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ISTANBUL, LA CITTA' DELLE ANIME PERDUTE

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A cura di Davide
Il 15 Settembre 2011
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DI LUCA PAKAROV
rollingstonemagazine.it

Il premio nobel per la letteratura Orhan Pamuk e moderno cantore di Istanbul descrivendo la sua città in “chiaroscuro” (di contraddizioni e ombre) dice che essa è immersa nella tristezza, hüzün in turco, una vera e propria malattia che non riguarda il singolo ma un’intera cultura che scopre di trovare piacere in quell’insuccesso fonte di mediocrità e omologazione. Questa, secondo Pamuk, proviene dalla catastrofica fine dell’impero ottomano e soprattutto dall’incapacità di modernizzazione di un paese sempre in bilico fra passato e presente, in equilibrio precario dal 1938 (anno della morte dell’eroe nazionale Atatürk, il quale riuscì a chiudere tutte le scuole religiose, introdusse l’alfabeto latino e il codice civile svizzero). Nelle Operette Morali gli uomini non sono consapevoli della loro tristezza finché Giove non ne punisce la superbia e l’oziosità, prima creando le città poi dando loro la Verità.

Ora, in Turchia, la più grande città si chiama Istanbul e la Verità, come sappiamo, è l’Islam. E l’Islam all’apparenza è uno dei motivi di maggiore perplessità, soprattutto dei politici nostrani, riguardo all’entrata della Turchia nella Comunità europea. Da una parte perché la Turchia diventerebbe il primo paese per estensione e il secondo per popolazione e quindi avrebbe un peso notevole nel parlamento europeo, il che qualcuno lo traduce, forse troppo semplicisticamente, ad un’islamizzazione dell’Europa. Dall’altro i turchi sono coscienti che uno dei presupposti per l’entrata nella Comunità europea è una chiara laicizzazione dello stato, quindi dalla loro c’è la paura che riprenda la secolarizzazione del paese che al momento Erdogan sembra abbia fermato. Processo oltretutto non nuovo visto che iniziò con le Tanzimat, le riforme di occidentalizzazione che l’Impero ottomano attuò dal 1839.

L’Islam, ad Istanbul, risiede principalmente in un quartiere: Fatih. Fatih è l’opposto di Beyoğlu (la parte più europea, antica colonia genovese e quella che negli ultimi anni ha subito diversi attentati) e si trova su una collina a ovest di Istanbul, vicino al più noto Sultanahmet ma fuori dai percorsi turistici. A Fatih c’è stata una forte immigrazione dalle zone rurali, è considerato il quartiere conservatore dove si pratica un Islam più ortodosso, è anche dove sorge la Camii İsmail Ağa, la moschea dove si riunisce il gruppo İsmail Ağa Tarikati i cui riferimenti politici si rifanno a quelli della confinante Repubblica Islamica dell’Iran. Un gruppo minoritario che ha appoggiato l’AKP di Erdogan nelle ultime elezioni. Un gruppo che molti definiscono setta ma che vanta un certo rispetto nella megalopoli turca di 15milioni di abitanti.

Entrando a Fatih passando per gli archi dall’Acquedotto di Valente si attraversa una porta, si nota subito una maggiore presenza di donne con il velo e uomini della tradizione musulmana, con pantaloni larghi, turbanti e l’immancabile barba. Sembra gente che abita qui da secoli. Mi dirigo alla moschea di Fatih che, pure se attualmente in restaurazione, si erge maestosa e spietata fra gli edifici di tre quattro piani. Istanbul, quella che tutti conoscono, è più lontana.
Qui cerco di conversare con alcuni barba e cappellino da preghiera ma da subito non sembrano interessati a me, oltretutto alcuni mi chiedono se sono americano. Brutto segno insomma, visto che sono proprio gli Stati Uniti a sponsorizzare la Turchia in Europa. Nessuno mi si fila. Vado allora verso la moschea di Zeyrek, una delle più antiche e anche questa in ristrutturazione, in una zona patrimonio dell’Umanità in teoria, in pratica è un’area decadente in cui nelle casette di legno vecchie di duecento anni vivono gipsy e una baraonda di bambini urlanti che, in un altro contesto, terrorizzerebbero anche gli esploratori della Legione straniera. In un intruglio di viuzze vedo un caffè vecchio stile, lì incontro Ebubekir, mi dice di chiamarlo Bekir, vende tappeti (un po’ scontato ma così è). Dapprima mi parla del capo degli İsmail Ağa Tarikati, tal Mahmut Osmanoğlu, senza eccedere negli elogi però sempre con una sorta di timore riverenziale. Anzi, c’è apprensione che non ci ascoltino. Bekir è un moderato. Allora vediamo che significa essere moderato: Sei sposato? Certo, ho trentuno anni! Io ne ho trentaquattro e non lo sono. Tu sei occidentale. Quindi? Quindi voi avete tradito le vostre tradizioni. Affermo che fra le nostre tradizioni c’era quella di massacrare chi non la pensava come noi. Ancora lo fate, ma ora lo nascondete con scopi umanitari. Vogliamo parlare della patria/nazione turca e di come sono finiti gli armeni? No.

Ok, uno a zero per Bekir, palla al centro.

Lentamente un bar che era vuoto comincia a riempirsi di gente, fannulloni come direbbe qualcuno, che non ordinano niente da bere, curiosi che si siedono lì vicino e salutano Bekir. Io stringo a me la macchina fotografica, ordino un caffè turco e ricomincio: tua moglie dov’è? Sta per arrivare. Lavora? No, mia moglie non lavorerà mai. E perché? Mia moglie deve stare a casa, basto io a portare i soldi a casa, poi avremo dei figli, si deve occupare dei figli… e poi ad Istanbul la maggior parte delle attività riguardano il commercio. Ci pensa un attimo e sentenzia: le donne non sanno mentire, non possono occuparsi di commercio. Poi ride come un bambino che tiene in mano le mutandine della sorella maggiore, cercando un’impossibile complicità. Così gli rendo noto che a me le donne hanno tirato dei pacchi colossali ma ci tengo a specificare che forse sono io a non essere troppo sveglio. Mi squadra perplesso e mi concede un sorriso indulgente. Comunque, sai che in Europa, almeno in buona parte d’Europa, non funziona così, che le donne lavorano? Per questo non ci piace l’Europa, la vostra libertà e la vostra democrazia hanno bisogno di rinnovamento. Ah certo, dico io, un rinnovamento a prima della seconda guerra mondiale! Che vuoi dire? Che da noi le donne lavorano, anzi sono sempre più spesso gli uomini a non lavorare. E ti pare giusto, mi domanda disgustato. Se a loro sta bene così, perché no. Cerco allora di stemperare i toni, Se entrate in Europa non potrete più fumare nei locali? Già non fumiamo nei locali.

Colpito e affondato. Evidentemente ho un karma di merda.

Nel frattempo la conversazione viene tradotta simultaneamente a uno che è lì vicino che mi fissa con gli occhi sgranati come fossi un coniglio dentro una gabbia di leoni fatti di speed. Bekir si alza per telefonare e l’altro si mette al suo posto e, non so come, riesco a capire che vuole leggere il fondo del mio caffè. Bekir torna e mi avvisa che il tizio lì, che ha pure un nome ma è impronunciabile e quindi, per comodità, da qui in avanti si chiamerà Mario, perché ricorda tanto lo zio Mario, è un dritto a leggere il futuro con i fondi del caffè. Ok, Mario. Rovescia la poltiglia rimasta su un piattino e, come da immaginarsi, fa lo sguardo scuro. Ovviamente nessuna bella notizia in vista. Parla con Bekir che sembra incerto sul comunicarmi l’infausto avvenire. Devo farmi visitare quanto prima ma non aggiunge altro. Vede qualcosa di male per la salute, forse un ospedale. Dico a Bekir di star tranquillo, con l’ultimo ritrovato della medicina, il Valdoxan, già mi tengo lontano dai reparti psichiatrici. Poi vede un gatto, significa che devo guardarmi attorno, che un mio amico mi tradirà. Gli rispondo che probabilmente si è sintonizzato sulla frequenza del passato, non ho amici. Insomma, alla fine, dopo altre sciagure economiche già palesatesi, mi dice la tariffa, gli devo 5 lire. Dico a Bekir che non gliele do. Poi ci ripenso, sì, gliele do, però solo in cambio della sua anima. E’ il mio colpo di scena. Si rimane tutti in silenzio. Non so di preciso in cosa sperassi, ma per evitare una serie balorda di sorry e excuse me prendo un pezzo di carta e scrivo concentrato due righe, un contratto, in cui Mario lì di fronte mi cede la sua anima per 5 lire turche. Bekir che è un tipo buono e non vorrebbe farmi accoltellare proprio lì dentro, glielo traduce aggiungendo, probabilmente, che devo essere uno sciroccato e che comunque 5 lire fanno comodo a tutti. Infatti, innanzitutto si definisce “turco” un tizio che fuma e che commercia. Poi sarà pure superstizioso, ma dopo. Mario ride, mi dà chiaramente del coglione ma non ci pensa due volte a scrivere il suo nome dove ho lasciato lo spazio. Dice che è un onore cedermi l’anima. Io pago, poi divento serio, guardo fisso verso la strada e come richiamato da una voce celeste dico: Ora devo andare. In tempo, prima che tutti lì dentro comincino a rifilarmi Amore, Angoli di paradiso e magliette I love Istanbul. Mi prendono per il culo in turco ma io mantengo un contegno fra l’ascetico e l’autistico, con un leggero tono da anticristo che, spero, li allarmi. Bekir mi accompagna un pezzo di strada verso i brandelli della moschea Zeyrek e mi dice di passare l’indomani a trovarlo in negozio per parlare più tranquillamente, anzi no, domani è mercoledì, c’è mercato, facciamo giovedì. E mi segna sulla cartina il punto dove lavora.

Il mercoledì mi aggiro svogliatamente per un mercato che non ha nulla a che vedere con i mercati turistici, quello delle spezie o il gran bazar, è il classico mercato di cianfrusaglie, sottane e camicie che un occidentale con un buono psicologo alle spalle al massimo si limiterà a fotografare. C’è anche un bel senso di comunità claustrofobica in quanto tutte le vie sono chiuse con tendoni che essenzialmente, oltre a salvarti da un’insolazione, hanno lo scopo di farti perdere l’orientamento. Una cosa però accade, quando il muezzin canta l’Ezan, il richiamo alla preghiera, si avverte un diverso orologio biologico che nel resto della città: per un po’ sembra che ogni attività venga sospesa e in molti, come ipnotizzati, prendono la strada del tempio più vicino.

Arrivo alla moschea di Yavuz Selįm. La pace che circonda i due imponenti minareti e il fantastico panorama sul Corno d’Oro viene falciato via dagli studenti forse di una madrasa, le scuola islamica, un branco di piccoli musulmani con lo zucchetto entra e nel tappeto della moschea inscenano una lotta all’ultimo sangue. Ma non è un luogo sacro questo? Ogni tanto qualcuno si ferma e vuole farsi una foto, mi chiedono dei soldi e al solito, il calcio, italiano è sinonimo di football. Signore ti ringrazio che per una volta non debba rispondere a nomi come Corleone o peggio Berlusconi. Un bambino mi fa sapere che il suo giocatore italiano preferito è Zanetti. La cosa mi lascia di sasso, conosce Zanetti del Brescia? Ma no, dai, è Zanetti dell’Inter, però non voglio distruggergli l’infanzia avvisandolo che Zanetti è argentino. Una sola donna o ragazza o signora si aggira. Non si capisce perché ma quelle che indossano il niqāb nero, cioè un burqa in cui solo gli occhi rimangono scoperti, sembrano o essere troppo giovani o troppo anziane. Non c’è l’età di mezzo lì dentro lo scafandro. E’ come se la parte meglio si consumasse. Comunque sia la donna richiama i ragazzi. Quando scende le scale vedo un tocco di urban style: dal vestito nero escono fuori delle Converse alte di colore azzurro.

Il giovedì faccio una stupida prova di forza che però mi garantirà l’immortalità: mi sbronzo con il Raki – una cazzo di sambuca che, anche se non lo dicono, secondo me viene ripassata nello stramonio – e mi dirigo in quella cosa criminale chiamata bagno turco e che non consiglio nemmeno al mio peggior nemico. In due ore di sudore e massaggi sì mi disintossico ma quasi svengo; mi chiedo che razza di vita sia quella del salutista. Ad ogni modo il venerdì arrivo al negozio di tappeti. Bekir mi fa sedere fuori e mi offre un tè. Una parentesi sul çay, il tè, come dice una mia amica che vive ad Ankara, è come un ciao, senza çay non si discute, non si litiga, non si commercia, è l’etere delle relazioni sociali. Chiusa parentesi. Arriva anche il proprietario del negozio Nazim che, fa capire fra le righe, dopo essere stato vicino ideologicamente a quelli di İsmail Ağa Tarikati, ora ne prende le distanze. E’ cortese Nazim, non ha clienti e vuole farsi una chiacchierata. Chiedo: Erdogan ha visitato l’Iran e ha dichiarato più volte che Hamas non è un gruppo terroristico, eppure fa di tutto per entrare in Europa, che gioco è questo? Risponde: Erdogan deve mostrare alla sua gente, ai religiosi soprattutto perché sono quelli che più di tutti hanno il polso del territorio e che quindi guidano le comunità, che non è solo un fantoccio in mano agli Stati Uniti.

Ed Erdogan è un commerciante, e come tutti i commercianti vuole entrare in uno dei più grandi mercati del mondo. Questa contraddizione non rischia di far aumentare le diaspore interne? E’ una contraddizione che si riflette su tutti, siamo religiosi anche se io, per esempio, ora ho deciso che non farò il Ramadan, non sono obbligato da nessuno in Turchia, eppure sono credente, poi aggiunge, Ho visitato solo la Francia in Europa ma suppongo che in qualche misura, siano gli stessi dubbi che avete voi cristiani quando mettete vicino i soldi e la religione. Visto che non sto lì a pettinare le bambole calco la mano, le parlo di un’iraniana, Laleh Bakhtiar, che traducendo il Corano quando ha incontrato la parola “daraba” invece di interpretarla con “picchiare”, come comunemente si è fatto, ha utilizzato “mandare via” e questo ha cambiato il senso di un passo in cui Maometto dice di fare “daraba” alle donne che non obbediscono. Nazim è molto chiaro: Io non ho mai picchiato mia moglie né conosco gente che lo fa, c’è una questione di buon senso, siamo moderati qui. Senti, tua moglie ha studiato, tipo all’università? No, qui c’è un sistema fascista che non vuole far studiare le donne, le donne tradizionaliste con il velo non possono entrare all’università (norma oltretutto reintrodotta dal CHP, partito di sinistra). Veramente Nazim io sono passato all’università di Sinan, a me non hanno fatto entrare ma le donne entrano eccome, solo che da quello che ho capito poi dentro devono togliere il velo. Quasi lo faccio incazzare: Appunto, mia moglie non può andare, non c’è libertà. Ma se si togliesse il velo sì. Certo, ma lei non vuole… e nemmeno io… Nella loro totale contraddizione sembrano perfettamente coerenti.

E’ ora di buttarmi, a Pamuk l’hanno arrestato per questo ma poi ha vinto il nobel, affanculo, chiedo del genocidio armeno. Nazim si guarda attorno, ride isterico, Lo sai che qui ti possono mettere in galera per dire “genocidio armeno”? Ok, corro il rischio, ma tu non fare l’infame, allora che ne pensi del G E N O C I D I O A R M E N O? Non ne penso, la storia è complessa e questo è un paese fascista… e io non mi chiamo Pamuk… (Pamuk venne incriminato nel 2005 per aver ammesso di fronte ad una rivista straniera il genocidio turco di curdi e armeni ma poi, vista l’autorevolezza del personaggio, venne scagionato).
Arriva anche il figlio di Nazim, ci ricarica di tè e si siede, è un ragazzotto scuro di carnagione, indossa una maglietta del Beşiktaş e un paio di pantaloni di una tuta Adidas. Nel mio vocabolario semiotico un soggetto simile è il significante di spacciatore ma per non cadere in tentazione ripenso alle tribolazioni del povero Billy Hayes in Fuga di Mezzanotte. Intanto che il padre vende un paio di copricuscini interpello il debosciato che prima o poi diventerà il mio pusher: lo sai che il 26 giugno c’è stato il Gay pride qui a Istanbul? No, non lo sapevo. Chi sono gli omosessuali secondo te?

Qui per un secondo traslochiamo nella testa del piccolo Nazim: è possibile che mio padre stia parlando da 10 minuti con un finocchio? L’avrà visto qualcuno? Allah potentissimo, aiutaci ad uscire da questo casino.

Torniamo a noi, al piccolo Nazim che piccolo non è, sembra che io gli abbia sferrato un uppercut sotto lo sterno. Ci pensa un po’, il ragazzo prima di grippare riprende la parola: Io devo rispettarli, Dio mi dice che devo rispettare tutti, ma la religione mi dice anche che l’omosessualità non è una cosa naturale. Chiedo: Nella naturalità delle cose non potrebbe entrare pure l’omicidio, no? Che c’entra? Naturale è quello che dice il profeta, comunque quando loro mi passano vicino io mi giro dall’altra parte, non è concepibile per me. Beh, abbastanza diplomatico finché non si rilassa e premia la naturalità: Ti ricordo che in altri paesi islamici verrebbero ammazzati. Nazim jr studia all’università, è al secondo anno di economia, allora gli chiedo se a lui non piacerebbe vedere il suo paese in Europa e qui mi sorprende: Cosa potrebbe apportare la Turchia all’Europa e soprattutto, cosa l’Europa può dare ad Ankara? L’economia turca è sana, c’è poca inflazione e all’Europa non dispiacerebbe metterci le mani, sarebbe la nostra fine, i fratelli greci ci hanno avvertito. Come i fratelli greci? Mi stupisco. Ah, non dar retta alle leggende che ci vogliono nemici, sono i politici che tirano fuori le storie di cent’anni fa, i greci sono nostri vicini. Bravo piccolo Nazim, sei più intelligente di quello che pensassi, poi, appena vede che condivido, inizia a straparlare furibondo del sistema capitalista, della corruzione degli abiti occidentali, di sbronzi insomma mentre io ripiego disperato su una mentina per coprire la puzza di Raki. Alla fine del Nazim jr pensiero/sermone c’è la sua formula per un mondo migliore: una costituzione coranica. In quell’istante mi rendo conto che sto prendendo una valanga di appunti inutili.
Per fortuna arriva un personaggio che merita un encomio, tal Yalin. Yalin mi considera un dollaro ambulante e mentre Bekir gli racconta che sono un “giornalista” lui costruisce la sua trovata. Ecco che mi propone: Yalin era un grande nuotatore turco, molto conosciuto dice, e se io volessi potrei scrivere una storia su di lui. Per 200 sporche lire turche attraverserà a nuoto il Bosforo, io starò in barca con un suo amico, potrò fotografarlo e forse anche intervistarlo nel bel mezzo dei terribili marosi. A gesti mi garantisce che ne verrà fuori un articolo con i controcazzi. Al principio non gli do peso, rido anche, io speravo in un dervish che mi facesse una danza e invece sto per comprarmi un’altra anima, una di scorta per di più di un famoso nuotatore turco, valuto se portarla in dono a qualche tipaccio che conosco ma poi la mia di malvagità prende il sopravvento, inizio a fare i conti con i soldi che mi rimangono; l’affare mi tenta. E’ che io, in vita mia, non ho mai visto nessuno affogare. Ma questa è un’altra storia.

Ah, il finale. Alla fine per rimediare all’infelicità degli uomini Giove invia sulla terra Cupido. Da queste parti però gli è stato concesso un visto di soli 60 giorni.

Scrittore e Girovago, Luca Pakarov ha scritto il report sulle rivolte in Grecia del settembre 2010 (n.83) ATENE BRUCIA, IL MONDO TACE
Fonte: www.rollingstonemagazine.it
Link: http://www.rollingstonemagazine.it/magazine/articoli/istanbul-la-citta-delle-anime-perdute/42764
15.09.2011

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