DI MASSIMO FINI
Il Gazzettino
Un film giapponese , «Vado a morire per te», scritto e prodotto dal governatore di Tokyo Shintaro Ishihara rivaluta come eroi, per la prima volta dalla fine della guerra mondiale, i kamikaze mentre l’aviazione americana viene presentata solo nelle vesti di massacratrice di civili innocenti: Il premier Abe ha dato uno schiaffo al Congresso americano che pretendeva che il Giappone porgesse scuse ufficiali ai Paesi vicini per le «schiave del sesso» usate dai militari nipponici durante la guerra, nei Paesi occupati: «Ma quali scuse? E quali schiave» ha detto «Erano solo delle prostitute». In precedenza Abe aveva rotto, per la prima volta dal 1945, il tabù nucleare, affermando che anche Tokyo ha diritto di costruirsi il suo arsenale atomico e ha, per questo, programmato di riformare «la Costituzione imposta dall’America».
Sono tre segnali che confermano un’impressione che ebbi la primavera scorsa quando fui invitato dall’università di Kyoto a tenere, insieme ad altri intellettuali e studiosi, cinesi, coreani, americani, tedeschi, spagnoli, oltre che giapponesi, una conferenza su «Americanismo e antiamericanismo»: fra qualche decennio il Giappone scaricherà una cinquantina di atomiche su New York.Apparentemente i rapporti fra i due paesi sono più che ottimi. Gli scambi commerciali, economici, finanziari intensissimi. Il paese del Sol Levante è una specie di «seconda sponda», sul Pacifico, degli Stati Uniti. Nella modernizzazione è più americano dell’America. Anzi per tecnologia ed efficienza (un’efficienza imbozzolata in un formalismo ferreo) gli è ormai avanti. Basterebbe fare un confronto fra l’aeroporto Nakrita di Tokyo o quello, splendido, di Osaka, disegnato da Renzo Piano, eleganti, lindi, funzionali e il Jfk di New York, sporco, sbrecciato, malconcio, scomodo, con scale mobili che non funzionano quasi mai, per rendersene conto.
Ma il fuoco cova sotto la cenere di quest’efficienza e di questo formalismo. La modernizzazione maschera un’anima antica, feudale. Non solo perché il feudalesimo giapponese , che è stato il più rigido e coerente che storicamente si conosca, è durato fino al 1871, ma perché quella che viene chiamata la «Restaurazione Meiji», che dovrebbe essere l’equivalente della nostra Rivoluzione francese, non fu fatta, come da noi, dalla borghesia ma dai samurai di seconda schiera sia pur finanziati dai mercanti. La natura più profonda del giapponese resta quindi samurai, anche se fortemente repressa dalle esigenze della modernizzazione. E come tutto ciò che è represso è pronta ad esplorare con violenza. Lo si intuisce dai dettagli. Da certi gesti bruschi, militari, quasi nazi che compaiono improvvisamente nella conversazione, tradizionalmente cortesissima e distaccata, dei giapponesi o nel tifo belluino per i ripugnanti combattimenti fra scarafaggi. E questa violenza repressa potrebbe prendere un giorno la direzione del nascostamente odiato «amico americano».
I giapponesi non hanno mai perdonato all’America Hiroshima e Nagasaki, ovviamente, ma anche di aver costretto il Tenno, l’Imperatore, a rinnegare la propria origine divina, cosa che a noi pare irrilevante e quasi ridicola, e che per loro è invece fondante. Naturalmente questo antiamericanismo sotterraneo non compare mai in superficie. I giapponesi sono educati da sempre a non manifestare i propri sentimenti e le proprie emozioni. Ma viene fuori in modo indiretto. Proprio nel periodo in cui ero a Tokyo ci fu una partita di baseball, disciplina in cui i nipponici sono piuttosto forti, fra Stati Uniti e Giappone perso per un solo punto dai giapponesi che, a loro dire, era stato un grazioso regalo dell’arbitro. Bene, i principali giornali giapponesi, lo Ashai Shimbum, lo Yomuri Shimbum The Japan Times, che di solito si occupano solo di cose serissime, di finanza, di economia, di politica internazionale, sono andati avanti per dieci giorni a parlare di questo furto sportivo degli americani. Era evidente che il baseball era solo un pretesto.
Massimo Fini
Fonte: http://www.massimofini.it/
Uscito su “Il gazzettino” il 09/03/2007