DI MAURIZIO BLONDET
Fino all’autunno scorso, gli americani potevano additare Mossul come un modello. Due milioni di abitanti, in buona parte curdi (dunque non ostili agli Usa), collaboravano speranzosi. Iracheni partecipavano a centinaia di progetti di ricostruzione in corso pagati dagli Stati Uniti; una tv di successo che diffondeva programmi congiunti. I giovani s’erano arruolati nella nuova Guardia Nazionale, creata dagli americani, in numero di 8 mila.
Oggi tutto è finito. Delle reclute della Guardia Nazionale ne restano un migliaio, e solo 400 sono, per gli americani, fidate. Gli altri hanno disertato. “I ribelli conoscono le famiglie dei soldati e le minacciano, da qui le diserzioni”, ha scritto sul Wall Street Journal David Ignatius (1), noto columnist. “Il terrore è l’arma più potente dei guerriglieri”.Di recente, mentre le truppe Usa conducevano un rastrellamento in un quartiere di Mossul, guerriglieri sono arrivati in quello stesso quartiere su otto automezzi, hanno preso un passante iracheno – uno a caso – e gli hanno sparato alla testa. Lezione per tutti: chi collabora è morto. Identico messaggio diffondono i DVD con le decapitazioni di iracheni, che i ribelli vendono nei suk. E le minacce dirette a persone che, loro, conoscono una per una. Il mutamento di clima risale a luglio, quando la guerriglia uccise il locale governatore. «Tanta, troppa gente ha paura», dice il generale di brigata Carter Ham, che comanda le forze Usa nella zona, “e ciò influisce sulla popolazione». Il nemico, aggiunge, è feroce come gli scherani di Saddam, ed in più motivato dal fanatismo islamico.
E’ una deriva che il Pentagono dovrebbe temere, perché l’ha già vista in Vietnam. Contrariamente a quel che diceva la propaganda internazionale comunista, i vietcong non erano popolari fra i vietnamiti; ne conquistarono “le menti e i cuori” terrorizzandoli. Uccidendo chi accettava aiuti Usa, tagliando braccia a bambini che i soldati americani vaccinavano, massacrando governatori vietnamiti che collaboravano. La strategia: farsi temere più dell’occupante, mostrare che l’occupante non può proteggere i suoi.
Come allora, la strategia del terrore riscuote sinistri successi. Il 10 novembre scorso, nella “pacificata Mossul” le forze Usa hanno subito l’attacco congiunto di una dozzina di formazioni guerrigliere, di fronte a cui la polizia irachena s’è volatilizzata, e la Guardia Nazionale s’è dispersa. «Un attacco che non ho previsto», ammette il generale Ham. Come la storica offensiva del Thet in Vietnam, che colse di sorpresa le più potenti forze armate del mondo.
Dal 10 novembre, a Mossul, i 30-40 attacchi che i soldati Usa subivano ogni settimana sono saliti a 140; gli assassinii di iracheni sono arrivati a 136. Come in Vietnam il terrore fa il vuoto attorno a loro; i collaborazionisti possono essere spie del nemico invisibile.
La terribile attrizione che stanno subendo le truppe occupanti è ancora peggiore: dal marzo 2003 sono morti in Irak 1280 soldati Usa. Come ha fatto notare Paul Craig Roberts, ex viceministro del Tesoro sotto Reagan, ci vollero quattro anni di Vietnam (1961-64) perché le perdite americane raggiungessero i 1864 morti. Quanto ai feriti, allora, erano 7337. Oggi in Irak già 21 mila americani sono stati evacuati e curati nel centro ospedaliero militare di Landstuhl in Germania, e metà di loro, circa 12 mila, sono feriti in modo da non poter essere rimandati in linea. Sicché l’usura delle guerriglia ha già consumato il10 per cento della forza di 138 mila uomini che il Pentagono ha in Irak (2). Il Pentagono si appresta a mandarvi altri 12 mila uomini, ed anche questo ridesta una memoria infausta: “escalation”, l’aumento troppo graduale e mai sufficiente della forza, che in Vietnam portò l’America non solo alla sconfitta, ma alla disfatta.
Solo un anno fa l’incredibile Dubya dichiarava: “mission accomplished”. La guerra vera stava solo cominciando. Ciecamente, l’America si è lanciata in un’occupazione di cui non conosce i costi e le ripugnanti necessità – quelle che macchiarono a volte l’onore delle forze tedesche nella seconda guerra mondiale. Nella strategia del terrore contro la popolazione civile, l’occupante è costretto a terrorizzare più della guerriglia. Le forze Usa sono crudeli, torturano, colpiscono civili inermi, bombardano abitati coi B52, ma la loro crudeltà non è inserita in un quadro tattico coerente: è mero teppismo e debolezza mentale, morale e militare.
Chi non capisce la storia è condannato a ripeterla. In Vietnam, oltre all’escalation, gli Usa provarono l’espansione del conflitto nei paesi limitrofi, come la Cambogia. Oggi minacciano di ripetere ottusamente lo stesso goffo disegno: sono in corso esercitazioni per un attacco di sorpresa all’Iran, fortemente voluto da Israele per bloccare la costruzione dell’atomica persiana. L’Iran, notoriamente, è sciita. In Irak, è sciita il 60 per cento della popolazione, e per ora la Sh’ia irachena se ne sta tranquilla, perché spera nella vittoria elettorale alle elezioni indette dagli occupanti. La rivolta riguarda solo i sunniti: ma già il 20% degli iracheni inchioda sul terreno otto divisioni americane. Con l’attacco all’Iran, gli Usa si espongono alla ostilità anche degli sciiti.
Maurizio Blondet
Fonte:www.effedieffe.com
15.12.04
Note
1)David Ignatius, “Scary surprises in Mosul”, Wall Street Journal, 13 dicembre 2004.
2)In Vietnam, nei primi sei anni, gli Usa hanno avuto 7917 uomini uccisi in azione e 37.329 feriti. Se l’occupazione dell’Irak dovesse durare altrettanto, all’attuale ritmo di attrizione, alla fine le perdite Usa sarebbero di oltre 4 mila morti e 69,900 feriti, metà dei quali mutilati. Lo spettro di un altro Vietnam diventa sempre più vicino.
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