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IL TRIONFO DEL CAPITALE E LA DEFORMAZIONE DELLA REALTA’

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A cura di Davide
Il 1 Giugno 2008
46 Views

DI ADRIANO SEGATORI
Centro Italicum

“Ciò che non serve a nulla è considerato vile, privo di valore; tuttavia ciò che serve è soltanto un mezzo”.(1)
(Georges Bataille)

Che il denaro abbia determinato una deformazione del corpo comunitario ed una alterazione dei rapporti tra i suoi membri è cosa nota e studiata da tempo. Correva l’anno 1500 quando Lutero – il monaco delle 95 tesi sulle indulgenze – definiva il denaro sterco del Demonio e creatore del mondo, in opposizione a Dio creatore di verità attraverso la parola. Quindi, nessuna novità sul fronte della seduzione mercantile.
La ricerca del guadagno, la volontà dell’incentivazione degli utili, la pulsione all’accumulo, la manifestazione di avidità sono condizioni presenti nella struttura antropologica, ma sempre e comunque considerate come tendenze da limitare o deviazioni da condannare.

Il problema nasce nel momento in cui il denaro diventa componente psichica, una larva che mobilita le forze infere dell’uomo, la sua ombra più invadente, la motivazione più pervasiva. Da strumento di benessere e di sussistenza si trasforma in fine, una fonte tanto insoddisfacente quanto velleitaria di felicità e di riconoscimento. L’economia – il metodo di gestione del denaro – è sempre esistita. Aristotele definisce bene il fenomeno dello scambio e della sua equità: “Per questo, tutto ciò di cui si dà scambio deve essere in qualche modo commensurabile. A questo scopo è stata inventata la moneta, che è divenuta in un certo modo un intermedio, dato che misura tutto, cosicché misura sia l’eccesso che il difetto (…)” (2) , quindi una semplice unità di misura che – attraverso dei riferimenti condivisi – permette di definire il giusto e di controllare l’abuso. Ma altrettanto bene circoscrive il paradigma unitario dello scambio e della moneta: “Questo è, in verità, il bisogno, che tiene unite tutte le cose (…)” (3) , perché se tutti avessero tutto a sufficienza nessuno scambio potrebbe essere possibile per mancanza di una necessità reciproca.
La moneta, perciò, quale strumento di reciprocità materiale e quale oggetto simbolico, codificava un sistema di uguaglianza, di commensurabilità e di lecita contrattazione.
Naturalmente gli oggetti di trattativa dovevano essere stimati secondo una specifica natura, e la stima doveva essere condivisa; ed in questo dispositivo si definiva la produzione dell’oggetto in questione: quello per l’uso e quello per lo scambio. Nel primo caso la necessità era funzionale, nel secondo puramente simbolica. (Questa differenza è particolarmente accentuata e facilmente esemplificabile in due oggetti del nostro tempo come l’automobile e il telefonino, che sono diventati da mezzi di trasporto e di comunicazione a segni di potere e di stato sociale, o almeno di sovvertita classe sociale).
Fino a qui nulla di scandaloso, e niente fa presagire la devastazione morale della quale saremmo stati vittime e spettatori tanti secoli dopo. La normalità di questo pensiero è tutta legata alla presenza di una misura materiale, di una entità concreta e palpabile, di un prodotto costruito dall’uomo per una sua facilità comparativa: la moneta; quella moneta che assumeva importanza diversa a seconda del suo materiale di costituzione, e sulla quale si riproducevano teste di imperatori e commemorazioni memorabili; ma non solo, una moneta che poteva anche essere, semplicemente, sostituita con “merci durevoli di generale utilità”(4) .

In questo quadro di economia primitiva esistono delle parole-chiave che inquadrano il sistema economico all’interno di una dinamica di concretezza, di una relazione di realtà: equità, necessità, sussistenza, mezzo, scambio, bisogno.
La moneta rappresentava – nelle sue specifiche rappresentazioni – la fiducia che la merce avesse il valore prescritto e che lo scambio avvenisse sulla base dell’onestà. Nulla era concesso ad una possibile speculazione né c’era spazio per traffici disonesti o per trattative equivoche. Basti pensare, per usare un esempio infantile, l’avvertenza dei maestri elementari quando spiegavano la metodologia delle addizioni e delle sottrazioni: “Mele con mele e pere con pere”; in altre parole, ogni operazione doveva essere valutata e conclusa per concretezza e analogia di genere. Solo il simile con il simile, o il diverso condiviso, potevano entrare in rapporto matematico e in valutazione di scambio.

“Il vero uomo d’affari non guadagna il denaro né per i godimenti che procura né per vivere con splendore, non lavora per sé né per i suoi: il denaro è guadagnato per essere investito, deve essere impiegato solo perché aumenti, avendo valore e senso solo l’arricchimento senza fine che esso induce”.(5) (Georges Bataille)
Il cambiamento di mentalità e di prassi avvenne nel momento in cui la moneta perse la sua caratteristica di concretezza di uso, di mezzo, per diventare denaro, quindi un concetto astratto, una ipotesi mercantile, una promessa – secondo una felice definizione di Massimo Fini. È sulla speranza, sull’impegno, sulla garanzia, sull’assicurazione che si gioca il potere del denaro. Il denaro si trasformò in una entità che permise una costruzione proiettata nel futuro. E da questa opzione che si fonda la pulsione all’accumulo. Si investe per accaparrarsi più futuro possibile, si risparmia per avere più potere possibile, ci si assicura per avere più garanzie possibili. Il denaro assume la valenza di un amuleto, e il suo accaparramento un rito esorcistico in nome del “Non si sa mai…”: non è la paura della malattia, il rischio incombente della morte, l’incognita di un evento esistenziale a pervadere di ansia la quotidianità, ma l’angoscia di mancanza di denaro. Non si parla, in questo caso, della ormai famosa “quarta settimana”, della difficoltà di far fronte alle necessità primarie in una crisi sempre più pressante, ma del sovrappiù, dell’eccedente, del superfluo.
Ed è proprio questa spinta ansiogena all’opulenza – spesso virtuale e precaria – che fa perdere all’uomo il senso essenziale di questa questione: che il denaro è un mezzo per vivere, e la vita non può essere sacrificata per esso invertendo in maniera perversa i termini del discorso.

Il lavoro con il quale ci si dovrebbe procurare il benessere non può diventare fonte di malattia per una affannosa rincorsa alle seduzioni di mercato, né è salutare il famoso invito di “lavorare di più-guadagnare di più-comperare di più”, in un cortocircuito patologico di fatica e di insoddisfazione.
Del resto, è il denaro nella sua valenza di finalità fine a se stessa che ha “inventato” la speculazione finanziaria, ossia quel dispositivo autoreferenziale ed autoregenerantesi che sganciando la sua funzione dal valore della merce è diventato merce esso stesso: “Il denaro finanziario è denaro che opera su se stesso, è denaro che compra altro denaro”(6 ). È da questa perversione che nasce quel fenomeno moralmente ributtante e penalmente punibile – in continua espansione e con punti franchi istituzionali quali le banche – che ha magistralmente reso in poesia il grande Ezra Pound: l’usura.
È inutile gridare allo scandalo quando si denunciano le banche per i tassi di interesse da strozzinaggio. Le banche sono di per sé – e a maggior ragione nell’anomalia di una Banca di Italia ghermita dalle grinfie dei privati – un apparato riconosciuto legalmente e preposto alla usura: “La banca trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla. Istigazione semiprivata / disse il sig. Rothschild, uno dei tanti Roth-schild / verso il 1861 o ’64, Saranno in pochi a capirlo. / Quelli che lo capiscono saranno intenti a trarne profitto. / Il grosso pubblico forse non vedrà mai / che è contro il suo interesse.”(7) .
Nasce così il capitale, dalla smaterializzazione (8) del denaro, dal dissolvimento della sua concretezza; e in un circuito scellerato, più diventa impalpabile la sua presenza attraverso la finanza telematica, più le transazioni diventano virtuali, anonime, irreali e più la sua presenza si fa pervasiva a corrodere uomini, società e stati, imponendo la sua spettrale presenza sui destini fisici, morali e spirituali di intere comunità.

“[Il] capitale (…) è un movimento di rapacità impersonale dominato nel suo sviluppo da un’estrema indifferenza per gli interessi privati e per l’interesse pubblico”.(9)(Georges Bataille)
Sembrerebbe una banalità, ma è il capitale che fonda il capitalismo: senza il primo presupposto non esisterebbe il conseguente dispositivo. E in sé anche il capitalismo potrebbe apparire come un semplice “sistema economico-sociale fondato sulla separazione tra capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione dal cui impiego ricavano un profitto, e lavoratori che vendono la propria forza-lavoro in cambio di un salario”(10) . In realtà, alla fatuità del capitale corrisponde un’infiltrazione metastatica del capitalismo, diventato una vera e propria visione del mondo, un omologante stile di vita. Il suo trionfo confermato con la vittoria sulle potenze dell’Asse nella seconda guerra civile europea (1940-1945) – perché di affermazione militare del capitale si è trattato, e non della democrazia come mistificano i maggiordomi del pensiero unico – ha invaso ogni aspetto della vita personale e societaria, alterando stili di vita, comportamenti interpersonali, destini, rapporti con il mondo circostante e la natura come habitat originario.
Attraverso la sua opzione filosofica – il materialismo – e la sua prassi meccanicistica – la tecnocrazia –, il capitalismo ha creato dal nulla quella chimera seduttiva che si chiama progresso indefinito.
Esso ha reificato la natura rendendola oggetto passivo di sfruttamento e di manomissione, determinando la devastazione ambientale che si va lamentando attraverso due strategie convergenti e sinergiche: lo sfruttamento selvaggio delle risorse e l’implementazione incontrollata dei consumi.
Ha ridotto l’uomo ad animale produttivo, a fenomeno di marketing, ad argomento di manipolazione, il tutto deformando i parametri stessi della vita: da un lato, ha scombinato i rapporti vita morte con la manipolazione della prima e la meccanizzazione della seconda; d’altro ha invertito fini e modalità lavorative, contraendo il tempo creativo e dilatando il tempo della prestazione, il tutto con la minaccia della precarietà e il capestro dell’insicurezza.
Ha scardinato i legami comunitari rendendoli precari accordi utilitaristici tra soci, ha alterato la stessa concezione del limite e delle opportunità, con la conseguenza di contrattualizzare relazioni sentimentali e rapporti educativi. Ha isterilito la politica degradandola a comitato di affari e riducendola a miserevole ancella dell’economia, in una organizzazione transnazionale senza identità, senza radici, senza destini.
E potremmo continuare nell’elencazione delle derive del mercantilismo e delle infezioni del capitalismo. Perché il capitalismo, prima ancora di essere una concezione economica, è una vera e propria visione del mondo, una dispositivo creatore di irrealtà.

Allora, la domanda che ci si pone è: potrà manifestarsi una crisi del capitalismo se la sua stessa esistenza è fondata dalla creazione di un’entità-altra, da un delirio di onnipotenza che pervade ogni espressione della sua presenza, da una realtà-altra entro la quale l’uomo e la natura sono completamente immersi? I miei dubbi sono fortissimi in proposito.
Lucidamente non credo che in maniera atraumatica si possa intervenire su questo fenomeno metastatico, per altro stupido come tutte le cellule del cancro che nella loro folle ed incontrollata riproduzione portano alla morte il corpo che colonizzano e, nello stesso tempo, si autoeliminano alla morte di questo.
Sono convinto, però, che attraverso due strategie – il comunitarismo e la decrescita –si possa intervenire su settori sociali e dispositivi collettivi in maniera mirata e circoscritta. Le avanguardie di questa scommessa hanno un compito educativo di primaria importanza: rendere consapevole la massa della condizione di passività e di anestesia nella quale si trova e nella quale i poteri forti esigono che rimanga; rianimare quel senso di appartenenza e di destino che, solo, può rendere credibile ed attuabile un processo di decrescita (11) salutare.

Questa impostazione di pensiero va ben oltre la semplice programmazione economica, l’applicazione dei correttivi di mercato, il ripensamento delle basi capitalistiche: essa implica una vera e propria rivoluzione culturale che ridisegni creativamente gli stili di vita e, con essi, le modalità di stare al mondo. Si tratta di rimettere in discussione il tempo nella sua percezione e nella sua suddivisione quotidiana, la logica del lavoro nella sua minuziosa organizzazione, il significato della produzione e del consumo nell’efficientismo della prima e nella mistificazione del secondo, il senso della vita dell’uomo e della sua comunità di appartenenza. È, nel principio e nella prassi, la consapevolezza di un altro mondo possibile, quindi la volontà di un progetto politico nuovo e radicale che creda e combatta per “il cambiamento dei valori [che] dà luogo a una visione diversa del mondo e dunque ad un altro modo di vedere la realtà” (12) . Un processo rivoluzionario, questo, di destrutturazione della realtà deformata in cui siamo immersi e la restituzione delle vita alla realtà vera ed autentica.
E se questa realistica utopia non potrà essere goduta dai presenti rimarrà a testimonianza di chi non si è arreso e di chi, almeno, ha avuto il buon senso di attrezzarsi in vista di una catastrofe annunciata.

Adriano Segatori
Fonte: www.centroitalicum.it
Link: http://www.centroitalicum.it/giornale_2008/2008_34_segatori.php
Aprile-maggio 2008

Note

1 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, Adelphi, Milano, 2000, p. 26.
2 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Laterza, Roma-Bari, 2005, V, 1333a, p. 191.
3 Ivi, 1333a, p. 193.
4 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
5 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., pp. 60-61.
6 M. FINI, Il denaro , Marsilio, Venezia, 1988, p. 196.
7 E. POUND, I Cantos, Mondadori, Milano, 1999, XLVI, p. 453.
8 M. FINI, Il denaro , cit., p. 201.
9 G. BATAILLE, Il limite dell’utile, cit., p. 78.
10 ENCICLOPEDIA L’UNIVERSALE, Garzanti, Milano, 2003.
11 Cfr. A. de BENOIST, Comunità e decrescita, Arianna, Bologna, 2006.
12 S. LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino, 2008, pp. 46-47.

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