Italia unita ma eternamente divisa. E se puntassimo alla rivoluzione delle diversità?

Critica all'alternativa unica sempre annunciata e mai nata

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Di Lorenzo Maria Pacini per ComeDonChisciotte.org

La criticità della situazione attuale sta facendo emergere con drammatica chiarezza una caratteristica che a noi italiani piace attribuirci: la parcellizzazione. Dividiamo, scomponiamo, tipicizziamo e moltiplichiamo ogni progetto, ogni sforzo ed idea, dandogli delle caratterizzazioni in base al territorio, al dialetto, alla tradizione culinaria, alla corrente religiosa, alle previsioni metereologiche. L’Italia è quel Paese in cui riusciamo a creare una miriade di partiti, movimenti, gruppi politici che dicono più o meno tutti la sessa cosa, con parole simili e progetti somiglianti, scansando come la peste l’unità e l’unificazione. Senza esporsi in affettati giudizi, è opportuno analizzare i perché di questo comportamento calcificato nel nostro genoma e comprendere quale ne sia lo stato dell’opera.

Partiamo da una contestualizzazione storica: l’Italia è una nazione dal punto di vista formale, ma a 161 anni dall’unità risorgimentale è tanto divisa quanto allora. Siamo un meraviglioso miscuglio di lingue, dialetti, etnie, tradizioni che il resto del mondo invidia; abbiamo prodotto l’arte, la scienza e il pensiero di tutto l’Occidente almeno fino all’avvento della modernità, lasciando un segno indelebile nella storia che ancora oggi è ammirabile nelle pietre dei monumenti che ci parlano di millenni ancora oggi affascinanti, nei profumi dei cibi preparati con segreti tramandati da secoli, nelle lingue che si assomigliano ma si distinguono con estrema finezza. Il riflesso della identità culturale frammentaria non può che essere quello di forme politiche altrettanto numerose.

Italia unita ma eternamente divisa. E se puntassimo alla rivoluzione delle diversità?

Si tratta quindi di uno specchio del tutto naturale, più che di un vizio di forma, una caratteristica del nostro popolo che è quasi imprescindibile proprio perché affonda le sue radici nella nostra costituzione culturale. L’Italia, d’altronde, non è politicamente divisa solo al tempo del controllo tecnosanitario, è tale sin dal principio, e la stessa storia repubblicana ce lo testimonia senza bisogno di andare a cercare soggetti o processi da colpevolizzare. C’è anche un aspetto intellettuale da tenere presente, dato dalla grande ricchezza culturale che è espressione della ricchezza interiore degli italiani, il che vuol dire molteplicità, diversità, ricchezza, tutte cose difficili da inserire all’interno di un unico contenitore perché in costante fermento e modificazione.

Questo aspetto etnosociologico con esiti politici ci aiuta a riflettere sull’appello, proveniente da molte persone, di un “superamento” delle divisioni per volgere ad un unico fronte comune che liberi lo Stivale e ristabilisca la pace e la giustizia. La bontà del proposito si scontra anzitutto con l’ignoranza del dato: come abbiamo visto, gli italiani sono divisi perché diversi ed estremamente prolifici e non c’è mai stato un processo di unificazione ed omologazione culturale; in secondo luogo, non si tiene conto della difficoltà di realizzare un progetto da un processo in corso, dovendo cioè fare il procedimento inverso a quello cui siamo abituati. Siamo, infatti, nel bel mezzo di una rivoluzione, non prima di essa, quindi costruire uno schema e applicarlo risulta fisiologicamente quasi impossibile. Superare, dunque, che cosa o chi? La tradizione delle singole culture regionali? L’usanza della sovrabbondanza dei partiti? La genialità del popolo che si reinventa e scopiazza dalle alpi al mare? Probabilmente, compiere un’opera di unificazione sotto un solo soggetto politico significherebbe violentare l’essenza stessa dell’Italia, il suo Logos mediterraneo. Il richiamo ad un fronte comune non è necessariamente proporzionale al bene comune della nostra società, perché potrebbe anche provocare un indebolimento della speciazione culturale che ci appartiene.

Ecco perché occorre superare il concetto stesso di superamento.

Perché, poi, non considerare una possibile rinascita e rivoluzione attraverso una molteplicità? La fuga dalla diversità dei fronti pare essere dettata più da un panico di tipo strategico, che da una solida, radicata e motiva idea politica. C’è la convinzione diffusa che l’unione faccia la forza, declinando questa unione nel senso di un’unica cornice, escludendo invece l’unione nel senso federativo o anche solo d’intenti per un obiettivo condiviso. Anche qui, si incappa in un errore che a chi è avvezzo alle scienze militari è ben noto: un unico nemico è più facile da sconfiggere rispetto a molti. Tradotto in termini nostrani, un unico movimento o partito sarebbe più facile da bersagliare e, una volta distrutto quello, non rimarrebbe più o niente e ci troveremmo da punto e a capo. Non è segno di lungimiranza politica il voler combattere il nemico con le sue stesse armi, così come non è indici di perspicacia il voler restare entro la dialettica della contrapposizione, voluta da quello stesso avversario di cui si ambisce la sconfitta.

Bisogna anche considerare che la maggioranza delle sigle attuali, fra partiti che sbucano come funghi d’autunno, movimenti copia-incolla e personaggi di grande fama che promuovono iniziative, sono pieni di infiltrazioni fra servizi di polizia, servizi segreti militari, appartenenti ad ordini di potere, massonerie, istituti, club e lobby di vario genere, esattamente quel tipo di persone che appartengono alla stessa categoria di coloro che diciamo di voler combattere. Lo scopo di questi infiltrati, gatekeeper o che dir si voglia è precisamente quello di disinnescare, dirottare e neutralizzare il dissenso, la resistenza e soprattutto l’evoluzione collettiva, guarda caso cercando di azzittire e squalificare dall’agone comunicativo, politico, scientifico e accademico proprio quanti offrono soluzioni di creatività e alternativa alle classiche dottrine belliche e alle stantie composizioni politiche.

In tal senso, la vera unificazione avviene quando c’è il superamento della dualità fra amico/nemico e si opera oltre tutto ciò, andando a creare qualcosa di nuovo, non più lasciarsi amministrare o scontrarsi. È un passaggio concettuale e pragmatico allo stesso tempo, molto delicato da comprendere ma assolutamente essenziale. Superare il concetto del “superamento delle divisioni a tutti i costi”, della corsa all’ “unità dei movimenti politici” per una sorta di novello “comitato di liberazione nazionale” (e chi studia storia sa bene che anche quello del 1945 fu tutto fuorché unito e ben poco di iniziativa popolare) è un’urgenza impellente per una autentica evoluzione delle forme politiche e per un’efficace rivoluzione. L’altrimenti a ciò è l’inesorabile eterno ritorno delle stesse dinamiche che ci hanno condotti dove siamo arrivati oggi.

Non si creano mondi nuovi con idee vecchie, non si fanno rivoluzioni con cuori stanchi. La radicalità dell’attimo presente ci voca ad una soggettività radicale che incarni senza compromessi una volontà autentica, essenza di un nuovo modo di essere umani, di essere nel nostro caso italiani, che mai si è vista prima e che è preludio di una rinascita la cui aurora si deve sperimentare anzitutto interiormente. Laddove la tenebra della società sottoposta a regime ancora non è giunta, possiamo ancora far risplendere un sole.

Di Lorenzo Maria Pacini per ComeDonChisciotte.org

07/01/2022

Lorenzo Maria Pacini – Direttore Editoriale di Idee&Azione. Professore di Filosofia e Sociologia presso UniDolomiti di Belluno, Accademia San Pietro di Pavia, Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (CH) – Istituto di Neuroscienze Dinamiche Erich Fromm

Pubblicato da Jacopo Brogi per ComeDonChisciotte.org

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