DI CHRIS HEDGES
Truthdig.com
La guerra in Afghanistan, dove il nemico è inafferrabile e invisibile, dove l’estraneità linguistica e culturale rende ogni viaggio fuori dall’accampamento una visita ad un territorio ostile e dov’è chiaro che tu stai perdendo nonostante la potente industria della morte a tua disposizione, alimenta la cultura dell’efferatezza. La paura e la tensione, la rabbia e l’odio traformano in nemici tutti gli afghani, inclusi le donne, i bambini e gli anziani. Civili e combattenti si mescolano in una odiata massa senza faccia e senza nome. Psicologicamente, il passo verso l’omicidio è breve e l’omicidio è all’ordine del giorno in Afghanistan. Viene commesso con gli attacchi dei droni, con bombardamenti di artiglieria, attacchi aerei, missilistici e con il devastante fuoco di soppressione scatenato nei villaggi dalle mitragliatrici a canne rotanti.
Attacchi militari come questi, in aree civili, trasformano in assurdità i discorsi sui diritti umani. Robert Bales, un sergente dell’esercito americano che si presume abbia ucciso sedici civili in due villaggi afghani, inclusi nove bambini, non è un’anomalia.
Criticare questo massacro e difendere le guerre di occupazione che finanziamo significa non sapere nulla di combattimento. Uccidiamo bambini quasi ogni giorno in Afghanistan. Di solito però non li uccidiamo mai al di fuori dell’azione di un gruppo militare. Se un americano avesse ucciso o ferito dozzine di civili dopo lo scoppio di un esplosivo artigianale contro il suo convoglio, non sarebbe finito sui giornali. Le unità non rimangono sul posto per quantificare i “danni collaterali”. Ma gli Afghani lo sanno. Ci odiano per la violenza omicida. Ci odiano per la nostra ipocrisia.
La portata degli omicidi appoggiati dallo stato è nascosta agli occhi del pubblico. I giornalisti che viaggiano con le unità militari e finiscono per sentirsi psicologicamente parte della squadra costruiscono mitici racconti di eroismo e valore, quello che vogliono il pubblico e i militaristi che ne pilotano l’opinione. La guerra è vista solo con gli occhi degli occupanti. Viene esaltata come una virtù nazionale. Questo mito ci permette di dare un senso alla distruzione e alla morte. Giustifica qualcosa che non è nient’altro che volgare crudeltà, brutalità e stupidità umana. Ci permette di credere che abbiamo ottenuto il nostro posto nell’umanità per una lunga serie di eroici sforzi, piuttosto che di accettare la triste realtà, che incespichiamo in un oscuro corridoio di disastri. Maschera la nostra impotenza. Nasconde l’inadeguatezza e la mediocrità dei nostri capi. Nel rendere la storia mito, trasformiamo eventi casuali in una sequenza di eventi diretti da una volontà superiore alla nostra, predeterminata e prestabilita. Siamo elevati al di sopra della moltitudine. Marciamo verso la nobiltà. Eppure è una bugia. Una bugia che i combattenti veterani si portano dentro. Per questo molti di loro si suicidano.
“Anche io appartengo a questa specie.” scrisse J. Glenn Gray della sua esperienza nella Seconda Guerra Mondiale. “Mi vergogno non solo delle mie azioni, non soltanto delle azioni della mia nazione, ma anche delle azioni dell’umanità. Mi vergogno di essere un uomo.”
Quando Ernie Pyle, famoso corrispondente della Seconda Guerra Mondiale, fu ucciso sull’isola di Ie Shima nel Pacifico nel 1945, una prima bozza di un articolo fu trovata sul suo corpo. La stava preparando per farla pubblicare alla fine della guerra in Europa. Aveva fatto così tanto per promuovere il mito del guerriero e la nobiltà della vita militare, ma verso la fine sembrava essersi stancato di tutto ciò:
“Ma ci sono molti dei vivi che avranno per sempre marchiata a fuoco nei loro cervelli la vista innaturale di uomini morti e freddi sparpagliati sulle colline e nelle fosse lungo le alte file di siepi in tutto il mondo.
Uomini morti prodotti in serie, in uno stato dopo l’altro, mese dopo mese e anno dopo anno.
Uomini morti in inverno e uomini morti in estate.
Uomini morti in una così familiare mescolanza da diventare monotoni.
Uomini morti in una così mostruosa infinità che puoi quasi arrivare a odiarli.
Queste sono cose che voi a casa non avete nemmeno bisogno di provare a comprendere. Per voi a casa loro non sono altro che colonne di numeri, oppure una persona cara andata via e semplicemente mai tornata. Non l’avete vista giacere grottesca e spappolata sul bordo di una strada ghiaiosa in Francia.
Noi l’abbiamo vista, l’abbiamo vista a multipli di mille. Questa è la differenza.”
C’è una ricerca costante in tutte le guerre per trovare nuove perversioni, nuove forme di morte quando l’emozione iniziale svanisce, uno tentativo di retroguardia e alla fine inutile per esorcizzare la noia della morte di routine. È per questo che durante la guerra in El Salvador gli squadroni della morte e i soldati amputavano i genitali di quelli che uccidevano e li infilavano nella bocca dei cadaveri. È per questo che noi reporters in Bosnia trovavamo corpi crocifissi a fianco di fienili o decapitati. È per questo che i marines statunitensi hanno urinato su combattenti talebani morti. Coloro i quali vengono massacrati in battaglia sono trattati come trofei dai loro assassini, trasformati in opere di performance art [una particolare forma d’arte, ndt]. È successo in ogni guerra di cui mi sia occupato.
“La forza” ha scritto Simone Weil, “è tanto spietata nei confronti di chi la possiede, o pensa di possederla, quanto lo è nei confronti delle sue vittime; distrugge le seconde e intossica il primo.”
La guerra ti corrompe e ti distrugge. Ti spinge sempre più verso il tuo stesso annientamento: spirituale, emotivo e infine fisico. Distrugge la continuità della vita, lacerando tutti i sistemi (economico, sociale, ambientale e politico) che ci sostengono come esseri umani. In guerra deformiamo noi stessi, la nostra essenza. Rinunciamo alla coscienza individuale, forse anche alla consapevolezza, per il contagio dalla folla, l’impeto di patriottismo, la convinzione che dobbiamo essere uniti come nazione nei momenti di estremo bisogno. Fare una scelta morale, sfidare il fascino della guerra, in una cultura di guerra può essere auto lesionista. L’essenza della guerra è la morte. Prova quanto basta della guerra e arriverai a credere che gli stoici avessero ragione: ci consumeremo, alla fine, in una gigantesca conflagrazione.
Uno studio sulla Seconda Guerra Mondiale ha determinato che, dopo sessanta giorni di continuo combattimento, il 98% dei soldati sopravvissuti sarà diventato psichiatricamente una vittima. Un tratto comune nel restante 2% era una predisposizione ad avere “personalità psicopatiche aggressive”. Il luogotenente colonnello Dave Grossman nel suo libro “On killing: The Psychological Cost of Learning to Kill in War and Society” [lett: “L’uccisione: il costo psicologico di imparare ad uccidere in guerra e nella società”, ndt] nota: “Non è poi così fuori luogo osservare come ci sia qualcosa di concreto riguardo al continuo, inevitabile combattimento che porta alla pazzia il 98% dei soldati, con il restante 2% che era già pazzo quando è partito.”
Durante la guerra di El Salvador, molti soldati hanno prestato servizio per quattro anni o di più, come nelle guerre statunitensi in Iraq e in Afghanistan, finchè non sono collassati psicologicamenteo fisicamente. In città presidiate dalle guarnigioni, i comandanti hanno bandito la vendita di sedativi perchè le truppe ne facevano abuso. In quella guerra, come nelle guerre in medio oriente, i mutilati emotivamente e psicologicamente erano comuni. Una volta intervistai un diciannovenne sergente dell’esercito salvadoregno che aveva passato cinque anni a combattere e all’improvviso perse la vista dopo che la sua unità cadde in un’imboscata dei ribelli. I ribelli uccisero undici dei suoi commilitoni nello scontro a fuoco, incluso il suo più caro amico. Non era più in grado di vedere e lo portarono in un ospedale militare. “Ho questi tremendi mal di testa. C’è una scheggia nella mia testa. Continuo a dire ai dottori di toglierla.” mi disse mentre sedeva sul bordo del letto. I dottori però mi dissero che non aveva ferite alla testa.
Ho visto altri soldati in altri conflitti diventare sordi, muti, o tremare senza potersi fermare.
La guerra è necrofilia. Questa necrofilia è centrale nella vita militare proprio come lo è per gli attentatori suicidi e i terroristi. La necrofilia è nascosta sotto banalità sul dovere e cameratismo. Si scatena specialmente nei momenti in cui sembra che ci sia poco per cui vivere o nessuna speranza, o in momenti in cui l’ubriachezza della guerra è nel suo punto più alto. Quando passiamo abbastanza tempo in guerra, ci si propone come un tipo di sollievo, un abbraccio fatale e seduttore che può consumare la lunga relazione sentimentale con la nostra distruzione di noi stessi.
Nella sua memoria “Wartime” [lett. “Tempo di guerra”, ndt], riguardo la guerra partigiana in Yugoslavia, Milovan Djilas scrisse del fascino che la morte esercitava sui combattenti. In piedi sopra il corpo del suo compagno d’armi, il comandante Sava Kovacevic, scoprì che:
“Morire non sembrava terribile o ingiuso. Era il più straordinario, il più estasiante momento della mia vita. La morte non sembrava strana o indesiderabile. Che io mi sia trattenuto dal caricare alla cieca nella lotta e nella morte era dovuto forse al mio senso d’obbligo nei confronti delle truppe o al promemoria di un qualche compagno riguardante i compiti assegnatimi. Mentre ero in prigione, nella mia mente sono ritornato più volte a quei momenti con la stessa sensazione di intimità con la morte e desiderio nei suoi confronti, specialmente durante la mia prima incarcerazione.”
L’ascendente della guerra spazza via l’eros. Spazza via la delicatezza e la tenerezza. Il suo potere collettivizzante cerca di rendere l’individuo obsoleto, di consegnare tutte le passioni, tutta la scelta, tutta la voce alla folla.
“La parte più importante nella vita di un individuo, che non può essere generalizzata nella vita collettiva è l’amore” scrisse Sebastian Haffner in “Defying Hitler” [lett.: “Sfidando Hitler”, ndt].
“Per questo il cameratismo ha le sue armi speciali conto l’amore: l’oscenità. Ogni sera a letto, dopo l’ultima pattuglia, c’era la rituale recitazione di canzoncine e barzellette sporche. È la dura e immediata regola del cameratismo maschile, e non c’è più grande fraintendimento della opinione largamente diffusa che questo sia una valvola di sfogo per le pulsioni sessuali ed erotiche represse. Queste canzoni e barzellette non hanno un effetto erotico, eccitante. Al contrario, fanno apparire l’atto di far l’amore il più possibile non invitante . Lo trattano alla stregua della digestione o della defecazione, e lo rendono oggetto di ricolo. Gli uomini che recitavano canzoni rozze e utilizzavano parole sprezzanti per parti del corpo femminile stavano infatti negando che avessero mai provato affetto o che fossero mai stati innamorati, che si fossero mai resi attraenti, comportati in modo gentile…”.
Quando ci accorgiamo di questo, quando ci accorgiamo della nostra dipendenza per quello che è, quando capiamo noi stessi e come la guerra ci abbia corrotto, la vita diventa difficile da sopportare. John Steele, un cameraman che ha passato anni in zone di guerra, ebbe un esaurimento nervoso nell’affollato aeroporto di Heathrow di ritorno da Sarajevo.
Steele era arrivato a capire la realtà del suo lavoro, una realtà che strappava via la moraleggiante e potente patina. Quando era a Sarajevo era “in un posto chiamato il Viale del Cecchino, e filmai una ragazza colpita al collo dal proiettile di un cecchino”, scriveva. “La filmai in ambulanza, e solo dopo la sua morte, realizzai improvvisamente che l’ultima cosa che lei avesse visto fu il riflesso delle lenti della videocamera che stavo reggendo di fronte a lei. Questa cosa mi annientò. Presi la telecamera e iniziai a correre giù per il Viale del Cecchino riprendendo a livello delle ginocchia bosniaci che correvano da un posto all’altro”.
Un’anno dopo la fine della guerra a Sarajevo, sedetti con amici bosniaci che avevano sofferto orribilmente. Una giovane donna, Ljijana, aveva perso il padre, un serbo, che si era rifiutato di unirsi alle forze d’assedio Serbe intorno alla città. Pochi giorni prima dovette identificarne il cadavere. Il corpo era stato preso, dai lati della bara marcescente usciva acqua, da un piccolo parco per essere poi riseppellito nel cimiteo centrale. Presto sarebbe emigrata in Australia dove, mi disse: “Sposerò un uomo che non abbia mai sentito di questa guerra e crescerò figli a cui non dirò nulla a riguardo, nulla del paese da cui vengo.”.
Ljiljana era giovane. La guerra però aveva preteso un costo. Le sue guance erano scavate, i suoi capelli secchi e fragili. I suoi denti erano guasti e alcuni si erano rotti lasciando pezzetti frastagliati. Non aveva soldi per andare da un dentista; sperava di poterli far sistemare in Australia. Nonostante ciò tutto quello che lei e i suoi amici fecero quel pomeriggio fu rimpiangere i giorni in cui vivevano nella fame e nella paura, emaciati, bersagliati dai fucilieri serbi dall’alto. Non rivolevano le sofferenze. Eppure, ammisero, quelli erano forse stati i giorni più pieni delle loro vite. Mi guardarono disperati. Li avevo conosciuti quando centinaia di granate al giorno cadevano vicine, quando non avevano acqua per pulirsi o per lavare i vestiti, quando si raccoglievano in appartamente non riscaldati mentre le pallottole dei cecchini colpivano i muri all’esterno.
Quello che esprimevano erano la disillusione nei confronti uno sterile, futile e vuoto presente. La pace aveva di nuovo scoperto il vuoto che l’impeto della guerra, della battaglia, avevano riempito.
Ancora una volta erano, come forse tutti noi siamo, soli, non più legati da una lotta comune, senza più l’opportunità di essere nobili, eroici, non più sicuri del significato della vita e del suo scopo. Il vecchio cameratismo, comunque falso, era svanito con l’ultimo sparo.
Inoltre, si erano accorti che tutti i sacrifici erano stati fatti per niente. Erano stati, come lo siamo tutti in guerra, traditi. I corrotti vecchi capi del Partito Comunista, che divennero nazionalisti dal giorno alla notte e per primi li avevano messi in quel casino, si erano arricchiti sulle loro sofferenze ed erano ancora al potere. Ljiljana e gli altri dovettero affrontare un tasso di disoccupazione del 70%. Dipendevano da aiuti della comunità internazionale. Capirono che la loro causa, un tempo di moda nei circoli intellettuali, come loro del resto, era stata dimenticata. Attori, politici, artisti non sgomitavano più per far visita durante i cessate il fuoco, atti che erano stati quasi sempre di disgustosa pubblicità personale. Sapevano della bugia della guerra, della presa in giro del loro idealismo, e dovettero lottare con le loro illusioni infrante. Nonostante ciò loro rivolevano tutto indietro, e anche io.
In seguito, ricevetti un biglietto di natale. Era firmata “Ljiljana dall’Australia”. Non aveva l’indirizzo del mittente. Non ebbi più sue notizie. Molti dei corrispondenti di guerra con cui avevo lavorato non scapparono. Non riuscivano a staccarsi dal balletto con la morte. Vagarono da un conflitto all’altro, alla continua ricerca di un nuovo colpo.
Al tempo, ero tornato a Gaza e ad un certo punto mi ero ritrovato coinvolto in un’altra imboscata. Un giovane palestinese aveva ricevuto un colpo mortale al petto a quattro metri e mezzo da me. Ero stato attratto di nuovo ma ora non sentivo frenesia, solo paura. Era il momento di liberarmi, di lasciar perdere. Sapevo che per me era finita. Ero fortunato di essere sopravvissuto.
Kurt Schrork, brillante, coraggioso e determinato, non riuscì a lasciar perdere. Morì in un imboscata in Sierra Leone con un altro mio amico, Miguel Gil Moreno. Al suo invischiamento, il suo sposalizio con Thanatos, con la pulsione di morte, non accennarono mai nello sterile e asettico servizio funebre tenuto per lui a Washington D.C.. Tutti girarono intorno al problema. Tutti quelli che lo conoscevano sapevano però che era stato logorato.
Ho lavorato on Kurt per 10 anni, a partire dal nord Iraq. Colto, divertente, pare che i coraggiosi sia spesso divertenti. Ci siamo scambiati libri in continuazione nello sforzo di dare un senso alla follia intorno a noi. La sua perdita lascia un vuoto che non potrà mai essere riempito. Le sue ceneri sono state messe nel Cimitero del Leone di Sarajevo, per le vittime di guerra. Volai a Sarajevo e incontrai il regista britannico Dan Reed. Era un nuvoloso giorno di novembre. Ci scolammo una pinta di whisky in piedi sulla tomba. Dan accese una candela. Io recitai una poesia che il poeta romano Catullo aveva scritto per onorare il fratello morto.
sono qui, fratello, per portarti queste misere offerte funebri,
per donarti l’ultimo dono della morte
e per parlare invano alla tua cenere muta,
dal momento che la sorte mi ha portato via te, proprio te,
ah povero fratello indegnamente strappatomi.
Ora tuttavia, intanto, queste offerte che secondo l’antica usanza degli avi
ti sono state portate come triste dono funebre,
accettale, grondanti di molto pianto fraterno,
e per sempre, fratello, ti saluto, addio!”
Era là, tra quattromila caduti in guerra, il posto cui Kurt apparteneva. Morì perchè non potè liberarsi dalla guerra. Tentò di riprodurre quello che aveva trovato a Sarajevo, ma non riuscì. La guerra non sarebbe più stato niente di nuovo. Kurt era stato a Timor Est e in Cecenia. La Sierra Leone, ne ero certo, non significò niente per lui.
Kurt e Miguel non riuscirono a lasciar perdere. Sarebbero stati i primi ad ammetterlo. Passa abbastanza tempo in guerra, e non riuscirai a stare da nessun’altra parte. Alla fine ti uccide. Non è niente di nuovo. Inizia come fosse amore, ma è morte.
La guerra è la bella e giovane ninfa delle fiabe che, se baciata, esala i fumi degli inferi.
Gli antichi greci avevano una parola per questo tipo di destino: ekpyrosis.
Significa: consumato da una palla di fuoco. La usavano per descrivere gli eroi.
Titolo originale: “Murder Is Not an Anomaly in War
“
Fonte: http://www.truthdig.com
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19.03.2012
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di COLDWATERMUSIC