L’avventura di Bush e i consigli del duca di Wellington
DI PATRICK COCKBURN
Il duca di Wellington, temendo l’aggressiva politica della Gran Bretagna e contro l’avventato intervento militare all’estero, una volta disse: «le grandi nazioni non fanno piccole guerre». Intendeva dire che conflitti limitati possono infliggere terribili sconfitte anche agli Stati più potenti. Avendo visto cosa una piccola guerra in Spagna aveva fatto a Napoleone, sapeva bene di cosa stava parlando.
La guerra in Iraq assomiglia alla guerra dei Boeri nel 1899 e alla crisi del canale di Suez nel 1956. Sono tutte avventure rischiose che hanno provocato alla gran Bretagna più danni che altro. Questa guerra ha decisamente rafforzato al-Qaeda rifornendolo di un largo bacino di attivisti e di simpatizzanti all’interno del mondo islamico che non possedeva prima dell’invasione del 2003. La guerra, iniziata come una dimostrazione di forza da parte degli Usa, ha finito per essere una dimostrazione di debolezza. Le 135 mila armi pesanti schierate dalla Gran Bretagna in Iraq non riescono a controllare il Paese.
La campagna di attentati suicidi in Iraq è qualcosa di mai visto. Mai prima, un cosi alto numero di fanatici musulmani aveva pensato di uccidersi per distruggre i suoi nemici. In un solo giorno a Baghdad, questo mese, si sono fatte esplodere 12 persone.
Nell’ultimo anno si contano più di 500 attacchi suicidi in Iraq. Questa campagna si è oggi diffusa in Gran Bretagna e in Egitto. La guerra in Iraq ha radicalizzato una consistente parte del mondo islamico. Molti dei kamikaze in Iraq non sono iracheni, ma la rete di simpatizzanti e di sostenitori che forniscono loro alloggi sicuri, denaro, esplosivi, detonatori, veicoli e informazioni sono del posto.
Per quanto forte sia la smentita di Tony Blair e Jack Straw della tesi che sia l’ostilità contro gli invasori in Iraq ad aver motivato i kamikaze, questa si è dimostrata falsa. Un’indagine in corso di pubblicazione, condotta su 300 giovani sauditi, catturati e interrogati dai servizi segreti sauditi mentre si dirigevano in Iraq per combattere o farsi esplodere, mostra che solo in pochi avevano avuto contatti con al-Qaeda o altre organizzazioni terroristiche prima del 2003. E’ stata l’invasione dell’Iraq a motivare la loro decisione a morire.
Secondo questa ricerca, commissionata dal governo saudita e condotta da un ricercatore saudita formato negli Usa, Nawaf Obaid, autorizzato a parlare con i funzionari dei servizi segreti, i circa 36 sauditi che si sono fatti saltare in aria lo hanno fatto per queste ragioni.
Una inchiesta israeliana, condotta dalla Global Research del Centro di affari internazionali, su 154 combattenti stranieri in Iraq, porta alla stessa conclusione: l’unica causa del loro radicalizzarsi è l’Iraq.
Prima dell’Iraq, i kamikaze erano un piccolo gruppo nascosto; dopo l’invasione sono diventati una forza potente, la loro ideologia e la loro tattica sono stati adottati da gruppi di militanti islamisti in tutto il mondo. Il loro numero è ancora limitato ma sono abbastanza numerosi da creare disordine in Iraq e ovunque decidano di colpire, che sia Londra o Sharm el Sheikh.
I kamikaze hanno paralizzato Baghdad. Da quando è stato invaso, ho trascorso metà della mia vita in Iraq. Il Paese non è mai stato pericoloso come lo è oggi. Alcuni obiettivi sono stati colpiti ripetutamente. Il centro di reclutamento dell’esercito presso il vecchio aeroporto al- Mathana nel centro di Baghdad è stato attaccato non meno di 8 volte. L’ultima mercoledì scorso quando sono stati uccise 8 persone.
L’esplosione delle bombe suicide fa tremare le finestre della mia stanza nell’albergo al-Hamra. Alcune volte, pensando che il vetro stia per frantumarsi, mi rifugio dietro il muro sottile. L’albergo è totalmente controllato. C’è un uomo incaricato di cercare le bombe sotto le macchine che entrano nel complesso alberghiero. Ha uno specchio nella mano sinistra alla fine di un bastone e una pistola nella mano destra. Ha calcolato che se scopre un kamikaze gli resta una frazione di secondo per potergli sparare alla testa prima che il conducente azioni la sua bomba.
I kamikaze, o piuttosto il sistema di difesa contro di essi, hanno modificato l’aspetto di Baghdad. Le postazioni dell’esercito Usa e quelle del governo iracheno sono protette da mura di cinta e da enormi blocchi di cemento che serpeggiano all’interno della città. Questi megaliti, costruiti secondo forme diverse, e ciascuno con il nome di uno Stato americano, come Arkansas o Wisconsn, chiudono parecchie strade strangolando la città.
I media stranieri continuano a tacere sulle condizioni mortifere e anarchiche in cui si svolge la vita di tutti i giorni.
L’ultima volta che mi sono trovato a guidare nella parte occidentale di Baghdad dall’aeroporto nei primi di luglio, siamo stati improvvisamente fermati dal suono delle esplosioni. (…) Alcuni dei 12mila soldati delle forze paramilitari, cosiderati la punta più aggressiva dell’offensiva del governo contro i ribelli, avevano avvolto le bare contenenti i corpi di due dei loro ufficiali uccisi quella stessa mattina nelle bandiere americane. Le hanno caricate a bordo dei loro pick-up e trasportate attraverso il traffico facendo fuoco sulle nostre teste. (…)
Il governo, i cui membri raramente escono all’esterno della Green Zone, fanno incredibili sforzi per mostrare che ci sono segni di ritorno alla normalità. La scorsa settimana un giornale vicino al governo riportava un articolo sulla ricostruzione di Baghdad. Accanto c’era la fotografia di una gru vicino a un palazzo in costruzione. Ma a Baghdad non ci sono gru al lavoro. Il giornale ha preso la fotografia di una gru abbandonata da almeno due anni vicino ad una gigantesca moschea che Saddam Hussein stava facendo costruire.
Le politiche americana e britannica sono segnate dallo stesso tipo di pregiudizi. Il loro motto attualmente è: «tirare dritto in Iraq». Se questa può essere una buona pubblicità a casa loro, i funzionari del governo iracheno controbattono che Londra e Washington non hanno nessuna “strada” in Iraq sulla quale poter tirare dritto ma solo una politica di zig-zag senza fine.
Per gli storici che verranno, l’Iraq sarà probabilmente un nuovo Vietnam cosi come annunciavano le sagge parole del detto di Wellington sulle piccole guerre che possono degenerare in grandi conflitti. Paradossalmente gli Usa e la Gran Bretagna sostenevano che Saddam era a capo di una potenza militare che rappresentava una minaccia per i suoi vicini, ma in realtà sapevano che ciò non era vero e si aspettavano una facile vittoria.
Oggi scoprono terrorizzati che in Iraq ci sono persone ben più pericolose di Saddam e che sono impantanati in un conflitto che non possono vincere.
Patrick Cockburn*
Fonte:www.liberazione.it
28.07.05
traduzione di Veronic Algeri)
*giornalista americano vincitore nel 2005 del premio Martha Gelhorn per il reportage di guerra, riconoscimento al suo lavoro da inviato in Iraq. Il suo nuovo libro, The Broken Boy, è già stato pubblicato in Gran Bretagna.