DI MICHELE CASTALDO
“….La morte del brigatista rosso Prospero Gallinari ed i suoi funerali potevano essere l’occasione per chiudere definitivamente una
pagina tragica degli anni di piombo in Italia, e invece al suo funerale si sono risentiti slogan che rievocano quegli anni terribili”.
Così aprivano i maggiori telegiornali italiani nella giornata in cui si sono celebrati i funerali. Di qualche giorno prima, Giancarlo Caselli, sul giornale ‘Il fatto quotidiano’ del 18/1/13, metteva in guardia le nuove generazioni e in un articolo intitolato “Il paese dei cattivi maestri” scriveva: Prospero Gallinari, prima di intraprendere la carriera di brigatista “culminata” con la spietata esecuzione (forse) del “prigioniero” Aldo Moro, si era reso celebre anche per certe singolari sfide che lanciava, tipo mangiare venti calzoni di fila o stare a torso nudo, sotto un albero tutta la notte. La sua morte ha ora scatenato sul web una pattuglia di nostalgici irriducibili, pronti ad osannare la lotta armata anche nel nuovo secolo. Risulta così confermata la patologia che, secondo Barbara Spinelli, affligge molti italiani, spesso vittime di una perdita di memoria che sconfina nell’amnesia e porta a una profonda sottovalutazione del pericolo che si corre occultando il passato per la mancanza continuativa di una coscienza etica. Così prosegue – con effetti devastanti – l’appropriazione indebita dei valori della resistenza partigiana e dell’antifascismo da parte di chi non ha l’intelligenza o l’onestà intellettuale di condannare la violenza organizzata praticata contro una democrazia: un arbitrario che ha potentemente contribuito all’indebolimento di quei valori.
Di qui possiamo partire per una più ampia riflessione su quanto accade oggi nel nostro paese. Gran parte della società italiana appare oggi giustamente impaurita, sconcertata, inquieta. Incerta di fronte al futuro, che teme indirizzato verso derive pericolose. Ed ecco che masse di giovani sempre più frequentemente invadono le strade e le piazze delle città italiane: per esprimere disagio, protestare contro la situazione disastrosa della scuola e del paese in generale, per comunicare forte preoccupazione e timore per il futuro. Tutte ragioni legittime e sacrosante per manifestare, esercitando l’inalienabile diritto costituzionale di riunirsi per far valere pubblicamente e liberamente le proprie idee.
Se proprio non sono le “meglio gioventù” sono certamente ragazzi che vogliono vivere il presente con radicalità, dove radicalità significa respingere la tentazione di adagiarsi su logiche meramente difensive. Non consolarsi pensando che tanto non ne vale la pena: perché i giochi sono irreversibilmente fatti e le cose – gira e rigira – finiscono sempre nello stesso modo. Sono giovani che pensano al futuro non come a un domani esterno, ma come a un qualcosa che è dentro di noi e ci corre incontro. Un qualcosa che è preparato proprio dalle scelte che facciamo oggi. Giovani quindi che non concedono spazi alla rassegnazione, all’indifferenza, al disimpegno e al riflusso, se non addirittura al trasformismo e all’opportunismo, mali che nel nostro paese sono purtroppo assai diffusi. Giovani che manifestando sono anche capaci di critiche argomentate e intelligenti. Tanto intelligenti quanto più impermeabili agli idoli della seduzione e capaci di allontanare da sé ciò che appare appunto suggestivo ma di fatto distrae e può portare fuori strada. Rischiano di portare rovinosamente fuori strada invece le suggestioni che erutta il mondo parallelo e cupo in cui si nascondono personaggi ambigui che teorizzano e alimentano la violenza, sempre pronti a mescolarsi alle manifestazioni pacifiche per trasformarle in altro, con progressiva escalation verso forme di guerriglia urbana. Un mondo che spesso può contare sull’alleanza della miope e vile sottovalutazione (o compiaciuta indifferenza) di forze politiche e culturali che balbettano qualche frasetta di circostanza, invece di condannare senza speciosi distinguo, ma con determinazione e chiarezza, le esplosioni di violenza che frequentemente si registrano a opera di frange organizzate. In un paese come il nostro, che ha già vissuto la tragica esperienza di una violenza cominciata per le strade in coda a qualche corteo e poi via via cresciuta fino a pratiche terroristiche, non si può scherzare col fuoco. Se si vuole che il nastro non si riavvolga – col rischio di un nuovo, inesorabile imbarbarimento della vita civile e di una progressiva involuzione del sistema – occorre opporsi ai tentativi di bieca strumentalizzazione della gioventù (sia essa la “meglio” o meno) da parte di chi vorrebbe piegarla a logiche devastanti per la democrazia. Ancora una volta il silenzio e la contiguità su questi temi sono complici.
Fin qui l’articolo del giudice Caselli. Cerchiamo di capire bene alcune questioni che l’uomo delle istituzioni democratico-borghesi pone, a partire dalla morte di Prospero Gallinari, ovvero di un militante delle Brigate Rosse, una delle organizzazioni di un magmatico movimento di classe contro la ristrutturazione capitalistica in Italia, negli anni successivi al biennio 69/70.
Un primo rigoroso appunto al dottor Caselli: tutto il percorso politico del militante comunista Prospero Gallinari sarebbe inquinato fin dalla giovanissima età perché sfidava a mangiare calzoni e passare la notte a torso nudo sotto l’albero? Molto meschino come argomento, non si addirebbe ad un magistrato letterato, ma tant’è. Quando si ha la coscienza di classe sporca – e la magistratura in quanto struttura che si identifica con il principio de ‘La legge è uguale per tutti, quando non tutti, come si sa, sono uguali dinanzi alla legge – si scende molto in basso, si perde in dignità e pulizia intellettuale, non si va per il sottile, non servono argomenti, basta insozzare il soggetto incriminato,
criminalizzarlo, o magari ridicolizzarlo per renderlo del tutto poco credibile.
Il dottor Caselli parte perciò col piede giusto. Seppellito il morto, dopo averlo ridicolizzato, porge l’attenzione ai vivi, ai cattivi maestri, a quel mondo parallelo e cupo che strumentalizzerebbe giovani scemi alla Prospero Gallinari. Il povero dottor Caselli non potrebbe mai capire che le persone non sono cose che le si possono spostare da una parte all’altra o le si possano usare per fare questo piuttosto che quell’altro.
No, dottor Caselli, le persone sono esse stesse veicolo di necessità. In una società come quella capitalistica che da secoli produce – unitamente al progresso tecnologico – immani devastazioni, le necessità degli oppressi veicolano come esalazioni dal sottosuolo che emergono attraverso interstizi più svariati, e si esprimono in idee condensate fino a che i fattori determinati non ne contemplano la forza necessaria. Pertanto, tutte le idee e tutti i gruppi di persone che di quelle idee sono portatori, rappresentano il condensato di una ridotta forza di quelle necessità degli oppressi. Proprio perché quella forza appare separata e staccata, sembra ‘altro’ dagli interessi degli oppressi. Quelle
necessità che ad un certo stadio si esprimono in idee, dunque di forza ridotta, per forza di cose sono infantili e puerili, e veicolano attraverso “personaggi” dotati di una sensibilità, che sono il prodotto di fattori precedenti, nel caso in specie, di una generazione come quella degli anni 60/70, ovvero figli di una generazione afflitta dai disastri della guerra, di una guerra devastante.
Noi sessantottini e settantasettini che oggi siamo attempati e canuti, siamo il risultato delle ansie e delle paure dei nostri genitori, delle tragedie e dei lutti delle nostre famiglie, delle vedovanze e delle violenze delle nostre madri, dei pianti dei familiari dei nostri amici. Siamo il frutto della povertà e della fame patita per la vostra guerra.
In molti di noi c’era rabbia e voglia di bruciare il mondo intero, anche quando si aveva un posto di lavoro stabile, un buon impiego, una situazione familiare tranquilla. Era un fuoco che bruciava dentro e che nell’incandescenza di quegli anni andò lì dove l’istinto lo conduceva. Tutto ha una sua continuità storicamente materiale, niente nasce dal nulla, che un qualsiasi dottor Caselli, coccolato e ben pagato da un potere di sfruttamento e di oppressione, non è in grado di capire. Per lui proviamo, nonostante tutto, ma sì, umana commiserazione.
Se proprio si vogliono cercare dei cattivi consiglieri, dei cattivi maestri, ebbene bisogna cercarli in quei fatti e nei responsabili di quei fatti, in quella atroce perversione di un sistema come quello capitalistico che per accumulare ricchezza manda al macello milioni di uomini tanto in guerra quanto in pace.
Ma c’è qualche cosa che non quadra, egregio dottor Caselli. Perché se i gruppi politici che in quel magmatico movimento di classe contro la ristrutturazione capitalistica in Italia in quegli anni erano formati come lei sostiene da personaggi ridicoli, da scalmanati, sconclusionati, una sorta di armata brancaleone, come fa un moderno stato democratico a temerli? Perché li teme? Per cosa li teme? La risposta a questa domanda semplice, la fornisce lo stesso dottor Caselli: Gran parte della società italiana appare oggi giustamente impaurita, sconcertata, inquieta.. Ci permettiamo umilmente di aggiungere che i confini di tali preoccupazioni sono un poco più ampi del ristretto territorio nazionale. Ed allora vorremmo chiedere: perché è impaurita, sconcertata, inquieta? Cosa inquieta la gran parte della società italiana, una società opulenta di uno stato imperialista, una società democratica con le istituzioni salde e sicure? Venga al dunque dottor Caselli, non si nasconda dietro la foglia di fico. Cosa inquieta milioni di lavoratori, di proletari, di precari, di pensionati e cosi via, perché è questa la gran parte che è effettivamente impaurita, sconcertata e inquieta. E’ questa parte della società composta dai lavoratori dell’Ilva, della Fiat, della Richard Ginori, del Sulcis, delle comunità dove stanno sventrando le montagne per la costruzione della Tav, dei disoccupati, dei pensionati, dei precari, degli immigrati, dei giovani senza futuro e cosi via che preoccupa la tenuta dell’intero sistema di cui il dottor Caselli si fa interprete, e non dorme.
Ecco il vero fantasma che aleggia nuovamente sull’Europa, e non solo, cioè una crisi strutturale senza precedenti nella storia che produrrà un magma molto più incandescente di quello degli anni 60 e 70. Quando un operaio dice “non c’è prospettiva, siamo alla disperazione”, potrà anche suicidarsi, il singolo operaio – e quanti se ne sono suicidati! dottor Caselli – ma la massa si mette in moto, ed è un moto antisistema. In questo moto niente è prefigurato, niente è prestabilito, è un fiume in piena che rompe gli argini della civile convivenza, perché non c’è più civile convivenza. Questa è la verità.
Se è vero che la storia ha una sua connotata continuità è altrettanto vero che non si ripete mai uguale a sé stessa. Tutti noi militanti di quegli anni abbiamo questa consapevolezza, ovvero che si è chiuso un ciclo – dell’accumulazione del capitale – di cui noi, senza averne consapevolezza, fummo purtroppo facili profeti, e che come una “armata brancaleone” sotto l’insegna della falce e martello, raccogliendo dalla storia del movimento operaio e degli oppressi, frasi, slogan, concetti, tesi che per primi ci capitavano fra le mani, eravamo portatori di idee che condensavano alcune “banali” necessità, quelle di combattere le cause che portavano allo stillicidio di suicidi operai alla Fiat dopo
l’autunno 1980, le cause che portavano al disastro ferroviario di Viareggio, ai morti per cancro di lavoratori e cittadini per il Petrolchimico di Portomarghera, ai morti per tumore dei lavoratori e cittadini di Bagnoli, ai morti per l’incendio della Thissen Grupp, all’intossicazione dell’intero territorio di Taranto, degli oltre 20.000 omicidi sul lavoro, al criminale trattamento dei lavoratori immigrati, dei disastri ambientali, della distruzione del territorio, degli interventi militari all’estero per accaparrarsi le materie prime, dei bombardamenti sulla Yugoslavia per impossessarsi delle sue industrie e sfruttare a basso costo la sua manodopera e cosi via continuando all’infinito.
Certo, in quel cimitero di Coviolo, sabato 18 gennaio, si è voluta commemorare con fierezza questa consapevolezza, di essere stati cioè il veicolo di chi parla a futura memoria, di chi a suo tempo lanciò un urlo allarmante a quella classe operaia – da cui si proveniva e di cui si era parte integrante –, che si illuse di poter a lungo essere cooptata, integrata in un illimitato sviluppo capitalistico, facendosi cosi carico delle sorti dello stato, fino a farsi essa stessa attraverso il suo partito, ‘stato’, chiudendosi corporativamente alle aspettative delle nuove generazioni e che oggi paga amaramente le conseguenze di quella illusione, ovvero totalmente disintegrata come classe, senza un brandello di partito politico proprio, priva di vere strutture sindacali fuori e dentro i posti di lavoro, sfiduciata e impaurita. Sono i costi obbligati che storicamente una classe a fine ciclo deve pagare. Si sta aprendo una nuova fase, un nuovo ciclo, e quest’altro ciclo che si sta aprendo presenta delle incognite al cui confronto la tensione politica degli anni 60 e 70 ci fa la figura di una 16 volt rispetto all’alta tensione, perché il Sistema del Capitale, nella sua impersonale e folle corsa, ha accumulato tutte le contraddizioni racchiudendole in una sola gigantesca contraddizione: l’uomo e le forze produttive. Ovvero un Sistema vittima delle forze da lui stesso prodotte. Lo scoppio del quale sarà improvviso – come sempre nella storia – e violento, e quella straordinaria massa di lavoratori delle nuove generazioni, multirazziali e multicolori, che all’oggi sembrano – e in parte lo sono – dormienti e privi di nerbo, si desteranno e costituiranno il Nuovo Movimento Operaio, a cui i militanti di quegli anni non avranno parlato invano.
La memoria storica, per certi aspetti è come un attrezzo riposto in cantina, si prende quando serve.
Michele Castaldo
24.01.2013
via mail Dino Erba