DI ROBERTO BISSIO
Red del tercer mundo
L’economista turco Dani Rodrik ha appena vinto l’ambito premio Hirschman del Consiglio di Ricerche in Scienze Sociali degli Stati Uniti e, secondo gli intenditori, è un valido candidato al prossimo premio Nobel.
Rodrik insegna economia politica internazionale nell’Università di Harvard e dà conferenze che sono applaudite tanto negli ambienti più ortodossi quanto nei circoli contestatori, non perché sia eclettico bensì, come egli stesso riconosce nel suo blog (http://rodrik.typepad.com), “per infastidire allo stesso modo sinistre e destre“.
Così, in un articolo recente sui dilemmi monetari, si rivolge ora ai governatori delle banche centrali dei paesi chiamati “emergenti” (prima “in via di sviluppo” e prima ancora del “Terzo Mondo“) e dice loro che “sapranno che stanno avendo successo quando il segretario del Tesoro degli Stati Uniti busserà alla loro porta per dir loro che sono colpevoli di manipolare la sua moneta“.
Perché Rodrik crede che è raccomandabile manipolare la moneta, invece di lasciarla fluttuare liberamente e lasciare che sia il mercato a fissare il suo prezzo in relazione al dollaro? La risposta sta in una meticolosa ricerca sui tassi di cambio e la crescita economica che ha appena pubblicato ed in cui analizza la relazione tra monete svalutate o sopravvalutate e crescita economica in 187 paesi tra il 1950 ed il 2004, prima e dopo l’irruzione della globalizzazione.
La moneta sopravvalutata – cioè la rimanenza valutaria, un tasso di cambio che mantiene il dollaro economico – “è associata con scarsità di moneta straniera, corruzione, deficit insostenibili nei conti correnti e crisi di bilance di pagamenti, tutto ciò che danneggia la crescita economica“. L’esperienza dell’Argentina durante la convertibilità è l’esempio latinoamericano più notorio e tanto il buonsenso quanto l’ortodossia economica diranno che bisogna portare il dollaro al suo prezzo “giusto“.
Ma Rodrik va più in là. Non si tratta solo del fatto che il dollaro non sia artificialmente a buon mercato, ma un dollaro caro, cioè una moneta sottovalutata, è raccomandabile. Quello che l’analisi dei numeri dice senza dar adito a dubbi è che in paesi dalle entrate basse e medie – ma non nei paesi ricchi – “un incremento della svalutazione spinge la crescita.“
Tanto in India come in Tanzania, in Cina come in Uganda, la crescita economica è associata alla svalutazione della loro moneta. In Corea del Sud e Taiwan, le prime “tigri” asiatiche, la loro rapida crescita si è prodotta con monete basse ed ha cominciato a rallentare quando queste si sono rivalutate.
Ogni economia produce beni chiamati “scambiabili” che possono commerciarsi nazionalmente o internazionalmente, come le scarpe, e “non scambiabili” che possono consumarsi solo nel posto in cui si producono, come le case o l’acqua corrente. Non può importarsi acqua, benché sia molto economica in altre parti del mondo, né esportare case, benché ci sia gran domanda nel paese vicino. Una moneta sottovalutata renderà più care le scarpe importate e più competitiva l’esportazione di calzatura nazionale, ma rincarerà anche gli input importati necessari per produrre i beni non scambiabili. Quello che si guadagna da una parte si perde da un’altra. Di lì la necessità di un tasso di cambio “giusto” che porti in equilibrio entrambi… nei paesi sviluppati.
Perché, si domanda Rodrik, è stato storicamente vantaggioso per la crescita dei paesi in via di sviluppo favorire i beni scambiabili su quelli non scambiabili con monete svalutate?
Ci sono due risposte: falle istituzionali e del mercato. A livello istituzionale i paesi in via di sviluppo soffrono di corruzione, sistemi giudiziari imperfetti che fanno sì che spesso i contratti siano difficili da fare rispettare, regolamentazioni mutevoli ed imperfette e diritti di proprietà poco chiari o permanentemente discussi. In quanto ai mercati, questi soffrono per l’indisponibilità di conoscenza e tecnologie, della mancanza di coordinazione necessaria tra i distinti investimenti richiesti per avviare nuove industrie e meccanismi finanziari inadeguati che ostacolano l’accesso al credito per prodotti validi e costi della manodopera relativamente più alti per il settore formale che per l’informale.
Entrambi i fattori – istituzioni e mercati difettosi – colpiscono più i beni scambiabili che quelli non scambiabili, argomenta Rodrik: “Un parrucchiere ha bisogno di poco più che di alcuni attrezzi, una sedia ed il suo ingegno per vendere i suoi servizi, mentre un’industria richiede di coordinare una moltitudine di fornitori e clienti, oltre all’appoggio finanziario e legale“.
Mentre nei paesi ricchi la qualità delle istituzioni è comparativamente migliore e ci sono meccanismi per combattere le imperfezioni del mercato, il sottosviluppo sarebbe in sé una “imposta” sui beni scambiabili che li sfavorisce e la svalutazione della moneta una maniera di compensare questi costi invisibili. Una specie di “Piano B” che corregge gli squilibri strutturali, promuove il settore manifatturiero e l’agricoltura non tradizionale e, quindi, la crescita economica, l’impiego di migliore qualità e lo sviluppo tecnologico.
La brutta notizia è che mantenere la moneta svalutata non è facile. Appena l’economia comincia a crescere, aumentano le esportazioni, aumenta il lavoro e cominciano ad arrivare gli investimenti stranieri, l’abbondanza di dollari spinge il suo prezzo al ribasso. Se si interviene nei mercati valutari comprando dollari per mantenere il suo prezzo alto, come fanno Argentina e Cina, si accumulano riserve improduttive e l’inflazione può aumentare vertiginosamente. Se si tracciano obiettivi molto stretti d’inflazione e si lascia apprezzare la moneta, come in Turchia e Sudafrica, la politica economica – sempre secondo Rodrik – “sarà odiata da impresari, sindacati, dagli altri ministeri e da tutti eccetto i banchieri. La prima strategia è problematica perché insostenibile a lungo termine, la seconda è indesiderabile perché porta stabilità a detrimento della crescita.“
Tra tutti e due gli estremi, tuttavia, ci sarebbe molto spazio di manovra per aumentare il risparmio domestico e disincentivare gli investimenti speculativi o non produttivi, secondo formule che sarebbero uniche per ogni paese e, in ultima istanza, dipendenti da una conduzione politica focalizzata sugli interessi nazionali.
Ovviamente la cosa migliore sarebbe riformare le istituzioni ed i mercati e gran parte delle politiche di assistenza allo sviluppo sono dirette in questo senso, ma in ultima istanza questo equivale, come dice Rodrik, a “dire ai paesi in via di sviluppo che per diventare ricchi bisogna essere ricchi“.
Quello che si richiede, invece, sono “governi che non rinneghino le loro responsabilità né li passino spiritosamente ad agenzie esterne“, come il Fondo Monetario Internazionale – per il quale Rodrik ha lavorato prima di insegnare ad Harvard – ed invece esercitino il loro diritto di dire: “Grazie, no grazie. Lo farò alla mia maniera“.
Roberto Bissio
Fonte: www.redtercermundo.org.uy
Link: http://www.redtercermundo.org.uy/texto_completo.php?id=3294
6.12.07
Traduzione per www.comedonchisciotte.org di GIANNI GIULIANI