DI DAHR JAMAIL
(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova, dedicata a Giuliana Sgrena, giornalista libera)
La devastazione dell’Iraq? Da dove devo cominciare? Dopo aver lavorato per sette degli ultimi dodici mesi in Iraq, sono sempre sopraffatto, già dalla stessa idea di accingermi a farlo, dai tentativi di descrivere questa devastazione.
La guerra e l’occupazione illegali dell’Iraq sono state condotte per tre ragioni, se bisogna credere all’Amministrazione Bush. La prima, si trattava delle armi di distruzione di massa, che però non sono mai state rinvenute. La seconda, perché il regime di Saddam Hussein intratteneva rapporti con al-Qaeda, cosa che non è stata mai provata, e questo è stato ammesso personalmente dallo stesso Bush. La terza ragione, che sta tutta nel nome assegnato all’invasione, “Operazione Libertà per l’Iraq”, risiedeva nella volontà di liberazione del popolo Iracheno.
Ecco dunque, all’oggi, l’Iraq è un paese liberato ! Alla breve, ho vissuto nella Baghdad liberata e nei suoi dintorni per dodici mesi, periodo nel quale mi sono trovato anche all’interno di Fallujah durante l’assedio di aprile e, più di una volta, dei militari mi hanno tirato dei colpi di avvertimento sopra la testa. Ho viaggiato nel Sud, nel Nord e in tutte le direzioni nel centro dell’Iraq. Pertanto, quello che ho visto nel corso dei primi mesi del 2004, nel periodo in cui era più facile per un giornalista straniero percorrere il paese, offriva un’idea, spesso prevedibile, degli orrori che sarebbero avvenuti durante il corso del resto dell’anno (e a colpo sicuro, anche nel 2005). È interessante ritornare al primo semestre, ormai dimenticato, dell’anno passato e di richiamare alla memoria a quale punto la situazione fosse orribile per gli Iracheni, anche nei primi periodi della nostra occupazione del loro paese.
Per gli Iracheni, all’epoca e ancor oggi, la nostra invasione e la nostra occupazione è stata una questione di… liberazione dei diritti dell’uomo (pensate un po’ : le atrocità commesse ad Abou Ghraïb sono state commesse proprio attualmente, là come in ogni altro luogo), di… liberazione da infrastrutture in condizioni ben funzionanti (riflettete ancora su questo : a tutt’oggi, la fornitura di energia elettrica funziona molto male, e questo vale anche per gli innumerevoli chilometri di condotte di gas o di reti fognarie nelle strade), di… liberazione dalla possibilità di vivere all’interno delle città (ulteriore riflessione: basta pensare a Fallujah, oggi, di cui la maggior parte è stata rasa al suolo dai bombardamenti aerei e da altri mezzi bellici).
Già a quell’epoca, gli Iracheni erano amareggiati, disorientati e dovevano vivere in una condizione di sconforto provocato dalle miriadi di promesse non mantenute dall’Amministrazione Bush.
Ciascun Iracheno liberato, per modo di dire, che mi è stato dato di incontrare in questi miei primi giorni di permanenza nel paese, ha avuto un parente o un amico che è stato ucciso dai soldati americani, o dagli effetti della guerra e dell’occupazione. Questi effetti comprendono la mancanza di cose assolutamente necessarie al vivere quotidiano, come il fatto di non avere abbastanza denaro per comprare da mangiare o per riscaldarsi, a causa della disoccupazione di massa e dei prezzi dei combustibili in forte aumento, ancora la minore delle innumerevoli altre nefandezze provocate dagli avvenimenti e dalle operazioni che sono state nominate in precedenza.
Le promesse non mantenute, le infrastrutture distrutte e le città dell’Iraq demolite, tutto questo era già nettamente visibile durante i primi mesi del 2004, e, cosa più triste, le devastazioni alle quali ho assistito non hanno fatto che diventare in seguito più gravi. L’esistenza che gli Iracheni conducevano un anno fa, per quanto fosse orribile, non era ancora che un preludio di quella che sarebbe arrivata, sempre sotto l’occupazione americana che continua.
I segnali forieri di una resistenza violenta in divenire erano ben visibili, a partire dalla distruzione delle infrastrutture fino a tutte quelle torture !
Le promesse non mantenute
Immediatamente è risultato lampante, persino ad un nuovo arrivato consacratosi al giornalismo e persino durante il corso di quei primi mesi dell’anno passato, che la effettiva natura della liberazione che noi stavamo portando in Iraq non aveva niente di sensazionale per gli Iracheni. Ben prima che i mezzi di comunicazione americani decidessero che era giunto il momento di fare il punto sugli orrori che si stavano perpetrando all’interno della prigione di Abou Ghraïb, la maggior parte degli Iracheni sapevano già che i “liberatori” del loro paese torturavano ed umiliavano i loro compatrioti.
Ad esempio, nel dicembre 2003, a Baghdad, un uomo, prendendo atto delle atrocità di Abou Ghraïb, mi ha detto : « Perché sono ricorsi a questo tipo di azioni? Saddam non ha mai fatto cose del genere! Non è un buon comportamento. Non sono venuti per liberare l’Iraq ! » E in quel periodo gli scherni dei “coalizzati”, assolutamente di cattivo gusto, cominciavano già a circolare. Con quell’umore nero che è diventato tanto popolare a Baghdad in questi giorni, un detenuto di Abou Ghraïb, liberato di recente, quando lo ho intervistato mi ha dichiarato: « Gli Americani mi hanno messo la corrente nel culo,… prima di portarla a casa mia! »
Sadiq Zoman è un caso assai tipico di quello che ho visto.
Portato a Kirkuk dalle forze americane, nel luglio 2003, era stato detenuto in un campo di prigionia militare vicino a Tikrit, prima di essere scaricato in stato di coma all’ospedale generale Salahadin. Il rapporto medico che lo accompagnava, firmato dal tenente colonnello Michael Hodges, dichiarava che il Signor Zoman si trovava in stato comatoso dopo una crisi cardiaca provocata da un colpo di calore, e assolutamente non menzionava che era stato bastonato sulla testa, nemmeno parlava di marchiature a fuoco provocate dall’applicazione di corrente elettrica che coprivano il suo pene e le piante dei piedi, e tanto meno delle numerose contusioni e delle tracce di fustigazione che portava su tutto il corpo.
A Baghdad, ho fatto visita a sua moglie Hashmiya e ai suoi otto figli in una abitazione praticamente vuota. Per poter sopravvivere, avevano venduto la maggior parte dei loro beni. Un ventilatore ruotava lentamente sopra il letto di Zoman che, lo sguardo assente, fissava il soffitto. Un piccolo generatore di energia tossicchiava all’esterno, visto che, in questo quartiere come del resto pressoché in tutta Baghdad, non si hanno che sei ore di corrente elettrica al giorno.
Sua figlia, Rheem, che andava alla scuola superiore, esprimeva così i sentimenti della sua famiglia quando mi dichiarava: « Io detesto gli Americani per avere causato tutto ciò. Quando hanno portato via mio padre, hanno preso anche la mia vita. Io prego che per noi sia possibile prenderci la nostra vendetta sugli Americani, che hanno distrutto mio padre, il mio paese e la mia vita. »
Quando mi sono recato da loro, nel maggio 2004, per l’appunto stava avendo luogo un processo in corte marziale contro uno dei soldati complici delle torture praticate in modo diffuso sugli Iracheni ad Abou-Ghraïb. L’uomo sarebbe stato condannato ad una mite pena carceraria, ma questo non aveva fatto alcuna impressione sugli Iracheni. Costoro si erano convinti, una volta di più, non che ne avessero provato il bisogno, che le promesse dell’Amministrazione Bush di rivedere i suoi regolamenti, concernenti la maniera di trattare gli Iracheni detenuti, non erano meno vuote di quelle che erano state fatte loro rispetto agli aiuti per la costruzione di un Iraq più sicuro e prospero.
L’anno scorso, le promesse chimeriche di sottoporre a procedimenti giudiziari il personale implicato in quei fatti odiosi, come pure le promesse di rendere la prigione di Abou Ghraïb più trasparente ed accessibile, sono piombate sui parenti angosciati che aspettavano alle porte della prigione nella speranza di intravedere all’interno i loro cari.
Sotto un sole opprimente di maggio, mi sono recato nella “zona di attesa”, polverosa, lugubre, strettamente sorvegliata intorno da barriere di filo spinato, all’esterno di Abou Ghraïb. Ho potuto sentire le storie assolutamente orribili, tutte quante, che raccontavano i parenti tristi, raccoltisi con ostinazione su questo tratto di terra battuta, con ancora la speranza, malgrado tutto, che fosse loro accordata una visita a uno dei loro cari imprigionati in questo orribile stabilimento di pena.
Vestito della sua dishdasha bianca, accovacciato in disparte sul fango indurito, la sua kefiyah che si agitava mollemente nel vento secco e caldo, Lilu Hammed aveva lo sguardo imperturbabilmente fisso sui muri alti della prigione così vicino, come se tentasse di scorgere suo figlio di 32 anni, Abbas, attraverso i muri di cemento. Quando il mio interprete Abou Talat gli ha chiesto se desiderava parlarci, trascorsero alcuni secondi prima che Lilu ruotasse dolcemente la testa e ci dicesse molto semplicemente: « Sto qui seduto, per terra, e aspetto l’aiuto di Dio. »
Suo figlio, senza essere mai stato accusato di una qualsiasi cosa, era ad Abou Ghraïb da sei mesi dopo che una irruzione in casa sua non aveva permesso di trovare alcuna arma. Lilu aveva con sé un foglio tutto spiegazzato di autorizzazione per un colloquio che aveva ottenuto e che gli prometteva di poter visitare suo figlio…fra ben tre mesi, il 18 agosto.
Come tutte le persone che ho interrogato sul posto, Lilu non aveva trovato consolazione ne’ dal recente processo alla corte marziale, ne’ nella liberazione di qualche centinaio di prigionieri.
«Questa corte marziale è una assurdità. Loro dicevano che gli Iracheni avrebbero potuto assistere al processo, ma non si è verificato il caso. È stato un processo burla.»
In quel momento, è passato rombando un convoglio di Humvee pieni di soldati, le armi puntate attraverso le piccole fenditure, e ha attraversato l’entrata principale del complesso penale, sollevando una spessa nuvola di polvere che ha avvolto tutto e tutti. La parente di un altro prigioniero, la signora Samir, scuotendosi di dosso la polvere, esclamava :« Speriamo solo che tutto il mondo possa vedere la situazione nella quale attualmente noi siamo ridotti! », prima di aggiungere con la voce rotta dal pianto: « Perché ci trattano così, perché ci fanno tutto questo?
»
L’estate scorsa ho intervistato una signora di 55 anni, molto gentile, che lavorava come insegnante di inglese. Era stata imprigionata per quattro mesi continuativamente in numerose prigioni…a Samarra, Tikrit, Baghdad e, naturalmente, ad Abou Ghraïb. Non le era stato permesso di dormire una notte completamente. Era stata interrogata a più riprese ogni giorno, non le era stato dato sufficientemente da mangiare e da bere acqua, non aveva potuto vedere un avvocato, nemmeno la sua famiglia. Aveva dovuto subire oltraggi verbali e psicologici.
Ma tutto ciò non era stata la cosa peggiore, questo mi ha confessato. C’era ben altro. Suo marito settantenne era stato ugualmente imprigionato e l’avevano pestato senza sosta. Dopo sette mesi di percosse ed interrogatori, era morto nelle prigioni dei militari americani, nella condizione di detenzione preventiva
Parlando di lui, la signora piangeva. « Mio marito mi manca. », singhiozzava. « Mi manca tanto».
Alzandosi e camminando per la stanza, scuoteva le mani, come se volesse far cadere gocce d’acqua…poi si stringeva il petto e piangeva sempre più forte.
« Perché ci fanno questo? » domandava. Ci diceva che non poteva semplicemente comprendere i motivi che avevano portato anche i suoi due figli ad essere imprigionati e la sua famiglia ad essere completamente dispersa. « Non abbiamo mai fatto nulla di male !» mormorava.
Una volta terminata l’intervista, siamo risaliti sulla nostra vettura e ci siamo resi conto che erano già arrivate le dieci di sera ed era troppo tardi per ritornare, e che attraversare le strade di Baghdad a quell’ora era troppo pericoloso. Allora la signora ci ha chiesto con insistenza che noi ci si fermasse per la cena, ringraziandomi tanto per aver voluto ascoltarla e di averle dedicato il mio tempo e di voler scrivere sulla sua storia orribile. Sono rimasto senza parole.
« No, grazie, bisogna che noi rientriamo, immediatamente », le ha risposto Abou Talat. In quel momento avevamo tutti voglia di piangere.
La vettura aveva imboccato una autostrada verso Baghdad e, nel procedere a tutta velocità sotto il chiarore della luna piena, restiamo in silenzio, Abou ed io. Alla fine, lui mi interpella: « Non potresti dire qualche parola ? Tu non hai nulla da dire ?»
Non potevo proprio parlare. Non avevo nulla da dire, niente di niente!
La distruzione delle infrastrutture
In tutto l’Iraq, si passa attraverso un contesto di infrastrutture smantellate e di assenza pressoché totale di ricostruzione. Quelle che gli Americani fanno proprio bene, ancora una volta, sono tante promesse e tanta propaganda.
Durante il periodo in cui l’Autorità provvisoria della Coalizione dirigeva l’Iraq, però stando insediata all’interno della Zona Verde di Baghdad, i loro opuscoli propagandistici spesso sono stati redatti con contenuti simili a quelli del volantino uscito il 21 maggio 2004: « L’Autorità provvisoria della Coalizione ha di recente distribuito centinaia di palloni da football [americano] ai bambini Iracheni di Ramadi, Serbala e Hilla. Le donne irachene di Hilla hanno cucito i palloni, decorati con la frase ‘ Tutti insieme, partecipiamo al nuovo Iraq ’. »
E tuttavia, quando si arriva alle fondamenta di questo nuovo Iraq, troviamo che la disoccupazione è al 50% ed è in aumento, e che i quartieri migliori di Baghdad non dispongono che di sei ore di elettricità al giorno e che non esiste alcun tipo di sicurezza, da nessuna parte. Anche andando indietro fino al gennaio 2004, prima che la situazione relativa alla sicurezza paralizzasse quasi completamente la maggior parte dei progetti attuali di ricostruzione, e nove mesi dopo la fine dichiarata ufficialmente della guerra in Iraq, la situazione rasentava già la catastrofe. Ad esempio, era divenuta normale la penuria di acqua potabile nella quasi totalità dell’Iraq centrale e meridionale.
A quel tempo, io lavoravo su un rapporto che tentava di mostrare con esattezza ciò che era stato ricostruito nel settore dell’acqua, un settore per il quale la “Bechtel” era in gran parte responsabile. Il 17 aprile 2003, questo gigante societario si era visto accordare un contratto fuori gara di appalto, sotto banco, di 680 milioni di dollari, che, in settembre, veniva portato a 1,03 miliardi di dollari. Più avanti, “Bechtel” riusciva a strappare un contratto supplementare di 1,8 miliardi di dollari per estendere i suoi programmi fino al dicembre 2005.
All’epoca, quando era molto più facile viaggiare per i giornalisti occidentali, io mi fermavo durante le mie uscite in molti villaggi a sud di Baghdad, in quello che gli Americani oggi chiamano “il triangolo della morte”, nella direzione Hilla, Najaf, Diwaniyah, solo per verificare la situazione dell’acqua potabile di quella gente. Nelle vicinanze di Hilla, un uomo molto anziano dai tratti scavati mi mostrava la sua pompa dell’acqua bloccata, a fianco di un bacino di riserva vuoto: non c’era più elettricità. L’acqua di cui disponeva il suo villaggio era acqua concentrata di sali che si riversava nelle condutture, visto che “Bechtel” non aveva fatto fronte ai suoi obblighi contrattuali, che consistevano nel rimettere in utilizzo un centro di trattamento delle acque che si trovava nelle vicinanze. Un altro villaggio di quella zona non aveva questo problema del sale, ma erano sempre più frequenti i casi di nausea, diarrea, calcoli renali, crampi e si era verificato persino qualche caso di colera. Potevo riscontrare che questa era la tendenza costante in tutti i villaggi che visitavo.
Il resto di questo periplo si era risolto in una visita frenetica a tutti i villaggi. Alcuni non avevano acqua potabile, nelle vicinanze o nelle prime periferie di Hilla, Najaf e Diwaniya. Hilla, vicino alla antica Babilonia, dispone di un nuovo sito per il trattamento delle acque e di una centrale di distribuzione sotto la direzione dell’ingegnere capo Salmam Hassan Kadel. L’ingegnere Kadel mi dichiarava che la maggior parte dei villaggi sotto la sua competenza non disponevano di acqua potabile e nemmeno delle tubature necessarie per riparare i loro sistemi idrici completamente distrutti, e proprio non aveva mai avuto contatti con la Bechtel o i suoi consociati.
Mi diceva di numeri rilevanti di persone che arrivavano con la consueta lista di malattie. « Bechtel spende tutto il suo denaro senza fare la minima ricerca. Bechtel ritinteggia dei fabbricati, ma non fa arrivare l’acqua potabile alla gente, che è morta per avere bevuto acqua contaminata. Invece di ripitturare edifici, domandiamo loro di consegnarci una sola pompa per l’acqua e noi l’andremo ad utilizzare per portare l’acqua a tanta gente. Non è cambiato nulla da quando sono qui gli Americani. Noi sappiamo che Bechtel sperpera denaro, ma non possiamo portare le prove. »
In un altro piccolo villaggio, fra Hilla e Najaf, 1500 persone utilizzavano per bere l’acqua di un rigagnolo sporco che scorreva lentamente vicino alle loro abitazioni. Tutti quanti soffrivano di dissenteria, molti avevano calcoli ai reni e un numero preoccupante aveva i sintomi del colera. Un abitante del villaggio, mostrandomi un bambino malato, mi diceva: « Si stava molto meglio prima dell’invasione. Allora, avevamo ventiquattro ore di acqua corrente. Attualmente, beviamo questa porcheria, perché è tutto quello che abbiamo.»
Il mattino seguente, mi trovavo in un villaggio vicino alla periferia di Najaf e che si trovava sotto la responsabilità dell’acquedotto di quella città. Era stata scavata una grande fossa nella terra, dove gli abitanti travasavano con un sifone l’acqua nelle condutture già esistenti. La buca sporca si riempiva durante la notte, quando l’acqua non veniva più convogliata nelle tubature. Quel mattino, dei ragazzini sfaccendati stavano tutti intorno alla fossa, mentre le donne vuotavano i residui di acqua sporca che si trovavano sul fondo. Tutti sembravano soffrire di qualche malattia provocata da quell’acqua e molti bambini, mi sarebbe stato detto dai paesani, erano stati ammazzati nel tentativo di percorrere una strada principale molto trafficata che portava ad una fabbrica dove infatti si poteva trovare dell’acqua potabile.
In giugno, sei mesi più tardi, visitavo l’ospedale Chuwader che, in quel periodo, trattava 3.000 pazienti al giorno a Sadr City, il gigantesco quartiere povero di Baghdad. Il dottor Qasim al-Nuwesri, direttore generale del complesso, immediatamente si mette a descrivere le battaglie condotte dal suo ospedale sotto l’occupazione. « Ci manca la quasi totalità dei medicinali.», mi diceva, e sottolineava che prima dell’invasione quell’eventualità era molto rara. « Sarebbe proibito, ma purtroppo ci tocca riutilizzare le siringhe per endovena, perfino gli aghi. Non abbiamo scelta !»
E poi, naturalmente, come gli altri medici con cui ho parlato, ha messo sul tappeto il loro tremendo problema dell’acqua, l’indisponibilità di acqua non inquinata in tutta quella zona: « Sicuramente riscontriamo la presenza del tifo, del colera, dei calcoli renali, ormai abbiamo anche l’epatite di tipo E, molto rara, ma che nel nostro settore è diventata molto comune.»
Abbandonando le strade di Sadr City, piene di acque reflue e cosparse di immondizie, sorpassiamo un muro sul quale qualcuno aveva scritto con la bomboletta “Vietnam Street”. Subito sotto, c’era la seguente frase, destinata senza alcun dubbio agli Americani liberatori: « In questo posto scaveremo la vostra tomba.»
Attualmente, in termini di devastazione di infrastrutture, altre zone di Baghdad cominciano a soffrire della medesima condizione per la quale soffriva allora Sadr City, e per cui sta soffrendo anche adesso. Benché i progetti di ricostruzione previsti per Sadr City si siano visti aumentare i fondi, per la maggior parte del tempo non ci sono quasi mai stati nemmeno segnali di lavori, e questo vale anche per la quasi totalità di Baghdad.
Visto che la mancanza di carburante si sta prolungando, si vede la gente in fila alle pompe di benzina che attende anche due giorni per poter riempire il loro serbatoio, e l’insieme della città funziona per quasi tutto il tempo con generatori e molte zone meno favorite, ad esempio Sadr City, non dispongono che di quattro ore di corrente elettrica al giorno.
Le città demolite
La tattica della mano pesante, per le forze di occupazione è divenuta un fatto abituale nella vita dell’Iraq. Ho intervistato persone che dormono regolarmente completamente vestite, visto che i raids aerei sono diventati ormai una consuetudine. Molto spesso, quando militari di pattuglia sono attaccati dai combattenti della resistenza nelle città dell’Iraq, i soldati aprono semplicemente il fuoco in tutte le direzioni e su tutto quello che si muove. In termini più semplici, la gravità delle perdite civili è imputabile ai raids aerei delle forze di occupazione. Queste circostanze orribili hanno provocato più di 100.000 perdite in vite umane di civili Iracheni in meno di due anni di occupazione.
Poi c’è Fallujah! I tre quarti di questa città oggi hanno subito bombardamenti e quindi sono ridotti in rovina, una città le cui rovine sono sempre il teatro di combattimenti, e comunque la maggior parte dei residenti ancora aspetta l’autorizzazione di rientrare nelle loro case, ma un gran numero di queste non esistono più.
Le atrocità commesse in questa città, in questi ultimi tempi, sono per una buona parte simili a quelle osservate durante l’assedio inutile della città messo in atto dai marines americani nell’aprile scorso, benché su scala più grande. Inoltre, questa volta, denuncie di famiglie all’interno della città, come pure le prove fotografiche, sembrano dare riscontro al fatto che l’esercito Americano ha fatto uso di armi chimiche e al fosforo e perfino di bombe a frammentazione. Quei residenti che sono stati autorizzati a rientrare nelle loro case nell’ultima settimana del 2004 si sono visti rifilare dei volantini prodotti dall’esercito che ingiungevano loro di non consumare alcun alimento proveniente dalla città, ne’ di berne l’acqua.
Nel maggio scorso, all’ospedale generale di Fallujah, alcuni medici mi hanno parlato dei tipi di atrocità che si sono prodotte durante il primo assedio di un mese della città. Il dr. Abdul Jabbar, un chirurgo ortopedico, mi ha dichiarato che si sentiva male solo al pensiero del numero di persone che avevano subito trattamenti in ospedale, come pure per il numero dei morti, e a proposito di questi non esisteva una registrazione ufficiale. Tutto era stato causato principalmente dal fatto che l’ospedale principale, situato sulla opposta riva dell’Eufrate, era stato isolato dai marines durante la maggior parte del mese di aprile, come d’altronde lo era ancora nel novembre 2004.
Il dr.Jabbar stimava che a Fallujah nel corso di quel mese di aprile fossero state uccise almeno 700 persone. « Io stesso ho lavorato in cinque dei centri clinici comunitari, e se noi mettiamo insieme le cifre di questi differenti centri sanitari, otterremo questo numero. E dovete tenere ugualmente conto del fatto che numerose persone sono state sepolte prima che arrivassero ai nostri centri.»
Quando il vento si è messo a soffiare dopo il quartiere vicino a Julan, l’odore putrido dei corpi in decomposizione, un fetore chiaramente tipico della città, non ha fatto che confermare una volta di più queste dichiarazioni. Inoltre, il dr.Jabbar insisteva sul fatto che l’aviazione Americana aveva sganciato sulla città bombe a frammentazione. « Tanta gente è stata ferita o uccisa da queste bombe a frammentazione. Ed è sicuro che sono state utilizzate bombe a frammentazione. L’abbiamo ben capito noi, che abbiamo curato le persone, che erano state vittime di questi ordigni!»
Il dr.Rashid, un altro chirurgo ortopedico ci dichiarava: « Quasi il sessanta per cento dei morti sono stati donne e bambini. Potete andare voi stesso a verificare le sepolture.» Avevo già visitato il cimitero dei Martiri e in effetti avevo osservato le tantissime piccole tombe che chiaramente erano state scavate per dei bambini. Era d’accordo con il dr. Jabbar a proposito del fatto che fossero state usate bombe a frammentazione e aggiungeva: « Ho visto con i miei stessi occhi le bombe a frammentazione. Non abbiamo bisogno di alcuna prova. La maggior parte di queste bombe sono piombate addosso sulle persone che in seguito abbiamo dovuto operare.»
Andando con il ricordo alla crisi sanitaria che il suo ospedale aveva dovuto affrontare, il medico faceva osservare che, durante i primi dieci giorni di combattimenti, i militari americani non avevano permesso assolutamente alcuna evacuazione da Fallujah verso Baghdad. Inoltre affermava: « Anche qualsiasi trasferimento di pazienti all’interno della città era reso impossibile. Ora, voi potete vedere le nostre ambulanze sul retro. I loro cecchini hanno sparato perfino contro l’ingresso principale di uno dei nostri centri.» Ed effettivamente molte ambulanze si trovavano nel parcheggio dell’ospedale, e due avevano dei colpi di proiettile nei parabrezza.
I due medici ci dichiararono che non avere mai avuto contatti con soldati americani e che l’esercito non aveva fornito loro il benché minimo aiuto. Il dr.Rashid riassumeva in questo modo la situazione: « Loro ci hanno inviato solo bombe, mai medicinali!»
Quando stavo tornando alla mia macchina, in un angolo in cui era particolarmente evidente la desolazione di Fallujah, un uomo mi ha afferrato per le braccia e mi ha urlato addosso : « Gli Americani sono dei cow-boys! Questa è la loro storia! Vedete bene cosa hanno fatto agli Indiani! Il Vietnam! L’Afghanistan ! Ed ora, l’Iraq ! Questo non ci sorprende!»
E questo, naturalmente, avveniva ben prima che iniziasse l’assedio totale della città, nel novembre 2004. La campagna di aprile a Fallujah, come risultato di una intensificazione della resistenza, si è dimostrata essere – alla maniera di molte delle cose che sono avvenute nel corso dei primi mesi del 2004 – non altro che un campione dei fatti che si sarebbero prodotti in seguito in una scala a dimensione ben più alta. Mentre l’obiettivo dell’ultimo assedio era stato quello di cercare di impantanare la resistenza e di offrire una sicurezza maggiore alle elezioni previste per il 30 gennaio, il risultato, come in aprile, era stato non importa quale, salvo un accrescimento della Pubblica Sicurezza.
Sulla scia della distruzione di Fallujah, i combattimenti si sono estesi ed intensificati semplicemente dappertutto. Oggi le famiglie fuggono da Mossoul, la terza grande città dell’Iraq, in ragione della messa in guardia contro una prossima campagna aerea di bombardamenti da scatenarsi contro i combattenti della resistenza.
Almeno un’automobile al giorno esplode nella capitale, questa è la norma!
Esplosioni si fanno sentire con una regolarità funesta per ogni dove, in Baghdad come in tante altre città, Ramadi, Samarra, Baquba e Balad.
L’intensificazione si riscontra in entrambi i campi avversi. Con un crescendo di violenza, la tattica dei militari americani non fa che inasprirsi e, quando succede questo, la resistenza irachena, d’altro canto, si accresce immediatamente in ampiezza e in efficacia. Qualsiasi forma di « assedio » contro Mossoul avrà come risultato l’intensificazione di queste dinamiche.
Malgrado un black-out dei media in seguito ai recenti assalti contro Fallujah, le storie di cani che divorano i cadaveri nelle strade della città e delle moschee distrutte si sono diffuse a macchia d’olio per tutto l’Iraq, come polvere trascinata dal vento, e informazioni di questo genere non fanno altro che mettere in evidenza che la maggior parte degli Iracheni credono oggi che i liberatori siano divenuti ne’ più ne’ meno che gli occupanti brutali del loro paese. Ed allora, la resistenza non fa altro che diventare ancora più intensa.
Pertanto, fra gli Iracheni, da molto tempo era stato previsto questo inasprimento della resistenza. Un momento rivelatore per me sono stati nel giugno scorso gli attentati suicidi con autobombe che avvenivano quotidianamente a Baghdad. Guardando le sequenze fotografiche che apparivano sugli schermi televisivi che mostravano le autovetture con i vetri infranti e le carrozzerie con gli impatti dei proiettili, il mio traduttore Hamid, un uomo di una certa età che si era da tempo stancato di tutta questa violenza, mi diceva con molta calma: « Hanno cominciato, e non è che l’inizio. Non si arresteranno proprio, nemmeno dopo il 30 giugno. » Il 30 giugno, era la data del passaggio di “sovranità “, certamente promessa da tanto tempo, ad un nuovo governo Iracheno, dopo il quale, questo predicevano infervorandosi gli alti responsabili americani, la violenza del paese sarebbe cominciata a declinare. Si tratta del medesimo schema di previsioni e di leggere la realtà che possiamo oggi vedere realizzarsi al contrario in quello che riguarda l’avvicinarsi delle elezioni.
Tre settimane fa, un mio amico, un notabile di Baquba mi ha fatto visita a Baghdad e abbiamo fatto colazione con Abdullah, un professore anziano, suo amico. Mentre stavamo mangiando, Abdullah esprimeva una sensazione che di questi tempi si sente espressa molto spesso: « I moudjahidin combattono per il loro paese contro gli Americani. Dal nostro punto di vista, questa resistenza è accettabile.»
Di recente, l’amministrazione ha aumentato i suoi effettivi in Iraq, portando gli uomini da 138.000 a 150.000, in modo, così affermano i funzionari, di assicurare una sicurezza maggiore all’avvicinarsi delle elezioni. Aumenti di effettivi di questa natura avevano avuto ugualmente luogo in Vietnam. All’epoca, questo veniva denominato come una escalation.
Quello che io mi domando è, se descriverò in un articolo nel prossimo gennaio, dal titolo « Irak : la devastazione », questi ultimi terribili mesi del 2004 (e dei quali il primo semestre dell’anno non era stato che un pallido presentimento), a loro volta questi mesi non verranno riconosciuti essere che una previsione a venire di nuovi orrori ? E allora cosa succederà nel 2006 e nel 2007 ?
Dahr Jamail è un giornalista indipendente di Anchorage, in Alaska. Egli ha passato sette degli ultimi dodici mesi a produrre reportages, a cominciare dall’Iraq occupato. I suoi articoli sono stati pubblicati dal The Sunday Herald, Inter Press Service, sul sito web di Nation Magazine, e sul sito internet di informazioni di New Standard, per conto del quale è stato corrispondente in Iraq. Inoltre, sempre in Iraq, è stato corrispondente speciale della emittente radio Flashpoints e ha partecipato presso la BBC a Democracy Now!, Free Speech Radio News e Radio South Africa.
Data: 7 gennaio 2005
Fonte: TomDispatch
Un grazie a Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova