DI MANUEL CASAL LODEIRO
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Conseguenze della dipendenza dal petrolio nell’agricoltura: i prevedibili effetti del “Peak-oil”
È denominato peak-oil (zenit o picco del petrolio) il momento in cui la produzione mondiale di petrolio raggiunge il suo livello massimo e inizia il suo irreversibile declino: ogni anno se ne produrrà sempre meno. O forse dovremmo dire con più esattezza che se ne estrarrà sempre meno, visto che il petrolio non si produce come si possono produrre patate o scarpe, perché è una sostanza che si è formata nella crosta del pianeta milioni di anni fa e che noi umani non possiamo produrre. Non c’è un parere univoco sul quando arriveremo a questo punto: le opinioni sono diverse tra gli studiosi e il picco non potrà essere dimostrato fino a vari anni dopo che si sarà prodotto. Secondo le fonti che considero più attendibili –sia per prestigio che per indipendenza rispetto a governi e multinazionali del petrolio- lo abbiamo appena passato o siamo sul punto di farlo nei prossimi anni.
La data precisa in realtà non ha molta rilevanza: la questione davvero critica è che si tratta di un fatto irreversibile che abbiamo addosso in termini storici e che le sue conseguenze, in tutte le sfere delle attività umane a livello planetario, saranno disastrose.
Ovviamente l’impatto sarà maggiore in quei settori più dipendenti da questa sostanza tanto speciale, questo vero e proprio tesoro geologico che ha impiegato milioni di anni per formarsi e che stiamo sperperando in appena 150 anni, invertendo in modo suicida il processo di sequestro di carbonio che realizzarono le alghe preistoriche e che ha permesso lo sviluppo delle specie che oggi conosciamo, compreso la nostra.
È fondamentale tener presente che non solo diminuirà il numero di barili di petrolio che si metteranno ogni anno a disposizione dell’economia mondiale, ma che questo petrolio sarà sempre più di qualità inferiore, più costoso e difficile da estrarre e da raffinare, e – cosa più importante- con un valore energetico sempre minore. Mi riferisco a ciò che si conosce come Ritorno energetico sull’investimento energetico, più comunemente noto come EROEI, e che costituisce l’aspetto critico della questione: per estrarre il petrolio c’è bisogno di energia, e la relazione tra l’energia che otteniamo da ogni barile e quella che spendiamo per ottenerlo, sta cadendo in picchiata. Si calcola che per mantenere una società di tipo industrializzata, come la nostra, la cui complessità è altamente dipendente da questo combustibile fossile, è necessario ottenere al meno un rendimento di 5 barili di petrolio per ogni barile equivalente consumato nell’estrazione (Cutler Cleveland, Università di Boston). Oggi i tassi si aggirano intorno ai 10:1 (10 barili ottenuti per uno di spesa) e visto che dipendiamo sempre di più dai petroli non convenzionali, come quelli ottenuti dalle sabbie bituminose del Canada o quelli delle acque profonde, questo tasso continuerà a scendere. È qualcosa di molto grave e che ci fa rendere conto fino a che punto questa civiltà industriale è dipendente dal petrolio, tanto da svuotare la Terra degli ultimi resti del combustibile che la mantiene in vita.
E tutto questo senza parlare dei rovinosi rendimenti energetici degli agrocombustibili, che alcuni presentano come sostituti del petrolio e che, secondo diversi studi, non arrivano nemmeno all’ 1:1 (si vedano per esempio quelli inclusi nel libro pubblicato da Icaria El final de la era del petróleo barato), ciò dimostra quanto sia folle sprecare un barile di petrolio per coltivare soia –per esempio- con la quale produrre biodiesel per sostituire … proprio quello stesso barile che abbiamo speso! Quando estrarre un barile costerà più energia di quella che questo barile ci fornirà, ovviamente si smetterà di estrarre il petrolio, ma parecchio prima di arrivare a questo punto, la società industriale avrà smesso di esistere e saremo tornati a un tipo di società molto più semplice e con minore consumo energetico, possibilmente di tipo agrario e locale.
Un modello alimentare dai giorni contati
Quando a qualsiasi cittadino urbano viene posto il problema che presto il petrolio scarseggerà, la prima cosa che pensa è che non potrà fare il pieno alla sua macchina o che gli costerà troppo caro; cioè, penserà che l’impatto principale sarà sulla propria mobilità. Sebbene questa sia una conseguenza certa e molto importante –visto la quasi totale dipendenza del trasporto mondiale rispetto ai combustibili derivati dal petrolio-, la ripercussione più grave del picco del petrolio sarà sul modello agroalimentare, per due fattori principali: il modello di produzione e il modello di distribuzione/commercializzazione.
Il modello di produzione agricolo e del bestiame attualmente predominante è estremamente dipendente dal petrolio. Se ci fermiamo ad analizzare di cosa necessita uno sfruttamento industrializzato convenzionale per produrre alimenti, vedremo che la sua lista di investimenti include una lunga serie di prodotti vitali direttamente o indirettamente dipendenti dai combustibili fossili: gasolio per i macchinari ed i sistemi di pompaggio e irrigazione; pesticidi, erbicidi e plastiche elaborate dall’industria petrolchimica; fertilizzanti derivati dal gas naturale (altro combustibile fossile che come il petrolio è destinato ad esaurirsi), e altri diversi prodotti che devono arrivare alla fattoria trasportati da camion lungo centinaia o migliaia di chilometri, compresi la maggior parte degli alimenti destinati agli animali (mangimi industriali). Di fatti, i calcoli realizzati a proposito di questa dipendenza, ci indicano che per produrre ogni caloria di alimento si consumano oggigiorno una media di 10 calorie di energia fossile (Giampietro e Pimentel, dati riferiti agli USA.).
In alcuni luoghi gli alti prezzi raggiunti dai combustibili nell’estate 2008 hanno portato a parcheggiare i trattori e a riprendere la trazione animale. Stanno anche sorgendo allevatori pionieri che abbandonano i mangimi industriali in favore di un’alimentazione locale ed estensiva, un cammino che senza dubbio, a medio o lungo termine, tutti gli altri dovranno percorrere senza opporre resistenza.
In questo senso le enormi dimensioni, la meccanizzazione, la monocoltura e la dipendenza dall’esportazione, sono fattori critici di vulnerabilità che colpiscono molte coltivazioni agricole e allevamenti convenzionali, e che dovranno essere corretti, meglio adesso in maniera preventiva che più avanti quando il costo elevato dei mangimi fossili non lascerà altra scelta.
Questi fattori sono stati imposti da politiche agrarie che ci vendevano una perpetua disponibilità di crescente energia e da falsi mercati che non prendevano in considerazione i costi reali dei diversi tipi di produzione. Se non abbandoniamo questa barca sulla quale ci hanno fatto salire, affonderemo con essa e- cosa ancora più grave- trascineremo la popolazione mondiale con noi quando diventerà impossibile continuare a produrre alimenti attraverso il sistema abituale.
Ma la situazione nella quale stiamo per imbatterci è ancora più complicata visto che il problema non risiede soltanto nel modo di produzione e nei suoi costi. Al momento di distribuire e commercializzare gli alimenti prodotti da queste coltivazioni convenzionali, dipendiamo totalmente dal fatto che tutta la catena di distribuzione moderna centralizzata funzioni correttamente e che sia capace di trasportare i prodotti a grandi distanze, che li trasformi attraverso sistemi meccanici ad alto consumo energetico, che li mantenga freschi, che li impacchetti con diversi tipi di plastica e che li depositi just in time negli scaffali dei supermercati delle città. Immaginiamo per un momento che questa grande distribuzione venga a mancare; non è un esercizio mentale troppo difficile visto che gli scioperi dei trasporti ci mettono di solito in una situazione simile: in meno di una settimana gli scaffali dei supermercati urbani si svuotano e incomincia il caos. Dobbiamo vedere questo tipo di situazioni come un anticipo su piccola scala di ciò che potremmo vivere tra qualche anno su scala mondiale e in modo permanente, e dovremmo trarre da ciò alcune conclusioni. La più palese dovrebbe essere che quanto maggiore è la distanza dalla quale proviene il nostro cibo, tanto più siamo vulnerabili a un’interruzione o a un rincaro dei trasporti e che solo la produzione locale può assicurarci il rifornimento di alimenti e altri prodotti di prima necessità.
Il cambio di modello è indispensabile
Se tornassimo a circuiti di produzione, trasformazione e consumo molto più corti, saremmo più reattivi, cioè più capaci di resistere a questo tipo di problemi. Alcuni paesi stanno già puntando su questo ritorno al consumo di cibi locali, come la Scozia, il cui parlamento ha approvato nel 2008 un decreto in sostegno delle catene di rifornimento locale per assicurare l’alimentazione della sua popolazione in vista dell’imminente picco del petrolio e delle crisi alimentari. Negli Stati Uniti negli ultimi 10 anni i mercati agricoli locali sono risorti, accrescendo il loro numero di più del 200% e superando già i 6.000. Lo stesso fenomeno si sta sviluppando, in maggior o minor misura, in altri luoghi grazie ai movimenti di attivisti per la sovranità alimentare, la localizzazione economica, l’agricoltura ecologia, la slow food o le Transition Towns.
La chiave per il cambio del modello sta nel cercare la massima autosufficienza delle coltivazioni. Quando i costi di una coltivazione salgono alle stelle perché aumentano i combustibili, considero una strategia miope quella di reclamare sussidi per i combustibili, che non porterà altro che pane per oggi e fame per domani. Dobbiamo ammettere che si tratta di un indicatore di un problema strutturale: questi costi ci dicono che dipendiamo totalmente da una sostanza e da un modello che non sono sostenibili, che in pochi anni non saranno più a nostra disposizione. La nostra responsabilità è cambiare adesso per cercare la massima autosufficienza possibile, per dipendere molto meno dall’esterno e, in ogni caso, solo da quelle altre coltivazioni o industrie che siano vicine e che siano anch’esse sostenibili. Per compiere questa riconversione improrogabile sarebbero certamente utili aiuti pubblici come quelli adottati dal parlamento scozzese: al contrario, sovvenzionare il gasolio servirà soltanto a prolungare l’agonia di un modello senza via d’uscita. Sarebbe anche molto utile basarsi sul sapere tradizionale attualizzato: recuperare i modi di produzione integrata tradizionale (policolture agricole e poliallevamenti), il concime animale, la rotazione delle coltivazioni, la tradizionale pesca a vela, ecc. migliorandoli però attraverso i contributi delle tecniche ecologiche e di progettazione di sistemi sostenibili più recenti quali l’agricoltura bio-intensiva, la permacultura, ecc.
Parallelamente sarà imprescindibile reimpostare il nostro mercato. Per questo dobbiamo cercare la nostra clientela nelle vicinanze, dobbiamo pensare quali sono gli alimenti che è necessario produrre nella nostra comunità e quali sono quelli di cui possiamo fare a meno se venissero a mancare le importazioni, e non dobbiamo pensare alle esportazioni che adesso possono sembrare attraenti e competitive ma che sono totalmente dipendenti da un trasporto artificialmente economico. Cerchiamo la distribuzione in negozi nelle vicinanze o nella vendita diretta. Dobbiamo, cioè, ristrutturare la nostra produzione attorno all’autosufficienza e alla comunità. I cambiamenti possono essere dolorosi, ma se li intraprendiamo in anticipo eviteremo cambiamenti molto più traumatici in futuro e una probabile rovina. Forse adesso lo vediamo come una riduzione delle entrate, ma se lo faremo con criterio la riduzione dei costi compenserà questa riduzione delle entrate e staremo rendendo la nostra coltivazione più resistente a futuri tagli di rifornimenti.
Un’altra chiave di trasformazione ce la fornisce Lidia Senra, del Sindicato Labrego Galego [Sindacato Contadino Gallego, n.d.t.]: “Potenziare il consumo di prodotti freschi, di stagione e sfusi”. Questo logicamente implica che i/le consumatori/trici modifichino le proprie abitudini – includendo tra questi un ritorno a un minor consumo di carne, la cui produzione richiede grandi quantità di energia – e che il cambiamento avvenga da entrambe le parti, con una reciproca presa di coscienza e un dialogo permanente, volto alla ricerca di alleanze sostenibili tra la campagna e la città per essere capaci di sopravvivere a una diminuzione inevitabile. “La strada giusta risiede nell’informazione, nel dibattito sociale sulle conseguenze delle politiche agrarie e alimentari che abbiamo, nel compromesso della cittadinanza per lottare a favore di un cambiamento profondo delle stesse e anche affinché tutte e tutti riceviamo un’informazione sufficiente per essere più coscienti del fatto che acquistare è un atto politico e che acquistare prodotti alimentari provenienti dall’agricoltura industriale e dalla grande distribuzione, non ha le stesse implicazioni che acquistare prodotti locali nei mercati”, reclama Senra.
Ci troviamo senza dubbio di fronte a una lotta smisurata, in primo luogo contro le politiche agrarie che ci costringono a sacrificare la produzione ecologica locale per cederla alla produzione industriale straniera, a perdere piccole industrie trasformatrici e piccoli negozi locali per favorire la delocalizzazione e le grandi superfici. In pochi anni, può darsi meno di una decade,il picco del petrolio renderà molto difficile alimentarci attraverso questi canali e dobbiamo fare tutto il possibile per mantenere in vita gli unici di cui disporremo: i locali tradizionali ed ecologici.
Ne va della nostra vita in questa lotta, che non solo è contro il mercato agricolo capitalista attuale, ma anche contro la regolamentazione imposta dalle amministrazioni pubbliche che pregiudica la viabilità e la sopravvivenza di queste filiere di produzione corte mettendo troppi ostacoli, regolamenti o tasse per la commercializzazione locale e per la produzione su piccola scala. È necessaria una profonda revisione di tutta la normativa di produzione e commercializzazione degli alimenti alla luce di una situazione energetica che i governi non vogliono riconoscere pubblicamente, mentre lasciano che muoia tutto quello che ci permetterà di alimentarci in un futuro senza petrolio.
Se ci muoviamo verso questo indispensabile e urgente ritorno a una produzione sostenibile, staremo anche contribuendo a lottare contro il cambiamento climatico, poiché ormai sappiamo che la produzione e la distribuzione di alimenti nel modello agricolo e commerciale attualmente egemonico è uno dei principali fattori del riscaldamento globale (fino al 50% delle emissioni secondo alcuni dati di GRAIN nel n° 1 di “Sovranità Alimentare, Biodiversità e Culture”).
In questo senso è anche importante fare un’autocritica e rivalutare ciò che consideriamo ecologico. Sono davvero ecologiche delle mele prodotte nell’ecologico Cile che però viaggiano per migliaia di chilometri per essere consumate in Spagna? Alcuni attivisti, ad esempio, puntano sulla dieta dei 100 km e rifiutano qualsiasi prodotto che provenga da una distanza maggiore. Altri consumano solo quei cibi prodotti nelle loro bioregioni. È una proposta difficile visto che la globalizzazione ha già distrutto molti settori produttivi e, per esempio, è quasi impensabile vestirsi solo con capi di lana, cotone o lino locali. Ma nel futuro sarà tutto ciò di cui disporremo a prezzi accessibili, così che quanto prima iniziamo a lottare per recuperare queste vie di sostentamento locale e compatibile con i limiti naturali, tanto più le nostre comunità saranno preparate per l’impatto del picco del petrolio, un momento critico per la nostra specie, che ci porterà a una grande Rivoluzione di ritorno alla sostenibilità oppure ci farà imboccare, come avverte l’esperto in ecologia umana William Catton, un collo di bottiglia evolutivo nel quale forse riusciranno a sopravvivere solo qualche migliaio di persone.
Manuel Casal Lodeiro, attivista e divulgatore della questione del picco del petrolio, membro fondatore dell’associazione Véspera de Nada
Fonte: http://revistasoberaniaalimentaria.wordpress.com
Link: http://revistasoberaniaalimentaria.wordpress.com/2010/12/05/el-cenit-del-petroleo/
5.12.2010
Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org a cura di SILVIA SOCCIO
La trappola mortale della Rivoluzione Verde
(Dati estratti dall’articolo dello scienziato Dale Allen Pfeiffer “Mangiando combustibili fossili”)
La cosiddetta Rivoluzione Verde ha profondamente trasformato l’agricoltura mondiale attraverso la sua industrializzazione e meccanizzazione. Tra il 1950 e il 1984, la produzione mondiale di grano è aumentata di un 250%, e di conseguenza l’energia disponibile per la nostra alimentazione. Questa energia in più non proveniva da un incremento della luce solare annuale che rende possibile la fotosintesi, né dalla coltivazione di nuovi terreni. L’energia della Rivoluzione Verde è stata fornita dai combustibili fossili in forma di fertilizzanti (gas naturale), pesticidi (petrolio) e irrigazione alimentata da idrocarburi. Questo cambio ha aumentato la domanda di energia dell’agricoltura di una media di 50 volte l’energia investita nell’agricoltura tradizionale. Per farci un’idea dell’intensità energetica dell’agricoltura intensiva moderna, basta dire che la produzione di un chilo di fertilizzante di nitrogeno richiede l’energia equivalente di un litro e mezzo di gasolio, o che negli USA si necessitava già nel 1990 di più di 6 barili di petrolio all’anno per ogni ettaro agricolo produttivo.
Tuttavia, a causa delle leggi della termodinamica, nel processo agricolo industriale c’è una marcata perdita di energia. Tra il 1945 e il 1994, l’intervento energetico nell’agricoltura è aumentato di 120 volte, mentre il rendimento dei raccolti è aumentato solo di 90 volte. Da allora, il costo energetico ha continuato a incrementarsi senza un corrispondente aumento della produttività. Abbiamo raggiunto il punto dei ritorni marginali decrescenti: la Rivoluzione Verde sta entrando in bancarotta energetica e ci sta trascinando con lei.