IL SORPASSO

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DI GIANLUCA FREDA
Blogghete!

La recente querelle tra Italia e Spagna su quale dei due paesi abbia il PIL pro capite più grosso avrà certamente richiamato alla mente di molti certe competizioni da caserma, altrettanto squallide, ma nelle quali – se non altro – il vincitore era proclamabile con misurazioni semplici e obbiettive che garantivano un grado di affidabilità assai più elevato. Qualche giorno fa Zapatero, alla ricerca di una strategia elettorale con cui affrontare le vicine consultazioni di marzo, ha fatto il grande annuncio: secondo i dati Eurostat la Spagna avrebbe raggiunto nel 2006 il 105% della media comunitaria del PIL pro capite (la ricchezza prodotta divisa per la popolazione), mentre l’Italia sarebbe scesa dal 105% al 103%.

La Spagna di Zapatero avrebbe dunque sorpassato l’Italia di gran carriera, approfittando dell’occasione per mostrarle, sghignazzando, il dito medio dal finestrino. Prodi se l’è presa a male. “Sono tutte bubbole”, ha dichiarato, e ha presentato altre statistiche – quelle della Banca Mondiale, del Fondo Monetario Internazionale e perfino della Cia (!) – secondo le quali il sorpasso sarebbe solo immaginario. Ad esempio, secondo i criteri di valutazione della Banca Mondiale, elaborati con un sistema pomposamente denominato “International Comparison Program”, l’Italia sarebbe ancora al 28° posto nella classifica del PIL pro capite (con 32.020 $ a cranio), mentre la Spagna, pur in crescita, arrancherebbe al 33° posto (con 27.570 $ a testa).Prima considerazione: tenendo conto delle suddette posizioni in classifica e del fatto che nei paesi europei meno inguaiati il PIL pro capite si aggira intorno al 110% della media comunitaria, la competizione tra Italia e Spagna somiglia molto a una disputa tra servi. Personalmente mi ricorda certi miserabili battibecchi a cui assistevo quando lavoravo in fabbrica: operai stanchi, disperati e con salari da fame, si vantavano con i colleghi quando ricevevano 100 micragnosi euro aggiuntivi di una tantum in busta paga. Non tanto perché questa elemosina li rendesse meno affamati, ma perché essa sarebbe stata (secondo loro) il segno tangibile della predilezione del padrone nei loro confronti. Era una specie di competizione all’ultimo sangue su chi fosse lo schiavo migliore, molto simile a questo decathlon statistico tra i paesi più sfigati d’Europa. Chi avrà ragione? Quale sarà, osservato alla moviola, il verdetto finale di questa appassionante sfida tra mendicanti?

Se dovessi ergermi ad arbitro di questa partita, moralmente assai poco esaltante, credo che darei il mio voto alla Spagna. La verità è che la Spagna non ha ancora superato l’Italia nel “PIL pro capite assoluto”, ma l’ha surclassata da tempo nel “PIL pro capite a parità di potere d’acquisto”. La differenza di valutazione di Eurostat rispetto alle statistiche (truccate) di Banca Mondiale e FMI sta tutta nell’astuto inghippo di includere o eliminare dalle statistiche stesse la correzione ppp. Banca Mondiale e FMI sono accorsi in aiuto dell’onore ferito del più fedele tra i loro servi, senza tener conto del fatto che il potere d’acquisto del cittadino spagnolo è molto più alto di quello del cittadino italiano. Precarietà lavorativa, assenza di ammortizzatori sociali, stipendi da fame sono fenomeni ampiamente diffusi anche in Spagna. Però a Barcellona, con 600 euro al mese, si può affittare un appartamento di due-tre locali nel quartiere storico della Ribera, a due passi dalla cattedrale gotica di Santa Maria del Mar. In Italia un appartamento delle stesse dimensioni, in una zona analoga (diciamo in una zona storica di Roma) si affitta a non meno di 1.000-1.200 euro al mese. Un appartamentino in pieno centro a Barcellona (a Las Ramblas) si affitta a 850 euro al mese. A Roma andremmo sui 1.800 euro. Da tenere presente che nel prezzo degli affitti spagnoli è compreso – non sempre, ma in molti casi – anche il consumo di energia e riscaldamento elettrico. Grazie infatti allo sviluppo nel campo dell’energia eolica, solare e nucleare, i consumi energetici spagnoli sono così a buon mercato che i locatari possono spesso permettersi di integrarli nella quota mensile di locazione, a prescindere dai consumi effettivi. A Barcellona un pranzo in trattoria costa mediamente 15 euro. A Roma 20, a Milano 30, se va bene. Una birra a Barcellona costa 2 euro, a Roma 5. Un filone di pane costa in Spagna 60 centesimi, contro l’euro del prezzo medio italiano. Una corsa in taxi, in Spagna (nelle città più piccole), va dai 2 euro richiesti per i piccoli tragitti ai 10 euro per tragitti più lunghi. A Madrid una corsa in taxi dalla stazione ferroviaria di Atocha fino all’aeroporto di Barajas (circa 16 chilometri) costa 20 euro. A Firenze ci vogliono 20 euro per percorrere in taxi i sette chilometri che separano il centro città dall’aeroporto, senza contare il supplemento per i bagagli. Tra parentesi, a Madrid sono presenti circa 12.000 taxi. A Roma sono 6.250, a Firenze non saprei, ma così a occhio, direi che arriviamo a stento alla metà della metà. In Spagna le borse di studio universitarie, se assegnate, vengono elargite con puntualità svizzera, non con i ritardi secolari delle università italiane, che le rendono inservibili (chi ha avuto a che fare con l’ignobile ISU milanese, se è sopravvissuto all’esaurimento nervoso, potrà dire qualcosa in proposito). I fondi spagnoli per l’università vengono effettivamente investiti in laboratori di ricerca a disposizione degli studenti, mentre in Italia finiscono nelle mani dei baroni universitari che li ripartiscono tra i propri uffici, costringendo spesso gli studenti a pagarsi da soli perfino le fotocopie. La benzina, in Spagna, costa il 7-8% in meno che in Italia. L’IVA è al 16%, contro il 20% italiano. Eccetera eccetera.

Molti obiettano che la Spagna ha sfruttato, per la propria crescita, i fondi comuni della Comunità Europea, fondi a cui ha contribuito molto meno di altri paesi, tra cui l’Italia. E’ vero. Ma è anche vero che la Spagna ha saputo utilizzare i fondi europei con un po’ più di onestà e oculatezza. La Spagna ha, sì, sperperato molto denaro nel potenziamento del settore immobiliare, il che si rivelerà, tra non molto, la sua rovina, non appena le conseguenze del crack del settore si faranno sentire appieno anche in Europa (nei primi mesi del 2008 ne vedremo delle belle). Ma ha anche investito in grandi opere infrastrutturali, potenziando aeroporti come il Barajas di Madrid, che ha surclassato Fiumicino nella classifica dei maggiori poli aeroportuali europei. Ha investito in centrali per energia eolica e solare, che consentono oggi agli spagnoli di avere a disposizione energia a prezzi estremamente contenuti. Ha utilizzato i fondi europei per la promozione massiccia del turismo, valorizzando il proprio patrimonio storico e culturale, portando la propria compagnia di bandiera, Iberia, nell’alleanza One World con British e American Airlines e facendone un punto di snodo fondamentale nel traffico aereo con l’America Latina; questo mentre in Italia i turisti fuggono impauriti dai prezzi esorbitanti e dal degrado dei nostri centri storici e mentre il governo italiano sta ancora cercando un acquirente distratto a cui sbolognare il bidone Alitalia. La Spagna ha offerto agli imprenditori stranieri che volessero investire nel paese non solo la possibilità di disporre (ahimé) di manodopera a infimo costo – come in Italia, del resto – ma anche agevolazioni fiscali e sovvenzioni fino al 30% dell’investimento totale.

Anche l’Irlanda, che fino a 15 anni fa era un’economia quasi sottosviluppata, oggi, sfruttando con oculatezza le sovvenzioni dell’UE, è riuscita ad inserirsi in molti settori strategici del mercato globale: elettronica, industria farmaceutica, trasporto aereo, con compagnie low-cost come la RyanAir che hanno rivoluzionato, grazie a prezzi bassissimi, il mercato dei voli europei, rendendoli accessibili a tutte le fasce di reddito.

Se l’Italia ha dato maggiori contributi ai fondi comuni, non è certo per solidarietà verso gli altri paesi o per attingere ad essi in funzione di un progetto di sviluppo. E’ solo perché i nostri politici sapevano bene che quei soldi, sottratti alla collettività, sarebbero tornati nelle loro tasche come bottino pronto per la spartizione, reso più difficilmente rintracciabile dalla triangolazione con l’UE. Basterebbe dare un’occhiata all’inchiesta Why Not? condotta da De Magistris – prima di essere zittito dai giudici collusi con Prodi e con la sua banda del buco – per capire dove siano andati a finire, nel nostro paese, i fondi UE assegnati all’Italia: 318 milioni e 104 mila euro finiti nelle tasche di Mastella e della mafia, a sovvenzionare aziende fantasma per la gioia degli intrallazzieri DS, sprecati in rotonde inutili, viadotti mai terminati, centri commerciali semideserti e opere detestate e boicottate dalla popolazione, come la Tav in Val di Susa.

Di fronte alla notizia del “sorpasso” spagnolo, i grandi enti sovranazionali (come la BM e l’FMI, in mano ai banchieri anglo-israeliani) sono accorsi a mettere bende sul nostro onore ferito. L’Italia, del resto, è il paese più obbediente e servile che le suddette istituzioni possano annoverare tra i propri maggiordomi. Non sarebbe stato saggio, da parte loro, lasciare affogare nel disonore collaboratori così utili eppure già così screditati. Occorre, di tanto in tanto, gratificare i propri scherani se si vuole che continuino a perseguire il progetto eurocentrico che toglierà ogni sovranità agli stati nazionali europei per assegnarla al potere bancario centrale. Dopotutto, l’Italia può vantare un Presidente del Consiglio che è stato (e forse è ancora) consulente della Goldman Sachs, alla quale ha generosamente svenduto, a prezzi stracciati, buona parte del patrimonio industriale del paese (Iri, Buitoni, Invernizzi, Ferrarelle, Locatelli, ecc.); un presidente di Bankitalia (Draghi) anch’egli ammanicato con Goldman Sachs, della quale è stato per anni il vicepresidente; un ministro delle finanze (Padoa Schioppa) ex membro del Comitato Esecutivo della BCE e affiliato al gruppo bancario-massonico Bilderberg, attualmente utilizzato nella funzione di procacciatore di sangue dei contribuenti ai vampiri giudeo-americani; un ex direttore dell’FMI (Lamberto Dini) che oggi scalpita per far cadere il governo Prodi e tornare ad accaparrarsi le redini dell’amministrazione, al solo scopo di soddisfare le richieste (meno tasse alle imprese, più tasse e meno soldi agli operai) con cui l’FMI mira a strozzare l’Italia vantando il proprio credito nei suoi confronti.

Con una simile schiera di serventi devoti, non è difficile capire perché BM e FMI siano così ansiosi di cancellare l’onta della debacle italiana, difendendo gli esecutori più fedeli contro quelli più furbi. Perché è questo che distingue gli spagnoli dagli italiani: non l’essere meno servi dei vampiri europei, ma l’essere servi meno fessi.

E comunque: meno fessi fino a un certo punto. Oggi i giornali traboccano di apologie del “modello spagnolo” e di rosee previsioni sul suo futuro economico. Ne riparleremo tra qualche mese, più o meno – faccio un pronostico – in corrispondenza delle elezioni politiche, quando la disintegrazione del sistema finanziario, innescata dalla crisi dei mutui subprime, entrerà nella sua fase critica. Nonostante il PIL in crescita e qualche investimento azzeccato, la Spagna ha vissuto fino a oggi (come tutti i paesi poveri che si mettono la giacca buona per sembrare ricchi) sulla bolla immobiliare, quella che è esplosa alcuni mesi or sono. Tutti i paesi che hanno fondato la propria crescita su questa colossale truffa speculativa, sono economicamente già morti. Solo che non sanno ancora di esserlo. Dal 1997 fino al 2006 i prezzi delle case spagnole erano aumentati del 130%, il doppio che negli USA. Un record assoluto. Come avvenuto in tanti altri paesi, anche i mileuristas spagnoli (cioè i salariati a 1000 euro al mese) si erano indebitati fino al collo con mutui a tasso variabile, che durano fino a 50 anni, per “comprarsi” l’appartamentino al centro di Valencia. Ma l’esplosione della bolla immobiliare ha provocato un brusco rallentamento del mercato della casa e un crollo delle vendite che, già a fine 2006, si attestava intorno al 40% in meno rispetto all’anno precedente. Le case già acquistate perdono di valore, mentre l’aumento dei tassi d’interesse praticati dalla BCE, oltre a provocare un’ulteriore fuga degli acquirenti, sta rendendo sempre più insostenibili le rate dei mutui a tasso variabile alle famiglie di lavoratori salariati, già indebitate per il 120% del loro reddito. Le insolvenze legate ai mutui stanno per far esplodere anche il sistema bancario spagnolo, con un botto assai più fragoroso che altrove, essendo gli istituti iberici sovraesposti coi mutui per cifre complessive maggiori di quelle degli altri paesi europei. Da questa crisi in arrivo, la BCE non li salverà. La direttiva comunitaria vieta infatti alla Banca Centrale Europea di intervenire in soccorso delle banche nazionali, che si troveranno dunque sole ad affrontare il collasso. E dovranno farlo con le misere riserve disponibili, che la Spagna, nel 2002, aveva ridotto da 41,5 a 13, 2 miliardi di euro. Un ombrello bucato per affrontare l’uragano. Come ogni altro paese aderente all’euro, la Spagna non avrà alcuna possibilità di svalutare la propria moneta per far fronte alla crisi. Se a questo si aggiunge il debito del settore privato spagnolo con l’estero, che ammonta ad almeno 600 miliardi di dollari, e l’indebitamento delle aziende che ha ormai superato il 100% del PIL, si avrà un segnale abbastanza preciso di ciò che sta per succedere: un crollo economico di proporzioni imponenti che permetterà alla BCE di irregimentare anche il traballante orgoglio spagnolo nei lacci soffocanti della sovranità economica assoluta dell’eurocrazia.

E l’Italia? Che ne sarà dell’Italia, con i suoi governanti da osteria, con il suo debito pubblico stratosferico, con le sue infrastrutture assenti, con i settori più avanzati del suo sistema industriale ormai digeriti e defecati dai grandi banchieri internazionali, con le sue industrie rimanenti che vivono di incentivi per la rottamazione e di sovvenzioni statali? Che ne sarà dell’Italia, rimasta a vantare, come ultimo settore produttivo di qualche rilievo, il ridicolo Made in Italy, buono per gli scialacquii modaioli dei periodi di vacche grasse, non certo per il disastro finanziario globale che incombe?

Datemi retta: all’Italia è meglio non pensare.

Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net
Link: http://blogghete.blog.dada.net/archivi/2008-01-02
2.02.08

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