IL SIGNORE DELLE MOSCHE

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DI GIANLUCA FREDA
Blogghete!

Mai visto un ottobre con tante mosche. E’ a mia memoria del tutto inconsueta la pervicacia con cui questi neri, pedantissimi insetti s’incarogniscono quest’anno contro la plebe all’opra china. Esse frullano per la stanza angusta, in melatonico e pruriginoso andirivieni. Attecchiscono implacabili al sottomento, alla palpebra sussultorea, al mastoide sorpreso. Sfidano con temerarietà aviatoria gli scappellotti della turba maledicente, le manate all’aria della composta assemblea, le imprecazioni del salumaio operoso alla madonna sariola. S’affastellano l’una all’altra in raggruppamenti kamasutrici, laidi e stupefacenti. S’esibiscono in leziosi andirivieni pulviscolari, in arcitroccoli puntiformi di vonrichtofeniana spavalderia. Sciamano e ronzano. Partono e tornano in frottante improntitudine. Vincono le elezioni in Sicilia.

L’entomologo timorato di Dio congettura senza tema di smentita, a fronte del bòmbito assordante di legioni di calliforidi in fregola, la presenza putida di una o più carcasse eviscerate in fase di marcescenza avanzata. O magari di un’unica e sola carcassa puteolente, ma di ragguardevoli dimensioni. Una nazione morta meriterebbe più rispetto. Dov’è il viandante compassionevole che ricopra del suo mantello le spoglie segaligne dell’Italia defunta, per sottrarle alle intemperie e all’oltraggio dei turpi bigatti? Dove la vergine pietosa, che distenda sul viso ulcerato dalle larve e dai grilli l’onesto crespo vedovile, umido di pianto?

Le mosche non hanno colpa se un organismo politico nazionale non giunge alla fine naturale del suo ciclo biologico, ma muore prematuramente per predazione. Sono un effetto, non una causa. Esse festinano sulla scissione degli elementi costitutivi dei tessuti. Accorrono in fremente bailamme alla rarefazione mortifera di quell’impalpabile e indefinibile sistema relazionale di regole ed aspirazioni collettive che costituisce la vita di una nazione. La vita biologica, come quella politica, non è che una tacita convenzione tra unità senzienti, le quali decidono di immaginare una stessa cosa, uno stesso destino. Quando una ragguardevole moltitudine (diciamo il 52% di un corpo elettorale regionale) sopprime o sospende l’immaginazione, la rete della vita politica si sfilaccia, si contrae, si riempie di vuoti. E in quel vuoto accorrono, a sciami, le mosche.

Le mosche non sono malvage. Neppure il loro signore lo è. Sono però cretine, rumorose e fastidiose. Nel loro programma politico si dichiarano convinte che il principale problema dell’istruzione italiana, ridotta ad un intorcinamento di futile burocrazia pseudo-pedagogica e psicologismo aggrinzito, che andrebbe spianato col caterpillar per ricostruirci sopra un qualche barlume di senso, sia la mancanza di internet nelle scuole e di lingua inglese negli asili. Tu credevi che il dramma delle nuove generazioni fosse l’overdose mortifera di chat e videotrastulli youtubici, che le ha rese oligofreniche oltre ogni speranza d’intervento specialistico, e invece no: le mosche sono convinte che si debba rincitrullirle di più, incatenandole al monitor, a pestare tasti, anche durante l’ora di geometria. Tu credevi che la lingua nazionale fosse l’italiano e che l’inglese fosse quella dei colonizzatori che ci hanno sottomesso. Tu credevi, dopo aver corretto questa settimana una ventina di elaborati d’italiano strabordanti di preucupante, di infrangiere, di rinbonbare, di Don Ambondio, che l’emergenza prioritaria fosse quella di salvare l’idioma nazionale dall’asfissia. E invece no: le mosche sono convinte che si debba, innanzitutto, salvare l’inglese dall’imprevista flessione di deferenza da parte dei colonizzati.

Le mosche sono innocenti, ma la loro presenza è il sintomo che qualcosa di orrido e nauseabondo si cela a pochi passi da te. Tu leggi la sezione “Stato e cittadini” del loro programma, esondante dell’ossessione per i parlamentari e per i loro privilegi, e senti un tanfo fetente, sai che qualcosa, da qualche parte, è morto e se ne sta nascosto in qualche anfratto della casa, ricoperto di vermi. Hai il terribile sospetto che si tratti dell’intelligenza politica collettiva, la quale, appena una quarantina d’anni or sono, sembrava tanto vigorosa da poter sfidare l’eternità. La consapevolezza che l’onestà e la morigeratezza non sono necessariamente qualità indispensabili per un politico – così come non lo sono per un neurochirurgo o un entomologo – non sembra più sfiorare la plebe vociante. Così come la banale considerazione che la corruzione e i privilegi, pur esteticamente rivoltanti a vedersi, non sono neppure lontanamente la causa della rovina del paese o anche soltanto un contributo ad essa. E che chiunque scriva un programma fondato su queste bambocciate, non sta cercando di fare politica, ma di dissolverne, consapevolmente o no, ogni rimasuglio biologico, com’è lecito attendersi da ogni mosca che si rispetti. In un tempo non lontano, queste elementari nozioni di teoria politica venivano assimilate dalle giovani generazioni assieme al latte materno. Le stesse nozioni le ritroverete prima o poi, con atterrita sorpresa, in un anfratto della cantina o in una breccia della canna fumaria, con le interiora annerite e gli occhi strabuzzati al cielo. Le mosche saranno lì, come un monito nero, a segnalarne l’avvenuto sfacelo.

Le mosche sono un vespertino memento mori, foriero dell’angosciosa consapevolezza che tutte le facoltà intellettive, nell’eterno divenire delle cose, sono prima o dopo destinate alla rigidità cadaverica e alla putrescenza. Ad esempio la facoltà di comprendere che non si ricostruisce una casa crollata restaurando i mattoni, uno per uno. Non si restaura l’istruzione pubblica con le connessioni adsl (le quali, per inciso, sono una delle poche cose che perfino gli istituti scolastici senza più graffette fermacarte evitano di farsi mancare); non si ripara una politica energetica ridotta in briciole – dopo la rinuncia al nucleare, lo smantellamento dell’Eni, la dissipazione, per verminosa piaggeria verso i dominanti assassini, dei vantaggiosi accordi con Libia, Iran e Russia – con fantasiose normative sul “pagamento a consumo dell’energia termica nei condomini”; non si ripara un sistema dell’informazione ormai asservito nel modo più escrementizio ai paraninfi statunitensi con i pannicelli caldi dei ripetitori Wimax e dell’abolizione dell’ordine dei giornalisti. Per ricostruire occorre prima sgomberare, coi cingolati, il terreno dalle macerie e dagli scarafaggi umani che sciamano su di esse. Sottolineo: coi cingolati, in senso letterale, non con il battito di migliaia di piccole e inutili ali. Poi occorre un progetto politico, che ripensi tutto, ma proprio tutto, a partire da zero. A partire dalla stessa concezione di “democrazia”, ancora riguardata come un faro di evoluzione e progresso, pur essendo, in realtà, una calamitosa vessazione di guerra, impostaci con le bombe e i massacri dai vincitori dell’ultimo conflitto globale. In un sistema democratico, la democrazia sarebbe stata ripudiata con comprensibile disprezzo, quale dono avvelenato di nemici crudeli, dall’Italia postfascista, non ancora rimbecillita dalla propaganda catodica.

La metamorfosi vera, se e quando arriverà, non avrà la carezzevolezza di un frinire estivo, ma il rombo terribile di mille bulldozer, il fragore di un milione di carabine, l’odore di tonnellate di piombo e polvere da sparo che deflagrano all’unisono. La riconoscerete, potete esserne certi. Se sentite un semplice ronzio, allora sono solo mosche.

Le mosche non sono insetti inutili. Servono la natura e il fluire ondivago del suo incessante rinnovarsi. Laddove la carcassa d’antica gloria nazionale rancidifica e fermenta, esse giungono anaerobiche ad illarvare, rimuovere, scarnificare, scheletrire, scindere con asburgica acribia acidi propionici e butirrici, così che l’eterno ciclo di sepoltura e rinascita delle civiltà possa proseguire il suo corso. Il fatto che siano del tutto inconsapevoli della funzione rigeneratrice che svolgono non è sorprendente. Dopotutto sono solo mosche.

Deprecabilmente, non sempre operano su organismi il cui decesso sia accademicamente certificato. A volte sono esse stesse a procurarne la morte clinica su commissione altrui, senza ovviamente saperlo, perché sono mosche. Così, sciamando a miriadi su un corpo agonizzante, esse garantiscono che i tessuti ulcerati non si cicatrizzino, che i muscoli sfibrati non si ritonifichino, che l’umor nero livido trasudante dalle carni non si riassorba; e che l’animale, garrottato da norcino maldestro e dunque esitante al trapasso, si convinca quanto prima dell’opportunità e ineluttabilità di quest’ultimo. Non vorrete mica che la birbantaglia “tecnica”, gioiosamente insediatasi ai vertici amministrativi dello Stato e devozionalmente celebrata dai suoi stessi sacrificandi, si faccia da parte per lasciare il posto ad una coalizione politica vera, portentosamente concottatasi, in un ultimo metrito d’istinto vitale, nell’imminenza della fine?

Il rischio è minimo, è vero, ma esiste. Le mosche sono qui apposta per riportarlo a zero.

Perché tutte le mosche meritevoli del loro titolo esistono per ricordare a tutti che la Bestia non è qualcosa che si possa cacciare e uccidere. La testa ghignante del loro leader, infitta su un birignoccoluto paletto di ciliegio, richiama con lugubre egutturazione il pellegrino tremulo, sussurrandogli, dall’inferno, alle orecchie spaurite: “Lo sapevi, no?… che io sono una parte di te? Vieni vicino, vicino, vicino! Che io sono la ragione per cui non c’è niente da fare? Per cui le cose vanno come vanno?”.

E la notte è sempre più nera e non serba memoria delle sue mosche.

Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.altervista.org
Link: http://blogghete.altervista.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=914:il-signore-delle-mosche&catid=25:politica-italiana&Itemid=44
31.10.2012

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