DI TULAY UMAY
voltairenet.org
Il discorso dominante stigmatizza il velo “islamico” come segno religioso che mette in crisi il patto laico, come rifiuto comunitario di integrazione da parte della comunità, o ancora sottomissione al potere maschile.
Tuttavia la ricerca effettuata sul campo dalla sociologa Tülay Umay mostra un significato completamente diverso della scelta di questo indumento. Esso afferma un’identità femminile personale e incita gli uomini alla rivolta.
Le ragazze di famiglia immigrata che indossano il velo sono sempre più numerose. Le svariate misure adottate per vietare o limitare questa pratica non fanno altro che acuire il fenomeno. E’ vero sia in Belgio che in Francia. Sin dall’inizio, anche quando il velo era socialmente insignificante, era recepito come una minaccia per la nostra società. Sarebbe il cavallo di Troia dell’integralismo musulmano. Sarebbe un simbolo della sottomissione della donna.[1].
Si tratta in questo caso di un discorso che si sostituisce alla parola delle donne stesse. Si ritiene del resto che non sia necessario che esse parlino. Non avrebbero nulla di particolare da dire. Non sarebbero che semplici donne portatrici di valori che non appartengono loro, di valori che sarebbero quelli degli uomini della loro comunità. Portare il velo sarebbe un’imposizione. Sarebbe il prodotto di una dominazione diretta o risulterebbe dall’interiorizzazione da parte della vittima di questo rapporto. Sarebbe inutile interrogarle poiché le donne non potrebbero che riprodurre un discorso che le aliena.
Eppure, numerose ricerche mostrano che portare il velo è una scelta individuale e che questa scelta non può essere ridotta a quella di una vittima espiatoria. Alcune donne lo portano, altre no. In genere, in una stessa famiglia, alcune sono velate, altre no. Una decisione personale distingue quelle che portano il velo da quelle che non lo portano. E’ la possibilità di questa scelta che contraddistingue il velo della modernità.
Se ci si prende la cura di ascoltarle, e è quello che noi abbiamo fatto nel quadro di una ricerca sul campo, appare che questo fenomeno non è di ordine religioso, né discendente dalla comunità. Quando si interrogano queste giovani donne, esse mettono in evidenza la loro personale volontà, il cammino individuale che hanno percorso. In questo modo esse negano la lettura fatta dai media. Si oppongono alla visione di un velo imposto dalla famiglia, dal padre, dal marito. Spesso, esse fanno osservare che portano il velo in disaccordo con i familiari oppure parlano delle forti reticenze della famiglia nei confronti della loro scelta. Se diamo la parola alle ragazze, un elemento emerge: il velo non è né un ritorno alla tradizione né un riflesso della comunità. E’ una scelta di singole persone inscritte nella modernità. Del resto, l’osservazione del fenomeno ci mostra che tutto, in questo velo, fa riferimento alla modernità e non alla tradizione. Così, tempo fa, il foulard annullava il corpo della donna di fronte allo sguardo maschile. Al contrario oggi il velo è divenuto presenza del corpo femminile, presenza della donna nello spazio pubblico. Invece di nascondere il velo mostra. E’ l’atto di svelare grazie alla mediazione del corpo. Diventa quindi un mezzo per avere accesso al diritto di essere, di esistere in quanto individuo singolare.
Tutti i valori della tradizione sono ribaltati dal velo moderno, come la dissimulazione della donna, il suo ritiro dallo spazio pubblico e la riservatezza del corpo, così come la concezione dell’individuo come semplice riflesso della sua comunità.
Nella modernità il velo non è più passività, adeguamento dell’individuo alla norma, è presa di parola, affermazione dell’individuo. E’ quindi una soggettività che si dà il diritto di apparire. Il velo diviene lo spazio della voce, della parola, della soggettività della donna. E’ dall’atto del velare parzialmente il loro corpo che può discendere l’atto dello svelare la loro realtà, la loro interiorità.
Il velo è il sintomo della modernità. Nasconde e mostra al contempo. Questa copertura che è in sé anche rivelazione, è linguaggio, vale a dire simbolo che si rappresenta a partire dall’altro, a partire dalla società di accoglienza e dall’immagine materna.
Il discorso dei media o delle istituzioni nega la specificità del fenomeno inscritto nella modernità. Per questo esso fonde in sè diverse cose. Confonde il velo delle nostre società, che risulta da una scelta individuale, con quello della tradizione, che è un segno sociale, e quest’ultimo con il velo che esiste nelle società islamiche moderne, dove è imposto dallo Stato. Questo procedimento riduttivo non è esente da secondi fini. Si tratta di negare un fatto che turba l’ordine. Come la Sfinge, il velo ci pone degli interrogativi. Sottopone a critica il senso della modernità e ci riporta a noi stessi, ai nostri propri valori e alle nostre contraddizioni. In effetti, il velo non creerebbe disturbo in quanto simbolo della sottomissione della donna ma, al contrario, poiché appare come il sintomo del fallimento degli uomini. Questo elemento è al centro dei discorsi delle donne che portano il velo. Il velo evidenzia, mette in luce, l’incapacità degli uomini di far rispettare la loro comunità e soprattutto la loro incapacità di dare un nome alla discriminazione che subiscono. Il velo si sostituisce a questa mancanza. Ma non è una bandiera, non è l’espressione di un movimento sociale. Se dà un nome non è da intendersi nel senso del conflitto e del collettivo ma nel senso dell’individualità e della differenza.
Il velo non è sottomissione agli uomini, non è in genere imposto da loro, ma li sostituisce. Queste giovani donne non occupano il posto designato dalla comunità patriarcale. Sono le donne che ricollocano gli uomini al loro posto. Contrariamente alle femministe, non vogliono occupare il ruolo dell’uomo, ma vogliono che essi riprendano la funzione che hanno abbandonato, la capacità di rappresentare, di far riconoscere la loro esistenza, la capacità di trasmettere la cultura, di difendere la loro specificità culturale.
Il velo attuale è il simbolo del fallimento della funzione del padre, fallimento dell’uomo proveniente dall’immigrazione ma anche quello dell’uomo nella nostra società. Questo fenomeno che il velo mette in evidenza, è designato dalla teoria di Lacan in quanto “organico” all’insieme della modernità. Per fare ciò questa teoria utilizza il termine di “forclusione-del-nome-del padre”. La funzione del-nome-del-padre rappresenta il potere di dare il nome e di conseguenza di riconoscersi e di essere riconosciuto. Questa funzione è la capacità di uscire da una realtà stigmatizzante e di dire “io”. E’ questa funzione che il velo fa ritrovare. Il velo dice il proprio nome, dice “io”. E’ affermazione paradossale di un’autonomia. Si appoggia alla cultura per tentare di sfuggire a una mancanza, a un rifiuto di riconoscenza, a un’alienazione sociale.
Per ristabilire il legame sociale, la funzione del-nome-del-padre, il velo fa appello non più alle rappresentazioni paterne ma all’imago materna, a un’interiorità femminile che si fa esteriorità. Contrariamente all’immagine della donna veicolata dalla pubblicità, quest’esteriorità, il velo, non è più la forma dello sguardo dell’altro, dello sguardo dell’uomo ma vuole essere la forma dell’interiorità femminile, dell’imago materna. Queste donne si collocano quindi su un piano diverso rispetto al femminismo istituzionale che parte dai valori maschili per costituirsi un’identità. Si tratta allora di un elemento paradossale che spiega in parte l’incomprensione e il turbamento di questo fenomeno sociale.
Tülay Umay
Sociologa nata in Anatolia, vive in Belgio. Si interessa alle strutture sociali e psichiche della post modernità.
Come supporto concreto a questa ricerca la questione del velo detto “islamico” è oggetto di studio privilegiato, non come oggetto in sé stesso, ma come sintomo della nostra società.
Fonte: www.voltairenet.org
Link: http://www.voltairenet.org/article162762.html#article162762
3.11.2009
Traduzione per www.comedonchiosciotte.org a cura di ELENA R.
[1] Tülay Umay, Nos “valeurs” valent-elles plus que nos enfants?, Réseau Voltaire, 15 ottobre 2009 (I nostri valori valgono di più dei nostri figli?) ndt