IL TUFFO

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DI SERGIO GARUFI
Nazione Indiana

L’11 settembre 2001 più di 200 persone si lanciarono nel vuoto per sfuggire alle fiamme e al fumo che avvolgevano il World Trade Center . Alcuni adoperarono una tovaglia come fosse un paracadute, altri si buttarono in coppia, tenendosi per mano. Furono chiamati jumpers, saltatori, ed esistono innumerevoli fotografie che li ritraggono sospesi nel vuoto in quei tragici istanti. L’immagine che più ha colpito l’immaginario collettivo ritrae una posa composta, armoniosa, da tuffatore.

Il protagonista precipita perfettamente in asse con l’edificio, la testa perpendicolare al pavimento che lo attende, quasi indifferente al suo destino, le braccia distese lungo i fianchi, i vestiti aderenti al corpo e una gamba leggermente piegata. Del volo di quest’uomo esiste una sequenza di 12 fotografie, tutte scattate da Richard Drew alle 9.41 di quella mattina. Negli altri scatti i movimenti sono scomposti, disperati, com’è naturale che siano. La casacca si apre e mostra una maglietta arancione, le braccia si allargano, la posizione del corpo ruota fino a diventare orizzontale, l’espressione del viso è allucinata, consapevole della fine.Le fotografie di Drew furono utilizzate per cercare di dare un’identità a quell’uomo. Due anni dopo l’attacco alle torri gemelle, Tom Junod della rivista Esquire scrisse un articolo dal titolo “The falling man“, in cui tentava di ricostruirne la storia. Attraverso ingrandimenti si notò che sua la pelle era scura, che il volto aveva un pizzetto, e che la giacca era del tipo di quelle in uso presso i dipendenti del Windows of the World, il ristorante all’ultimo piano della torre nord. Ben 79 impiegati di quel ristorante erano morti la mattina dell’11 settembre. Si pensò a un ispanico, Norberto Hernandez, che faceva il cuoco di pasticceria e viveva nel Queens. Inizialmente le figlie e la moglie si rifiutarono di parlare con i giornalisti. Alcuni miseri resti di Hernandez erano stati rinvenuti fra le macerie e il test del DNA aveva confermato la sua identità. Durante i funerali la figlia maggiore acconsentì a guardare l’immagine, e rispose che “quel pezzo di merda non è mio padre”.

L’idea disturbante e inaccettabile era quella del suicidio. Suo padre non poteva aver scelto di morire, sebbene la scelta riguardasse unicamente la modalità della propria morte, non il fatto di morire. La reazione della figlia, che qui e ora appare del tutto ingiustificata, a New York e in quei giorni rifletteva in realtà un sentimento diffuso, più di orrore che di pietas. I quotidiani che il giorno successivo alla tragedia pubblicarono quella foto furono subissati di telefonate, mail e lettere di protesta. L’accusa era di voyeurismo morboso, così la foto di Drew sparì dai telegiornali e dalla carta stampata per venir relegata nello spazio libero del web. Poco a poco tutte le immagini dei jumpers subirono la stessa sorte, prima riducendosi a piccoli punti indistinti ripresi in campo lungo, e infine totalmente censurate. Il tabù del suicidio, nel caso di Hernandez, si univa all’intollerabilità della qualità estetica dell’immagine. La morte non può essere bella, meno che mai una morte volontaria, seppur indotta, anche perché una morte bella può essere una morte desiderabile.

Pure David Foster Wallace l’aveva fatto notare, nel saggio intitolato La vista da casa della Sig.ra Thompson (incluso in Considera l’aragosta, Einaudi), parlando della “abominevole bellezza di quei filmati”. Tommaso Pincio, in uno splendido pezzo uscito sul Manifesto del 30/6, recensisce l’ultimo libro di Don DeLillo, intitolato The falling man(Scribner, pp.256, $26), e si sofferma sul brano in cui un artista, appeso a un cavo con un’imbracatura come un trapezista, mima la posizione ritratta nella celebre foto di Drew, suscitando per le vie di New York sdegno e irritazione nei passanti. Pincio sostiene che DeLillo intende mostrarci la qualità estetica di quella tragedia, qualcosa che molti pensano ma che nessuno oserebbe chiamare col suo vero nome: un’opera d’arte. In realtà qualcuno lo ha fatto. E’ il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen, che per questa dichiarazione scandalosa (”l’11 settembre è la più grande opera d’arte mai realizzata”) si vide annullare diversi concerti, non solo in America.

Del falling man di New York non conosciamo la precisa identità. Furono fatte altre ipotesi dopo il mancato riconoscimento della figlia di Hernandez, e tuttavia nessuna di queste tacitò del tutto i molti dubbi. Si optò alla fine per la soluzione più onorevole, quella di considerare la foto di Drew il monumento al milite ignoto di quel giorno di guerra non dichiarata.

Ma esiste un altro caduto di cui sappiamo tutto, grazie a un film girato da Eric Steel. Si tratta di Gene Romal Allen Sprague, 34enne di San Francisco, che alle 2 di pomeriggio dell’11 maggio 2004 (ancora un 11) si gettò dal Golden Gate. Le differenze col cosiddetto milite ignoto non sono da poco. Il primo si lanciò nel vuoto per sfuggire a un altro tipo di morte; il secondo a causa di una profonda depressione che lo minava da anni; come hanno riferito amici e parenti. Del primo conserviamo una sequenza di dodici fotografie, per la durata di pochi secondi, tutte relative a quel breve volo disperato; mentre del secondo abbiamo 90 minuti di riprese filmate, giusto il tempo di un film. Il film in questione (”The Bridge“) non è tutto su di lui. Riguarda altri 5 suicidi dal ponte (su un totale di 24 ripresi da Steel nel 2004), inframezzati dalle interviste ai conoscenti che ne ricostruiscono le biografie. Il regista prese spunto proprio da quell’articolo della rivista Esquire sui jumpers dell’11 settembre, e decise di chiedere, con motivazioni falsamente neutre, i permessi alle autorità locali per piazzare le telecamere sul ponte per un anno intero. Il Golden Gate è uno dei posti preferiti dai suicidi americani, li importa anche da fuori. E’ il fascino oscuro di questa icona della modernità, l’idea di terminare la propria esistenza in modo spettacolare da un luogo altamente simbolico, qui trasformato in un magnetico e beffardo cenotafio del Senso della Vita.

Il documentario di Steel ha vinto il Tribeca film festival, suscitando aspre polemiche sul voyeurismo di quelle riprese. Tranne in rari casi, i suicidi di solito avvengono in luoghi appartati, al riparo da occhi indiscreti. Le notizie che li riguardano si limitano a brevi trafiletti sui giornali, e gli stessi parenti non amano pubblicizzare la cosa, in alcuni casi giungendo perfino a negare la volontarietà dell’atto. Sul suicida continua a gravare il peso dell’interdetto religioso, che si esplica nel rifiuto di celebrarne la messa funebre (vedi il recente caso di Piergiorgio Welby), oltre che nella minaccia della dannazione eterna.

The Bridge è invece un film in cui gli attori principali sono tutti suicidi, gente che non sapeva di essere un attore e che non lo saprà mai. Alle accuse di voyeurismo Steel ha replicato affermando di averne salvati diversi, comunicando i movimenti sospetti alle autorità del ponte. E in effetti c’è una ragazza cui viene impedito all’ultimo di saltare. Quelle che la ritraggono sono tra le scene più inquietanti della pellicola. Si vede una giovane che scavalca il parapetto e un ragazzo vicino che sta fotografando la vista dal ponte. Accortosi delle intenzioni suicide volge l’obiettivo su di lei, e continua a scattare fino a che un sussulto di coscienza lo spinge a desistere per recuperarla quando lei si sta già sporgendo nel vuoto. Nel film compare pure l’intervista a un sopravvissuto, un ragazzo che si è gettato nell’abisso e miracolosamente non è morto.

Ma è Gene Sprague l’interprete principale, è lui l’atto d’accusa definitivo nei confronti di Steel. Lo si vede subito, pedinato dalla telecamera mentre cammina pensieroso sul ponte. Poi le riprese inquadrano altre storie, le parole investigano altre solitudini, ma le immagini di questo ragazzone dai lunghi capelli scuri completamente vestito di nero che cammina avanti e indietro fanno da trait d’union agli altri casi, e dopo poco s’intuisce che a lui spetterà il compito di chiudere in bellezza il film. Lo si capisce per esempio dal fatto che le testimonianze che lo riguardano risultano meno profonde e commoventi delle altre, restituiscono il profilo biografico di un giovane sicuramente tormentato, senza lavoro e con la madre da poco morta di cancro, un sognatore incapace di stare coi piedi per terra, che si considerava una nullità e che con gli amici scherzava spesso sui suoi propositi autodistruttivi, a tal punto da non essere quasi più creduto, o ascoltato. Gli altri casi denunciano sofferenze che sembrano più autentiche, se non altro per le parole più ispirate di coloro che le raccontano, ma il loro difetto imperdonabile è di natura estetica: il tuffo di questi poveretti somiglia troppo alle istantanee scartate da Drew, perché la posa è goffa, impacciata, poco consona a un momento così solenne, a quel tragico suggello.

Gene Sprague no. Dopo un lungo e angosciante peregrinare su e giù per il Golden Gate, sostando per qualche minuto sulla balaustra con lo sguardo perso nell’acqua sottostante, o ricomponendo i lunghi capelli scompigliati dal forte vento, a un certo punto Gene si è issato sulla ringhiera, di spalle, e in piedi, incurante di tutto, si è lasciato cadere all’indietro con un volo elegante, armonioso, uno schiaffo in faccia a questa vita sgraziata, in cui le cose non vanno mai per il verso giusto, non vanno mai come le avevamo immaginate.

Sergio Garufi
Fonte: http://www.nazioneindiana.com/
Link: http://www.nazioneindiana.com/2007/07/09/il-tuffo/
09.07.2007

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