L ’ITALIA CHE FA FESTA E QUELLA DEGLI “INVISIBILI”

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DI HS
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Se mai questo “duemilaundici” sarà degno di essere ricordato – qui in Italia -, oltre che per il “risveglio” delle popolazioni arabe, sarà per la questione delle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’Unità Italiana in un clima di crisi generale tanto istituzionale, morale e civile quanto economico e materiale. Come si suole ripetere in occasioni come questa, “ai posteri (ma anche ai postumi) l’ardua sentenza”. Personalmente, in un paese in cui il portavoce della categoria produttiva imprenditoriale paventa il collasso economico per la proclamazione di una giornata festiva, in un paese in cui sono ministri individui biechi figuri che ancor oggi – forse soprattutto oggi – si pulirebbero il culo con il Tricolore e nel quale il sempiterno Presidente del Consiglio ritiene “opportune” le celebrazioni dell’Unità Italiana, davvero bisognerebbe chiedersi che senso può avere la commemorazione della nostra presunta unità e identità di popolo, nazione e stato. Quantomeno l’occasione si presterebbe ad un salutare e composto silenzio… Silenzio per cominciare a guardare in faccia le cose per chiamarle con il loro giusto nome…
Silenzio per cominciare a guardarsi reciprocamente in faccia e allo specchio…
Silenzio per cominciare a misurare la gravità reale della situazione del paese…

La buona notizia – con somma soddisfazione per l’”orgoglio” nazionale del nostro Ministro della Difesa, personalità sorretta da curiosi sentimenti di orgoglio nazionale e patriottico e a parziale scorno dei biechi figuri di cui sopra – è che il 17 marzo potremo rivangare i fasti dell’italica Unità per cui tanto si soffrì.
La notizia un po’ meno buona – ma da far sbellicare dalle risa chi italiano non è – è che, quasi a nostra insaputa, lo scalcinato stivale è stato commemorato, anzi, sarebbe meglio dire, festeggiato giusto un mese prima. Il palcoscenico di cotanto evento è andato in onda – e mai termine fu più appropriato – durante la diretta per il festival di Sanremo su Rai Uno. Un evento, insomma, degno di un paese come il nostro, ormai immerso nello Spettacolo perpetuo, fermo nel Tunnel del Divertimento che, con poche encomiabili eccezioni, coinvolge tutta la cittadinanza – sudditanza.

Niente di più appropriato per una nazione che si raccoglie ormai quasi solamente nelle osterie, negli stadi, e… durante Sanremo.

Mettendo da parte gli entusiastici e sperticati elogi e i commenti elogiativi dispensati giusto per pubblicizzare il made in Italy e la “città dei fiori”, quel che a mio parere è passato sugli schermi in quel di giovedì 17 febbraio, è stato un festival degli orrori e del trash di una bruttezza – estetica ma non solo… – tanto esagerata da essere difficilmente replicabile. Forse solo Emanuele Filiberto e Pupo sono riusciti a raggiungere tali (in)tollerabili vette…

In poche parole un impasto, in realtà non tanto inusuale nella televisione italiana, fra quella che con intuizione felicissima è stata coniata come “popcultura”, ovvero la presunta “cultura alta” affidata alle cure dell’icona (l’Allevi, il Saviano, il Camilleri, ecc…) di turno promossa agli altari dai soloni dell’Intellighenzia, e l’onnipresente pervasiva e invadente società dei Mass Media, dello Spettacolo e del Divertimento, la “subcultura” cialtrona e popolaresca che, con un bombardamento mirato di reality, fiction, talk show e talent show, confonde i piani della realtà e dell’immaginazione con effetti devastanti e banalizzanti. La “subcultura” che cancella dalla storia ogni significato e la dimensione sempre presente del dramma e della tragedia. Una “cosa informe” nella quale vengono frullati senza preoccupazione o ritegno, nella retorica dell’Unità italiana, il povero Gramsci – per il quale le carceri mussoliniane non sono state certo l’ultima condanna inflitta -, “O’surdato n’ammorato”, Goffredo Mameli, Mogol, Battisti e… – ma potevano mancare ? – Berlusconi e Ruby Rubacuori… Responsabili di cotanto illustre florilegio un anziano cantante – presentatore che non si è mai capito se canta come parla o parla come canta, la celebre e procace compagna del famigerato paparazzo Fabrizio Corona – l’ex pupillo e amante (?) dello “scopritore di talenti” Lele Mora, sospettato di essere un ricattatore di professione e un malavitoso -, la sposina del bel divo hollywoodiano George Clooney ed ex del calciatore Bobo Vieri, e una famosa coppia di comici genovesi che, quantomeno, con qualche caduta di tono, il loro mestiere lo fanno onestamente e discretamente. Insomma un inno alla tanto agognata e sospirata meritocrazia che gli italiani sognano…

Se in quel dell’Ariston si sono succedute le canzoni che, presumibilmente, hanno fatto la storia d’Italia, scandite da esecuzioni quantomeno imbarazzanti e che fanno gridare vendetta ai timpani – ma sono veramente dei cantanti, quelli lì ? – ci ha pensato il Benigni nazionale a iniettare nel Festival la sana e robusta dose di “popcultura”. Una lezioncina carina per i bambini sull’Inno di Mameli e sulla sua storia, condita dall’attesa melassa retorica, ma il peggio è venuto con la chiosa finale, quando il folletto toscano, ormai dimentico dell’epopea di Mario Cioni, ha ricordato che i giovani martiri del Risorgimento “sono morti perché noi vivessimo”. Insomma loro hanno combattuto e sono morti per i grandi ideali, sono morti perché noi potessimo vivere – sopravvivere (?) – sotto la stessa bandiera, così almeno noi possiamo permetterci il lusso di mettere gli ideali in soffitta. Naturalmente quest’ultima traduzione è mia e ognuno può ricavare dalle parole del folletto toscano il messaggio che vuole o vorrebbe, ma niente mi toglie dalla testa e dalla pelle la sensazione dell’ennesimo invito alla “concordia nazionale” e al quieto vivere di andreottiana ma molto italica memoria. E beato è, ancor oggi, chi si illude che le battute di un comico e la sua presunta satira – e ci mettiamo i vari Crozza, Guzzanti, Luttazzi e, sotto certi aspetti, la Littizzetto – possano aiutare a far cambiare le cose. E’ il risvolto ridanciano della “popcultura” e, al contempo, vagamente impegnato della società dello Spettacolo. Comicità che deride, pontifica e confonde… E forse noi abbiamo dimenticato che funzione primaria ed esclusiva della comicità è quella di suscitare il riso e che il resto – che, per carità di Dio, si può sempre fare – è presunzione e furbo ammiccamento…

Nella sua difficilmente eguagliabile bruttezza, il festival di Sanremo non ha celebrato il centocinquantesimo anniversario dell’Unità italiana… Ha, invece, fatto festa in una cornice artificiosamente celebrativa… Il festival canoro – ormai poco canoro – ha rappresentato l’Italia che fa festa, l’Italia fatta di presunti imprenditori, avidi finanzieri, celebrati manager, (im)politici maneggioni e corrotti di qualunque collocazione nello spettro delle “posizioni politiche”, dell’intellighenzia coccolata, disonesta e viziosa, degli esperti di economia, politologia, sociologia, psicologia, criminologia che si vendono tanto a grammo di “cervello”, delle disponibili grandi firme del giornalismo prone ai desideri dei “potenti”, degli scrittori improvvisati, degli anchorman e del presentatori di successo…

E, ancora, ha sollazzato e compiaciuto l’Italia dei Vip, dei paparazzi, dei magnaccia d’alto bordo, dei concorrenti dei reality, della comparse delle fiction, delle veline, delle letterine, delle starlette, delle pornostar, delle star comicarole, dei cantatucoli, degli attorucoli, delle attricette, dei calciatori e dei piloti, insomma l’Italia della società dello Spettacolo in grande spolvero… Per tacere della scomoda, ma sempre aleggiante, presenza mafiosa…

E l’Italia che fa festa è anche quella del pubblico plaudente e pagante che ormai non si schioda più dai PC, dalle televisioni, dai cinema, dagli stadi, dalle discoteche, dalle sale giochi… L’Italia sommersa dal suo incubo, felice di poter ammirare i propri beniamini… E se penso a questa Italia non posso fare a meno di ammettere che ben si specchia nel suo Presidente del Consiglio, quell’Omino di Burro che accompagna noi, tanti poveri, imbelli pinocchi e lucignoli, nell’eterno paese dei Balocchi per mutarci in tanti ciuchi…

E’, infine, l’Italia che si “riconosce” nei puttaneschi festini di Villa San Martino ove il sesso ritrova ancora una volta la sua (remunerativa) connotazione “spettacolare”. Ma l’Omino di Burro è o non è soprattutto un grande tycoon e impresario dello spettacolo ? Che importa se, come uomo di governo, è semplicemente disastroso o addirittura inesistente ? Ineluttabile la strada per la puttanocrazia…
Tempo fa un amico asserì con una certa arguzia che “ qui in Italia attendevamo il golpe, ma è arrivato solo Lele Mora”. Non era una battuta…

E qui sta l’Italia che fa festa, l’Italia “virtuale” per la quale tutto è possibile, ma la Crisi preme…

Perché c’è un’Italia invisibile fatta di precari, di insegnanti e di ricercatori offesi e bistrattati, di operai insultati e sfruttati, di lavoratori vilipesi, di studenti, dei “nuovi italiani” di origine non italiana, ecc… che suda, fatica e lotta quotidianamente, perché quotidianamente sorregge il paese reale, quello che sta andando alla deriva. E’ l’Italia “invisibile” che può e che deve farsi “visibile” per conquistare il posto che le spetta e per riuscire a salvare il salvabile. Un’Italia che deve riscoprire consapevolezza, orgoglio, dignità e fiducia in sé stessa, rifiutando definitivamente quel ruolo di “pubblico pagante” che qualcuno si è peritato di assegnarle.
Consapevolezza vuole che cessino gli applausi e che, veramente, non solo Berlusconi, ma anche i vari Marchionne, Montezemolo, Marcegaglia, Moratti, Briatore, per tacere dei vari Fini, Casini, D’Alema, Veltroni, Rutelli, ecc… vengano reclusi in quella famosa soffitta in cui sono stati risposti gli ideali in disuso… Altro che Benigni !

L’Invisibile deve farsi autenticamente Visibile, impresa quasi improba e proibitiva…

Occorrerebbe interrogarsi sul serio sul significato del patriottismo e sulla dignità dell’”essere italiani”…

Ma questa è un’altra storia…

FINE

HS
Fonte: www.comedonchisciotte.org
27.02.2011

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