il mondo assicurando alti rendimenti agli investitori e
fornendo un’illusoria parvenza di stabilità economica del paese. Si trattava però di un equilibrio molto precario e sono bastati gli effetti di contagio della crisi delle borse asiatiche del 1997 per mettere in ginocchio il paese e svelare al mondo la reale insostenibilità del suo straordinario sviluppo economico.
I capitali esteri sui quali si fondava il sostanziale equilibrio contabile della bilancia dei pagamenti cominciano a fuggire dal paese, gli investitori più accorti vendono in fretta i titoli argentini per limitare le perdite e il governo si vede costretto a bruciare notevoli quantità di riserve di moneta estera per mettere in condizione i
debitori di rimborsare i debiti contratti, ad imporre riforme di austerità per rastrellare liquidità dal basso e ad aumentare i tassi di interesse a livelli non più credibili, per favorire l’arrivo di nuovi capitali
dall’estero. Questo circolo vizioso dura fino a dicembre del 2001 quando, sulla spinta delle proteste popolari, il governo decide di dichiarare default sul debito estero denominato in dollari, che ammontava a circa $95 miliardi, e i suoi maggiori rappresentanti sono costretti a scappare in elicottero dal paese per evitare il linciaggio.
Da quel momento in poi si apre una pagina del tutto nuova nella storia dell’Argentina. Nel maggio 2003, dopo la parentesi della presidenza di Eduardo Duhalde durata due anni, viene eletto a capo del paese Nestor Kirchner, che comincia fin da subito un lungo braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare le condizioni di rimborso del debito: l’Argentina vuole ripagare i debiti ma secondo le sue modalità e i suoi tempi e non accettando passivamente le severe scadenze imposte dai creditori. In secondo luogo, con un piano progressivo di ristrutturazione il governo argentino si riappropria della gestione dei servizi pubblici essenziali, estromettendo le multinazionali, per consentire innanzitutto un maggior controllo sui prezzi di erogazione, e questo atteggiamento contrario agli interessi privati dei grandi colossi internazionali inasprisce i rapporti con il FMI, che delle loro logiche predatorie e parassitarie è il tutore a livello globale. A peggiorare ancora di più la situazione, Kirchner avvia politiche sociali per ridurre la povertà e la disoccupazione, cosa anche questa che fa infuriare il FMI, che proprio sulle ampie sacche di povertà e disoccupazione prodotte dalle sue stesse ricette di austerità crea i presupposti per fornire manovalanza a buon mercato per le multinazionali.
Mentre continua senza sosta il duello frontale a distanza fra governo argentino e FMI, la rapida svalutazione del peso rispetto al dollaro seguita al default, che si aggira intorno al 200% con un rapporto di cambio ora più realistico e aderente alle esigenze dell’economia argentina di circa 3 pesos per un dollaro, fornisce intanto un doppio beneficio per la bilancia commerciale del paese: da un lato favorisce le esportazioni e dall’altro rende più costose le importazioni, a tutto vantaggio delle produzioni locali. Lentamente l’Argentina riesce a rimettere ordine nei suoi conti disastrati, anche se bisogna subito sottolineare, come già evidenziato in uno splendido articolo pubblicato sul blog Voci dall’Estero, che non è affatto basata sulle esportazioni la grande ripresa economica dell’Argentina, la quale dura inarrestabilmente dal 2° trimestre del 2002 fino ad oggi. Durante il periodo che va dal 2002 al 2011, lo stesso FMI certifica una crescita
cumulata del PIL argentino del 94%,
che equivale esattamente ad una straordinaria
media annua del 9,4% (al pari se non più della stessa Cina), mentre il contributo delle esportazioni sul PIL cumulato nella fase più forte di espansione (2002-2008) si limita ad un modesto 7,6%, cioè solo il 12% del totale. Troppo poco per essere un fattore realmente decisivo e determinante. Se esaminiamo il grafico sotto possiamo in effetti notare che le esportazioni sono cresciute in valore, ma in relazione al ritmo travolgente di aumento del PIL l’apporto dell’export è diventato sempre più marginale e decrescente e se consideriamo infine il saldo netto fra export ed import avremo addirittura un risultato negativo (importazioni di poco superiori alle esportazioni).
Ciò significa che la violenta accelerazione del PIL argentino è dovuta evidentemente ad altri fattori e in particolar modo proprio ai due elementi che vengono sempre ignorati nei programmi di “austerità espansiva” (un imbarazzante e assurdo ossimoro che circola impunemente nei messaggi rassicuranti della propaganda asservita, perché come stiamo sperimentando sulla nostra pelle, nel mondo reale non ci può essere mai crescita economica quando si tagliano le spese e si aumentano le tasse) promossi in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo dalle orde oscurantiste e dogmatiche di neoliberisti al governo: l’aumento dei consumi e degli investimenti interni (rispettivamente il 45,4% e il 26,4% del totale). Entrambi questi obiettivi sono i più abbordabili da raggiungere per un governo che ha piena disponibilità della sua moneta e di tutte le leve di politica economica, a dimostrazione ancora del fatto che per avvicinare traguardi importanti e ambiziosi spesso bisogna seguire le vie più semplici e dirette, senza complicarsi la vita con gli inutili e pretestuosi tecnicismi inventati di sana piana per confondere le acque e i malsani suggerimenti di cattedratici ampollosi, arroganti, autoreferenziali, corrotti e distanti anni luce dalla realtà della vita quotidiana e dalle esigenze materiali di milioni di individui. Se vuoi aumentare i livelli di spesa, la crescita economica di un paese, devi mettere in condizione cittadini e aziende di spendere e di investire. Chi non capisce questo semplice concetto o è stupido o è stato pagato a sufficienza per far finta di essere stupido.
Ma come si è potuta ottenere in Argentina un’esplosione così travolgente e rapida di tali fattori? Semplice, lo Stato argentino, sotto la guida di Nestor Kirchner prima e della moglie Cristina Fernandez a partire dal 2006, ha ricominciato ad attuare normalissime politiche economiche attive a sostegno della popolazione senza trincerarsi
più dietro il vile arretramento imposto dalle cure indigeste del FMI e soci. Un
esempio evidente è il programma di inserimento “Jefes de Hogar”
(Capi Famiglia), tramite il quale sono stati messi a lavorare nel settore
pubblico, in impieghi socialmente utili e spesso part-time, ben 2 milioni di
disoccupati in un solo anno (il 13% della forza lavoro attiva), che
dall’assenza di mezzi monetari hanno adesso un salario minimo garantito con cui potere soddisfare i bisogni primari del proprio nucleo familiare e programmare gli investimenti
futuri. Il governo argentino ha poi direttamente organizzato progetti a livello
federale, statale e locale e tra questi: grandi investimenti
infrastrutturali e iniziative di riciclaggio, progetti di irrigazione e
rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi
per i senzatetto, biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi di assistenza agli anziani, centri contro la violenza
in famiglia, e molte altre attività sociali. I posti di lavoro così creati nel settore pubblico non solo hanno prodotto reddito, occupazione, rilancio dei consumi e dell’attività produttiva, ma anche qualificazione, istruzione e formazione per tutti i partecipanti, credenziali queste che possono essere rivendute in futuro anche nel settore privato.
Ma come ha potuto il governo argentino finanziare tutte queste attività?
Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: la banca centrale, il Banco Central de la Republica Argentina, ha rinunciato al dogma inutile e controproducente dell’autonomia e indipendenza e si è messa al servizio del governo argentino, finanziando la sua spesa pubblica tramite emissioni di nuova base monetaria (riserve bancarie elettroniche, banconote, monete metalliche). Analizzando i contributi netti al PIL cumulato nel periodo
2002-2011, avremo così che la spesa pubblica si aggira intorno alla considerevole quota del 35%: una cifra importante ma in verità molto inferiore rispetto per esempio alla spesa pubblica annuale in Italia, che supera spesso il 50% del PIL complessivo della nazione. Tuttavia, essendo stata convogliata verso finalità utili e redditizie
e avendo messo soprattutto nuovi mezzi monetari nelle mani di chi per ovvi
motivi ha più tendenza a spendere e consumare rispetto alla sterile tesaurizzazione precauzionale dei risparmi, la spesa pubblica argentina ha subito prodotto effetti positivi di espansione economica a tutti i livelli.
Da notare anche che l’Argentina non si è volontariamente ingabbiata in frustranti vincoli di pareggio di bilancio,
potendo quindi modulare il regime di tassazione progressiva e indiretta
in base a quelle che sono le reali esigenze di contenimento dell’inflazione e mantenimento nel tempo del potere di
acquisto del peso. In Italia invece non solo la spesa pubblica è sproporzionata e spesso inefficiente, ma i cittadini e le aziende sono pure
gravati da un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, che annulla sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in atto politiche espansive. Mentre in Argentina si creano soldi dal nulla e questi soldi vengono spesi nell’economia
reale, in Italia si prendono in prestito soldi dai mercati finanziari da
spendere spesso in modo dissennato e a vantaggio di una ristretta casta di
privilegiati e questi soldi più gli interessi devono essere poi prelevati dalle
tasche dei comuni cittadini, dei lavoratori e delle aziende, con tutte le nefaste e inesorabili
conseguenze che ciò comporta in termini di riduzione dei consumi e degli investimenti.
Preso atto di queste circostanze più politiche che strettamente tecniche e della scelta suicida di sottostare ai mercati finanziari, non esiste allora alcun motivo per stupirsi o
meravigliarsi se in Argentina l’economia continua a crescere mentre in Italia
siamo in profonda recessione. E così strano che scelte tanto distanti fatte a monte dai rispettivi governi si riflettano poi a valle in effetti altrettanto divergenti e contrastanti? Non dovrebbe
essere la semplice matematica a suggerirci che sarebbe andata a finire così?
Fra l’altro il sostegno della banca centrale argentina non si limita soltanto al finanziamento dei piani di spesa pubblica del governo, ma anche ai programmi di ristrutturazione dell’intero sistema economico nazionale, avendo
l’istituto appoggiato le iniziative di nazionalizzazione del settore pensionistico (niente di eccessivamente anormale o sconvolgente perché anche in Italia o in Germania gli enti di previdenza, l’INPS e il Deutsche Rentenversicherung, sono pubblici e nessuno hai mai gridato allo scandalo, accusandoci di statalismo) e delle maggiori imprese di estrazione petrolifera, come nel caso della YPF che prima era in mano alla spagnola Repsol. Queste operazioni del governo argentino sono state necessarie non solo per garantire ai cittadini l’erogazione dei servizi essenziali e la proprietà pubblica delle risorse strategiche, ma anche e soprattutto per difendersi dall’ostilità dei mercati finanziari e dal mancato afflusso di capitali esteri: se i profitti delle multinazionali straniere della finanza e del petrolio se ne vanno all’estero e contemporaneamente nessuno porta nuovi capitali, è chiaro che in assenza di queste drastiche scelte di riappropriazione a tappe forzate delle primarie risorse finanziarie e naturali, l’Argentina sarebbe stata stretta in breve tempo in una nuova morsa dell’indebitamento estero. A parte che bisogna ancora capire cosa ci sia di tanto immorale e sacrilego (agli occhi dei funzionari del FMI e degli squali di Wall Street naturalmente, non
dei nostri) nel garantire ai cittadini di uno stato democratico e civile la continuità di erogazione della pensione, dell’elettricità, del gas, del carburante, visto che le privatizzazioni hanno storicamente arrecato più abusi, inefficienze e rendite di posizione, che reali vantaggi per i consumatori. E poi, non è umanamente più giusto e razionale che i profitti ricavati dalle risorse naturali di un territorio vengano redistribuiti tra i cittadini di quel paese, invece di arricchire i forzieri di pochi soggetti privati e persino stranieri?
Domande davvero pesanti e improrogabili, a cui l’Argentina ha già risposto con fermezza, mentre i nostri governanti farlocchi e mercenari si ostinano ad abbozzare risposte approssimative e balbettanti, non più accettabili come chiusura definitiva e conclusiva del discorso. Si tratta dunque di quel radicale
cambio storico di paradigma di cui abbiamo accennato all’inizio, che l’Argentina sta perseguendo con coraggio e
determinazione e ha già messo in crisi parecchie volte le vecchie e sclerotizzate plutocrazie occidentali, che ancora hanno in patria la necessaria forza politica e finanziaria per tenere sotto scacco interi governi,
sindacati, mezzi di informazione, opinione pubblica. Ma probabilmente il
ribaltamento più interessante e rivoluzionario riguarda appunto lo stesso ruolo della banca centrale, che in
Occidente riveste obblighi di tutela degli interessi privati e di stabilità dei
prezzi, mentre in Argentina ha più decisamente intrapreso la strada della lotta alla disoccupazione e alla povertà,
del sostegno all’economia reale, della stabilità finanziaria nel suo
complesso, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta solo un tassello importante ma non prioritario.
E i risultati raggiunti sembrano fino ad oggi premiare tutte le scelte fatte
dalla banca centrale argentina perché la disoccupazione è scesa dal devastante
54% del 2001 all’8,3% (meno di Italia e Stati Uniti, e nulla in confronto ai
livelli occupazionali e ai disagi sociali di Spagna e Grecia), il salario
minimo garantito è cresciuto di ben otto volte, il PIL è in continua ascesa, il
debito pubblico è diminuito dal 166% al 48%, gli interessi sul debito sono
passati dal 21,9% al 6% del bilancio, il tasso di povertà è crollato dal 45% al
14%, con la povertà estrema ben inferiore al 7% (vedi grafico sotto). Dati
entusiasmanti che fanno impallidire gli inqualificabili governi del rigore e
dell’austerità disseminati in tutta Europa, in cui questi indici di prestazione economica e sociale sono tutti inesorabilmente e drammaticamente in caduta libera.