DI PIERO VALERIO
Tempesta perfetta
Quando l’equipaggio di una nave si trova in mare aperto, nel mezzo di una tempesta, e di una Tempesta Perfetta per giunta, l’unica cosa che vorrebbe disperatamente scorgere
all’orizzonte è la luce di un faro.
La salvezza, la terraferma. In Argentina, all’estremità sud del paese, poco più a est della Terra del Fuoco, si trova una piccola isola, quasi uno scoglio in verità, dove c’è un antico faro dal nome evocativo: il Faro della Fine del Mondo.
Poco più in là c’è l’Antartide, con le sue immense distese di ghiaccio, voltandosi indietro si intravedono invece le sconfinate e rigogliose praterie argentine. E in mezzo il Faro.
Un luogo magnifico ai confini del mondo, che non a caso lo scrittore francese di romanzi d’avventura Jules Verne, l’autore di “Ventimila leghe sotto i mari”, ha utilizzato per ambientare uno dei suoi libri meno conosciuti: “Il faro in capo al mondo”. In effetti a partire dal 1991, il faro argentino ha perso il primato di essere quello più a sud del mondo, perché né è stato
costruito uno a Capo Horn in Cile, ma rimane sicuramente il monumento più antico e
famoso, che oggi più che mai rappresenta un vero spartiacque simbolico di civiltà. Una speranza per tutti i naviganti che transitano da quelle parti e sono sommersi e travolti dalle onde
della Tempesta Perfetta globale, senza sapere ancora come venirne fuori e quali strumenti utilizzare per domarla.
In perfetta analogia, l’Argentina guidata dalla presidentessa Cristina Kirchner, così come il Venezuela di Chavez, l’Ecuador di Correa, la Bolivia di Evo Morales, è diventato un faro, una speranza per quei popoli del mondo, dall’Europa alla Cina passando per gli Stati Uniti, che oggi aspirano a ripristinare un regime democratico al servizio dei cittadini e dei diritti umani, dopo essere stati soppressi e repressi dall’occupazione quasi militare dei tecnocrati, dei faccendieri, dei politicanti, degli elefantiaci apparati dirigisti che lavorano alacremente soltanto per tutelare gli interessi delle lobbies finanziarie, dei comitati d’affari, delle corporazioni multinazionali. Un abisso di distanza in termini di cammino evolutivo della civiltà, che è ancora più accentuato dal fatto che la censura della propaganda di regime dilagante in Europa impedisce a noi cittadini di sapere cosa stia accadendo esattamente in Sudamerica, visto che gli organi di informazione su ordine preciso dei loro potenti committenti hanno completamente tagliato fuori dai circuiti della stampa e della televisione le notizie provenienti da quei paesi. Senza andare troppo per il sottile, il continente sudamericano è stato letteralmente cancellato dalle carte geografiche del mondo, perché i cittadini lobotomizzati e teleguidati d’Europa e degli Stati Uniti non devono sapere nulla dei cambiamenti che stanno avvenendo laggiù. I drastici mutamenti di paradigma rispetto al dogmatismo medievale dell’Occidente, con il loro cattivo esempio, potrebbero infatti spezzare di colpo la catena psicologica su cui si fonda gran parte dell’egemonia totalitarista che ci governa: TINA, There Is No Alternative, non c’è nessuna alternativa alla tecnocrazia neoliberista, si fa come dicono loro e basta. E
invece, al pari di ogni altra questione che coinvolge la vita umana, l’alternativa c’è, eccome se c’è. E si chiama Argentina.
La storia della crisi e successiva rinascita dell’Argentina è abbastanza nota e per certi versi, soprattutto nelle caratteristiche della fase di declino, molto simile a ciò che sta accedendo oggi nell’eurozona. Con il pretesto di creare maggiore stabilità nei rapporti commerciali con l’estero e in particolare con gli Stati Uniti, nel 1991 il governo Menem decide di ancorare il cambio del peso al dollaro, con una scellerata parità fissa di 1:1 che ovviamente apprezzava troppo la moneta argentina rispetto alla valuta statunitense. Il risultato è stato che per un certo periodo di tempo per gli argentini è stato molto conveniente importare prodotti dall’estero prezzati in dollari e questo eccessivo ricorso alle importazioni ha creato un deficit permanente nella bilancia commerciale, che è stato inizialmente compensato dal notevole afflusso di capitali e investimenti esteri. Sull’onda di questa maggiore fiducia e apertura del
governo alle imprese straniere, le multinazionali
americane ed europee strapparono facilmente diverse concessioni per gestire
i servizi essenziali un tempo pubblici, dagli acquedotti all’energia, dall’industria
estrattiva e mineraria alle telecomunicazioni, esportando i profitti in patria,
lontano dall’Argentina, e ponendo le basi per un maggiore indebitamento estero del paese. Sia i titoli finanziari
privati che quelli pubblici argentini, i famigerati Tango Bonds, venivano
piazzati in tutto il mondo assicurando alti rendimenti agli investitori e
fornendo un’illusoria parvenza di stabilità economica del paese. Si trattava però di un equilibrio molto precario e sono bastati gli effetti di contagio della crisi delle borse asiatiche del 1997 per mettere in ginocchio il paese e svelare al mondo la reale insostenibilità del suo straordinario sviluppo economico.
I capitali esteri sui quali si fondava il sostanziale equilibrio contabile della bilancia dei pagamenti cominciano a fuggire dal paese, gli investitori più accorti vendono in fretta i titoli argentini per limitare le perdite e il governo si vede costretto a bruciare notevoli quantità di riserve di moneta estera per mettere in condizione i
debitori di rimborsare i debiti contratti, ad imporre riforme di austerità per rastrellare liquidità dal basso e ad aumentare i tassi di interesse a livelli non più credibili, per favorire l’arrivo di nuovi capitali
dall’estero. Questo circolo vizioso dura fino a dicembre del 2001 quando, sulla spinta delle proteste popolari, il governo decide di dichiarare default sul debito estero denominato in dollari, che ammontava a circa $95 miliardi, e i suoi maggiori rappresentanti sono costretti a scappare in elicottero dal paese per evitare il linciaggio.
Da quel momento in poi si apre una pagina del tutto nuova nella storia dell’Argentina. Nel maggio 2003, dopo la parentesi della presidenza di Eduardo Duhalde durata due anni, viene eletto a capo del paese Nestor Kirchner, che comincia fin da subito un lungo braccio di ferro con il Fondo Monetario Internazionale per rinegoziare le condizioni di rimborso del debito: l’Argentina vuole ripagare i debiti ma secondo le sue modalità e i suoi tempi e non accettando passivamente le severe scadenze imposte dai creditori. In secondo luogo, con un piano progressivo di ristrutturazione il governo argentino si riappropria della gestione dei servizi pubblici essenziali, estromettendo le multinazionali, per consentire innanzitutto un maggior controllo sui prezzi di erogazione, e questo atteggiamento contrario agli interessi privati dei grandi colossi internazionali inasprisce i rapporti con il FMI, che delle loro logiche predatorie e parassitarie è il tutore a livello globale. A peggiorare ancora di più la situazione, Kirchner avvia politiche sociali per ridurre la povertà e la disoccupazione, cosa anche questa che fa infuriare il FMI, che proprio sulle ampie sacche di povertà e disoccupazione prodotte dalle sue stesse ricette di austerità crea i presupposti per fornire manovalanza a buon mercato per le multinazionali.
Mentre continua senza sosta il duello frontale a distanza fra governo argentino e FMI, la rapida svalutazione del peso rispetto al dollaro seguita al default, che si aggira intorno al 200% con un rapporto di cambio ora più realistico e aderente alle esigenze dell’economia argentina di circa 3 pesos per un dollaro, fornisce intanto un doppio beneficio per la bilancia commerciale del paese: da un lato favorisce le esportazioni e dall’altro rende più costose le importazioni, a tutto vantaggio delle produzioni locali. Lentamente l’Argentina riesce a rimettere ordine nei suoi conti disastrati, anche se bisogna subito sottolineare, come già evidenziato in uno splendido articolo pubblicato sul blog Voci dall’Estero, che non è affatto basata sulle esportazioni la grande ripresa economica dell’Argentina, la quale dura inarrestabilmente dal 2° trimestre del 2002 fino ad oggi. Durante il periodo che va dal 2002 al 2011, lo stesso FMI certifica una crescita
cumulata del PIL argentino del 94%,
che equivale esattamente ad una straordinaria
media annua del 9,4% (al pari se non più della stessa Cina), mentre il contributo delle esportazioni sul PIL cumulato nella fase più forte di espansione (2002-2008) si limita ad un modesto 7,6%, cioè solo il 12% del totale. Troppo poco per essere un fattore realmente decisivo e determinante. Se esaminiamo il grafico sotto possiamo in effetti notare che le esportazioni sono cresciute in valore, ma in relazione al ritmo travolgente di aumento del PIL l’apporto dell’export è diventato sempre più marginale e decrescente e se consideriamo infine il saldo netto fra export ed import avremo addirittura un risultato negativo (importazioni di poco superiori alle esportazioni).
Ciò significa che la violenta accelerazione del PIL argentino è dovuta evidentemente ad altri fattori e in particolar modo proprio ai due elementi che vengono sempre ignorati nei programmi di “austerità espansiva” (un imbarazzante e assurdo ossimoro che circola impunemente nei messaggi rassicuranti della propaganda asservita, perché come stiamo sperimentando sulla nostra pelle, nel mondo reale non ci può essere mai crescita economica quando si tagliano le spese e si aumentano le tasse) promossi in Europa, negli Stati Uniti e nel mondo dalle orde oscurantiste e dogmatiche di neoliberisti al governo: l’aumento dei consumi e degli investimenti interni (rispettivamente il 45,4% e il 26,4% del totale). Entrambi questi obiettivi sono i più abbordabili da raggiungere per un governo che ha piena disponibilità della sua moneta e di tutte le leve di politica economica, a dimostrazione ancora del fatto che per avvicinare traguardi importanti e ambiziosi spesso bisogna seguire le vie più semplici e dirette, senza complicarsi la vita con gli inutili e pretestuosi tecnicismi inventati di sana piana per confondere le acque e i malsani suggerimenti di cattedratici ampollosi, arroganti, autoreferenziali, corrotti e distanti anni luce dalla realtà della vita quotidiana e dalle esigenze materiali di milioni di individui. Se vuoi aumentare i livelli di spesa, la crescita economica di un paese, devi mettere in condizione cittadini e aziende di spendere e di investire. Chi non capisce questo semplice concetto o è stupido o è stato pagato a sufficienza per far finta di essere stupido.
Ma come si è potuta ottenere in Argentina un’esplosione così travolgente e rapida di tali fattori? Semplice, lo Stato argentino, sotto la guida di Nestor Kirchner prima e della moglie Cristina Fernandez a partire dal 2006, ha ricominciato ad attuare normalissime politiche economiche attive a sostegno della popolazione senza trincerarsi
più dietro il vile arretramento imposto dalle cure indigeste del FMI e soci. Un
esempio evidente è il programma di inserimento “Jefes de Hogar”
(Capi Famiglia), tramite il quale sono stati messi a lavorare nel settore
pubblico, in impieghi socialmente utili e spesso part-time, ben 2 milioni di
disoccupati in un solo anno (il 13% della forza lavoro attiva), che
dall’assenza di mezzi monetari hanno adesso un salario minimo garantito con cui potere soddisfare i bisogni primari del proprio nucleo familiare e programmare gli investimenti
futuri. Il governo argentino ha poi direttamente organizzato progetti a livello
federale, statale e locale e tra questi: grandi investimenti
infrastrutturali e iniziative di riciclaggio, progetti di irrigazione e
rinnovamento del suolo, assistenza sanitaria e centri diurni, pasti e rifugi
per i senzatetto, biblioteche pubbliche e programmi ricreativi, agricoltura di sussistenza e programmi di assistenza agli anziani, centri contro la violenza
in famiglia, e molte altre attività sociali. I posti di lavoro così creati nel settore pubblico non solo hanno prodotto reddito, occupazione, rilancio dei consumi e dell’attività produttiva, ma anche qualificazione, istruzione e formazione per tutti i partecipanti, credenziali queste che possono essere rivendute in futuro anche nel settore privato.
Ma come ha potuto il governo argentino finanziare tutte queste attività?
Anche in questo caso la risposta è abbastanza semplice: la banca centrale, il Banco Central de la Republica Argentina, ha rinunciato al dogma inutile e controproducente dell’autonomia e indipendenza e si è messa al servizio del governo argentino, finanziando la sua spesa pubblica tramite emissioni di nuova base monetaria (riserve bancarie elettroniche, banconote, monete metalliche). Analizzando i contributi netti al PIL cumulato nel periodo
2002-2011, avremo così che la spesa pubblica si aggira intorno alla considerevole quota del 35%: una cifra importante ma in verità molto inferiore rispetto per esempio alla spesa pubblica annuale in Italia, che supera spesso il 50% del PIL complessivo della nazione. Tuttavia, essendo stata convogliata verso finalità utili e redditizie
e avendo messo soprattutto nuovi mezzi monetari nelle mani di chi per ovvi
motivi ha più tendenza a spendere e consumare rispetto alla sterile tesaurizzazione precauzionale dei risparmi, la spesa pubblica argentina ha subito prodotto effetti positivi di espansione economica a tutti i livelli.
Da notare anche che l’Argentina non si è volontariamente ingabbiata in frustranti vincoli di pareggio di bilancio,
potendo quindi modulare il regime di tassazione progressiva e indiretta
in base a quelle che sono le reali esigenze di contenimento dell’inflazione e mantenimento nel tempo del potere di
acquisto del peso. In Italia invece non solo la spesa pubblica è sproporzionata e spesso inefficiente, ma i cittadini e le aziende sono pure
gravati da un prelievo fiscale tra i più alti del mondo, che annulla sul nascere qualsiasi tentativo di mettere in atto politiche espansive. Mentre in Argentina si creano soldi dal nulla e questi soldi vengono spesi nell’economia
reale, in Italia si prendono in prestito soldi dai mercati finanziari da
spendere spesso in modo dissennato e a vantaggio di una ristretta casta di
privilegiati e questi soldi più gli interessi devono essere poi prelevati dalle
tasche dei comuni cittadini, dei lavoratori e delle aziende, con tutte le nefaste e inesorabili
conseguenze che ciò comporta in termini di riduzione dei consumi e degli investimenti.
Preso atto di queste circostanze più politiche che strettamente tecniche e della scelta suicida di sottostare ai mercati finanziari, non esiste allora alcun motivo per stupirsi o
meravigliarsi se in Argentina l’economia continua a crescere mentre in Italia
siamo in profonda recessione. E così strano che scelte tanto distanti fatte a monte dai rispettivi governi si riflettano poi a valle in effetti altrettanto divergenti e contrastanti? Non dovrebbe
essere la semplice matematica a suggerirci che sarebbe andata a finire così?
Fra l’altro il sostegno della banca centrale argentina non si limita soltanto al finanziamento dei piani di spesa pubblica del governo, ma anche ai programmi di ristrutturazione dell’intero sistema economico nazionale, avendo
l’istituto appoggiato le iniziative di nazionalizzazione del settore pensionistico (niente di eccessivamente anormale o sconvolgente perché anche in Italia o in Germania gli enti di previdenza, l’INPS e il Deutsche Rentenversicherung, sono pubblici e nessuno hai mai gridato allo scandalo, accusandoci di statalismo) e delle maggiori imprese di estrazione petrolifera, come nel caso della YPF che prima era in mano alla spagnola Repsol. Queste operazioni del governo argentino sono state necessarie non solo per garantire ai cittadini l’erogazione dei servizi essenziali e la proprietà pubblica delle risorse strategiche, ma anche e soprattutto per difendersi dall’ostilità dei mercati finanziari e dal mancato afflusso di capitali esteri: se i profitti delle multinazionali straniere della finanza e del petrolio se ne vanno all’estero e contemporaneamente nessuno porta nuovi capitali, è chiaro che in assenza di queste drastiche scelte di riappropriazione a tappe forzate delle primarie risorse finanziarie e naturali, l’Argentina sarebbe stata stretta in breve tempo in una nuova morsa dell’indebitamento estero. A parte che bisogna ancora capire cosa ci sia di tanto immorale e sacrilego (agli occhi dei funzionari del FMI e degli squali di Wall Street naturalmente, non
dei nostri) nel garantire ai cittadini di uno stato democratico e civile la continuità di erogazione della pensione, dell’elettricità, del gas, del carburante, visto che le privatizzazioni hanno storicamente arrecato più abusi, inefficienze e rendite di posizione, che reali vantaggi per i consumatori. E poi, non è umanamente più giusto e razionale che i profitti ricavati dalle risorse naturali di un territorio vengano redistribuiti tra i cittadini di quel paese, invece di arricchire i forzieri di pochi soggetti privati e persino stranieri?
Domande davvero pesanti e improrogabili, a cui l’Argentina ha già risposto con fermezza, mentre i nostri governanti farlocchi e mercenari si ostinano ad abbozzare risposte approssimative e balbettanti, non più accettabili come chiusura definitiva e conclusiva del discorso. Si tratta dunque di quel radicale
cambio storico di paradigma di cui abbiamo accennato all’inizio, che l’Argentina sta perseguendo con coraggio e
determinazione e ha già messo in crisi parecchie volte le vecchie e sclerotizzate plutocrazie occidentali, che ancora hanno in patria la necessaria forza politica e finanziaria per tenere sotto scacco interi governi,
sindacati, mezzi di informazione, opinione pubblica. Ma probabilmente il
ribaltamento più interessante e rivoluzionario riguarda appunto lo stesso ruolo della banca centrale, che in
Occidente riveste obblighi di tutela degli interessi privati e di stabilità dei
prezzi, mentre in Argentina ha più decisamente intrapreso la strada della lotta alla disoccupazione e alla povertà,
del sostegno all’economia reale, della stabilità finanziaria nel suo
complesso, di cui il contenimento dell’inflazione rappresenta solo un tassello importante ma non prioritario.
E i risultati raggiunti sembrano fino ad oggi premiare tutte le scelte fatte
dalla banca centrale argentina perché la disoccupazione è scesa dal devastante
54% del 2001 all’8,3% (meno di Italia e Stati Uniti, e nulla in confronto ai
livelli occupazionali e ai disagi sociali di Spagna e Grecia), il salario
minimo garantito è cresciuto di ben otto volte, il PIL è in continua ascesa, il
debito pubblico è diminuito dal 166% al 48%, gli interessi sul debito sono
passati dal 21,9% al 6% del bilancio, il tasso di povertà è crollato dal 45% al
14%, con la povertà estrema ben inferiore al 7% (vedi grafico sotto). Dati
entusiasmanti che fanno impallidire gli inqualificabili governi del rigore e
dell’austerità disseminati in tutta Europa, in cui questi indici di prestazione economica e sociale sono tutti inesorabilmente e drammaticamente in caduta libera.
L’unica vera incognita in questa carrellata di successi di politica economica è il dato sull’inflazione che secondo fonti governative sarebbe intorno al 10% annuo, mentre secondo i calcoli degli analisti del FMI avrebbe già sforato il 25%. Ed è proprio su questa interminabile diatriba riguardo ai tassi di inflazione e di crescita che è nato l’acceso scontro al vertice fra le due Cristine (descritto magistralmente dal grande Sergio di Cori Modigliani sul blog Libero Pensiero). La battagliera presidentessa argentina risponde colpo su colpo all’algida e inflessibile direttrice
del FMI Christine Lagarde, che proprio in questi giorni ha estratto il primo cartellino giallo nei confronti
dell’Argentina in attesa di ricevere dati economici più affidabili entro
dicembre, ottenendo in tutta risposta la pronta replica di Cristina Kirchner: “il mio paese non è una squadra di calcio. È
un paese sovrano e, come tale, non ha intenzione di accettare una minaccia“. La situazione insomma è abbastanza compromessa e surriscaldata, ma in questa contesa cruciale per il destino e il significato stesso della sovranità democratica di una nazione, l’Argentina per nostra fortuna non intende arretrare di un passo, potendo contare sull’appoggio degli altri paesi
sudamericani alleati e facendo da apripista per tutti quegli stati non più
sovrani che vorrebbero magari in un prossimo futuro svincolarsi dalla stretta mortale del FMI e dell’Unione Europea (sono
la stessa cosa, perché uno è il corollario dell’altra e viceversa), come la Grecia, la Spagna e la stessa Italia.
In effetti, numeri alla mano, basterebbe solo mettersi d’accordo su quali beni e servizi considerare all’interno del paniere come base di calcolo dell’inflazione e il discorso sarebbe chiuso univocamente, anche se rimarrebbe ancora aperta la questione dell’aumento fittizio dei prezzi di alcuni prodotti agricoli ed alimentari dovuto alla speculazione finanziaria e alle scommesse sui derivati future.
Fra l’altro, come ha già dimostrato l’ottimo Giovanni Zibordi sul sito Cobraf, si potrebbe procedere anche ad un calcolo indiretto dell’inflazione tramite il tasso di cambio delle valute nazionali in un regime di cambi flessibili, dato che tale rapporto riflette più o meno i livelli relativi dei prezzi interni ai due paesi presi in esame. A parte
infatti le compravendite di moneta che avvengono a titolo puramente speculativo
sui mercati valutari, un residente di un paese cambia la sua valuta in una
valuta estera solo quando deve comprare dei prodotti da importare da quel dato
paese e quindi lo stesso tasso di cambio delle due divise si allineerà in un
certo senso al prezzo dei prodotti che verranno scambiati nei flussi incrociati
fra i due paesi: più alto sarà il differenziale
di inflazione del primo paese rispetto al secondo e maggiore sarà la svalutazione della sua moneta rispetto alla moneta del secondo paese, perché a parità di volumi di merci scambiate
sarà più elevata l’offerta di moneta
del paese più inflativo rispetto a quella del paese meno inflativo. Utilizzando
questo semplice meccanismo, se confrontiamo il valore iniziale di cambio nel
2002 di 3 pesos per 1 dollaro con quello attuale di 4,7 pesos per
un 1 dollaro avremo una svalutazione complessiva del peso del 56% rispetto al dollaro, e ricavando nel periodo considerato un’inflazione media negli Stati Uniti pari al 2,5%, avremo che l’inflazione media annua in Argentina in questi ultimi dieci anni sarebbe stata intorno all’8,1%, ben lontana dai picchi del 25% annui stimati dal FMI. Questo è lo stesso motivo per cui oggi possiamo dire con pochi margini di errore che l’uscita dall’euro della Grecia comporterebbe una svalutazione del 70% della nuova dracma nei confronti dell’euro, perché la somma dei suoi differenziali di
inflazione rispetto alla media europea porterebbe a questo risultato. Mentre
per la medesima ragione, a prescindere dai numeri catastrofici e dagli
allarmismi ingiustificati sparsi a caso dalla propaganda per terrorizzare la gente, la svalutazione della lira sarebbe intorno al 20%. I numeri non sbagliano, mentre le voci di popolo sono e rimarranno sempre voci di popolo.
Ma a parte i semplici strumenti analitici dell’economia che porterebbero a
smontare la tesi del FMI e tralasciando per il momento il fatto che questi conteggi
manterrebbero sempre un certo grado di approssimazione per la solita storia
della differenza sostanziale di calcolo dell’inflazione negli Stati Uniti e in
Argentina, la faccenda è più prettamente politica, morale, filosofica che tecnica. Quello che l’Argentina sta cercando di dimostrare al mondo intero è che l’inflazione non può essere considerato l’unico parametro di valutazione dello stato di salute e benessere di un paese, perché ne
esistono molti altri, primi fra tutti i dati sull’occupazione e la povertà, e su questo versante non ci sono dubbi che l’Argentina sia un paese virtuoso perché sta utilizzando tutti gli strumenti fiscali e monetari a disposizione nel solo interesse del bene del suo popolo. Mentre al contrario, l’Europa con la sua maniacale e ossessiva fissazione sul dogma della bassa inflazione di derivazione monetarista e neoliberista, sta portando alla deriva la stabilità sociale, inasprendo i conflitti e creando immense sacche inferocite di disoccupati e nuovi poveri.
Per capire meglio questo concetto, sarebbe opportuno rileggere con molta attenzione le parole del giovane economista argentino Ivan Heyn, morto suicida in un albergo a Montevideo a dicembre scorso in circostanze sospette, dopo aver partecipato “guarda caso” ad un turbolento incontro con i funzionari del FMI:
“Che cosa me ne importa a me di avere un’inflazione al 3% come avete voi in Europa essendo infelici tutti, se io posso dare felicità alla mia nazione con un’inflazione al 30%? Lo so da me che va abbassata, ho studiato economia anch’io. Lo faremo. Ma lo faremo soltanto quando ci saremo ripresi tutti. Non prima. La felicità ha valore soltanto se può essere condivisa collettivamente, è una teoria economica, questa, e mi meraviglio che lei che viene dal Primo Mondo non lo sappia. La felicità per pochi privilegiati, non è vera felicità, è avidità bulimica. E’ un peccato mortale. Lo sa anche il papa. E noi siamo cattolici”
(frase tratta sempre dal blog di Sergio di Cori Modigliani, che conosce molto bene come vanno realmente le cose in Argentina avendoci vissuto per parecchi anni). Una dichiarazione molto simile per certi versi agli
illuminanti e memorabili discorsi dell’indimenticato presidente partigiano Sandro Pertini, quando diceva che un popolo povero, affamato, poco istruito, privo di giustizia sociale non può essere libero e la libertà è il maggiore valore fondante di una democrazia.
E’ chiaro che in una fase di crescita economica tumultuosa come questa, il dato secco dell’inflazione passa in secondo piano rispetto ai parametri da cui può eventualmente scaturire un’impennata improvvisa dell’inflazione, che malgrado tutti i tentativi diffamatori e lesivi in Argentina non c’è ancora stata: livello di piena occupazione, saturazione della capacità produttiva, politiche salariali troppo espansive, aumento della domanda aggregata non più corrisposto da un contemporaneo aumento dell’offerta aggregata, mancanza di controllo sui prezzi, squilibri permanenti nelle partite correnti con l’estero. Siccome l’Argentina è ancora ben lontana dal raggiungimento di questi traguardi
o fenomeni tipici della fase finale di un ciclo economico, ecco che il
problema dell’inflazione per tutti i funzionari del governo e della banca
centrale è in realtà un falso problema. E la grintosa governatrice del Banco
Central Mercedes Marco del Pont (foto sopra: ogni
paese ha le donne di potere che si merita, noi purtroppo abbiamo la Bindi, la
Santanchè, la Tarantola e la Fornero) può orgogliosamente dichiarare che approvando ad aprile
scorso la nuova Carta Organica,
l’istituto sarà legato a doppio filo con le politiche del governo rinunciando
alla pretesa di autonomia che non porta a nulla, tranne alla deflazione e
recessione perenne. E secondo il nuovo statuto la missione primaria
e fondamentale della banca centrale argentina non sarà soltanto “preservare il valore della moneta ma includerà anche lo sviluppo economico con giustizia ed equità sociale, l’occupazione e la stabilità finanziaria”. Un vero schiaffo di sfida nei confronti di tutti i principi antidemocratici e i valori
antiumani su cui si è fondata nel tempo la supremazia schiacciante e scriteriata della finanza rispetto alle istanze razionali ed etiche degli stati ancora sovrani di gestire l’economia in modo sostenibile e solidale:
1) Lo sviluppo economico non piace alla finanza, perché quando i redditi si espandono, gli affari vanno bene, i debitori pagano i creditori, è difficile mettere in atto strategie di espropriazione di ricchezza ed estrazione di valore dal basso verso l’alto
2) La giustizia e l’equità sociale è una vera bestemmia per la finanza, che ha costruito le sue fortune sulla più diseguale redistribuzione e concentrazione di ricchezze nelle mani di pochi oligarchi che il mondo abbia mai conosciuto
3) L’occupazione non è mai stato un reale obiettivo della finanza, visto che, a parte gli istantanei guadagni speculativi sulle aspettative e sui dati forniti periodicamente dal governo, produce una maggiore
spinta al rialzo dei salari dei lavoratori e minori rendimenti e profitti per gli investitori
4) La stabilità finanziaria non è mai stata una condizione propizia per chi vive di rendita e di speculazione, dato che riduce la volatilità dei titoli e la possibilità di fare grandi profitti in poco tempo.
Non ci stupisce quindi tutta questa ostilità nei confronti dell’Argentina, sospinta e sobillata dagli ambienti che contano di Wall Street, della City di Londra, di Berlino, di Parigi, di Hong Kong, di Tokyo. Una carta di intenti di questo tipo avrà fatto sussultare sulla sedia migliaia di manager e dirigenti di grandi gruppi finanziari, che credono ancora per abitudine e convenienza che la banca centrale sia soltanto un ente privato al loro servizio, il cui unico scopo sia quello di fornire quantità illimitate di liquidità a comando e di mantenere nel contempo un alto valore e potere di acquisto degli immensi patrimoni accumulati. Un’istituzione chiusa e relegata al solo settore bancario e finanziario, come un vero e proprio Fortino Militarizzato di Ricchezze, che ha l’obbligo categorico di frenare qualunque assalto della società civile, dello Stato e della cosiddetta economia reale, ogni volta che questi ultimi rivendicano il sacrosanto diritto di avere i mezzi di pagamento necessari per una corretto funzionamento dei flussi commerciali e una migliore redistribuzione delle risorse finanziarie.
Non a caso le riviste patinate più vicine al mondo finanziario hanno subito inserito la governatrice argentina Del Pont nella lista dei 10 peggiori banchieri centrali del mondo, basandosi evidentemente soltanto su preconcetti,
pregiudizi o semplice antipatia personale perché in verità dati reali che
confermino inconfutabilmente l’incompetenza e inefficienza della funzionaria
ancora non ne esistono. La solita accusa meccanica e infondata che l’eccessivo
ricorso alla creazione di nuova base monetaria, volgarmente chiamata “stampa di moneta”, porterà prima o dopo all’iperinflazione della Repubblica di Weimar o dello Zimbabwe dimostra invece una totale ignoranza dei meccanismi moderni di circolazione della stessa base monetaria (formata per il 97% da riserve bancarie elettroniche e solo per il restante 3% da banconote e monete metalliche), che è
praticamente tutta interna al circuito interbancario, emergendo in superficie
soltanto quando le banche concedono prestiti ai clienti o i clienti stessi prelevano
allo sportello questi soldi virtuali ottenendo in cambio banconote. Solo così le famose banconote,
che passando rapidamente di mano in mano farebbero aumentare la velocità
di circolazione del denaro e innalzare di conseguenza l’indice dei prezzi al
consumo, avrebbero un reale effetto inflativo, mentre in caso contrario
l’unico modo in cui un banchiere centrale potrebbe assumersi la diretta responsabilità di aumentare la quantità di moneta circolante e produrre inflazione è quello di lanciare banconote da un elicottero. Con buona pace di tutti gli incalliti e retrogradi monetaristi, neoliberisti, devoti della sacralità dell’autonomia, della bassa inflazione e della rarefazione monetaria, il sistema monetario moderno funziona così e prima o dopo dovranno farsene una ragione. E’ l’inflazione a trainare la maggiore offerta di moneta da parte della banca centrale e non viceversa, così come è sempre l’inflazione ad influenzare in prima battuta la svalutazione della moneta e non viceversa (in seconda e terza battuta rientrano invece gli squilibri delle partite correnti con l’estero e le compravendite di moneta sui mercati valutari).
L’esperienza del Canada, che ha una banca centrale simile a quella argentina autorizzata a supportare direttamente il governo e a partecipare alle aste primarie di collocamento dei titoli di stato (come accadeva in Italia prima del divorzio fra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia del 1981), è abbastanza emblematica: malgrado la banca centrale abbia da sempre “stampato” moneta in accordo con il governo, in Canada, dal dopoguerra ad oggi, non abbiamo mai assistito a fenomeni iperinflazionistici. In sistemi invece meno solidali nella collaborazione con i governi e più orientati a foraggiare illimitatamente i circuiti bancari privati, come quello degli Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, le rispettive banche centrali hanno allagato il mercato interbancario con immense iniezioni di liquidità, attraverso le cosiddette operazioni di quantitative easing, senza che questo diluvio abbia aumentato di un centesimo di punto percentuale l’inflazione percepita. Una simile circostanza è giustificata dalla semplice considerazione che queste quantità
incalcolabili di riserve bancarie elettroniche sono appunto riserve e a parte l’irrisoria percentuale di richieste di conversione in banconote circolanti da parte dei clienti delle banche, il loro destino è già segnato: vengono custodite gelosamente nei conti di deposito dei singoli istituti presso la banca centrale in qualità di asset infinitamente negoziabile e liquido, trasferite senza sosta da un conto all’altro in cambio di titoli, utilizzate per compensare i pagamenti incrociati fra una banca e l’altra, senza mai vedere la luce del sole.