La ricostruzione dei danni ingentissimi subiti negli ultimi dieci anni dal patrimonio archeologico del museo di Baghdad in un recente volume di Frederick Mario Fales, «Saccheggio in Mesopotamia»: oltre ottomila pezzi trafugati dalle sale e dai magazzini, diverse migliaia di manufatti danneggiati durante la razzia
DI CARLO ZACCAGNINI
Il 16 gennaio 1991 era giorno di luna nuova: alle 22 aveva inizio l’operazione Desert Storm 1, accuratamente pianificata da Mr. Bush padre contro il dittatore Saddam, una volta venuta meno la sua funzione di bellicoso antagonista dell’integralismo iraniano. Dopo otto anni di guerra (novembre 1980 – luglio 1988), costata almeno un milione di morti, la situazione tra i due paesi confinanti era tornata esattamente al punto di partenza. Saddam però non serviva più e venne rapidamente scaricato dai suoi ex mandanti politici (e fornitori di armamenti, convenzionali e non): la sconsiderata invasione del Kuwait (2 agosto 1990) fu l’evento iniziale che determinò le sorti del rais e la rovina del suo paese. La pioggia di missili che quella notte si abbatté su Baghdad, illuminando con straordinari effetti cromatici la totale oscurità del cielo, fu splendidamente filmata dalle emittenti televisive e diffusa in tutto il mondo. La fine della Tempesta venne annunciata da Bush senior il 28 febbraio, giorno di luna piena: Kuwait City era stata liberata dalla soldataglia irachena e si decise di non proseguire le operazioni militari sino alla conquista di Baghdad e all’eliminazione del suo despota.Gli effetti dell’embargo
Vennero però inasprite le sanzioni economiche, decretate dall’Onu subito dopo l’ingresso delle truppe irachene in Kuwait: è l’inizio del lungo embargo (in arabo: hissar, che letteralmente significa «assedio», «chiusura senza via di uscita»), che nel corso di dodici anni soffocherà il paese e la sua gente. Ma, di riflesso, è anche l’inizio della sistematica distruzione del patrimonio archeologico e storico-artistico iracheno, divenuto oggetto di saccheggi, furti e commerci illegali, una volta venuto meno il servizio di vigilanza sino ad allora capillarmente assicurato dal Dipartimento delle Antichità. I danni diretti, imputabili alle operazioni militari della coalizione, furono tutto sommato di modesta entità, ma gli effetti collaterali – a breve, medio e lungo termine – furono devastanti: l’assalto ai vari musei archeologici regionali e l’asporto indiscriminato dei materiali ivi custoditi dette il via a una caccia al tesoro, condotta sull’intero territorio da una moltitudine di esperti tombaroli, perfettamente al corrente della inesauribile richiesta di materiale archeologico da parte del mercato antiquario. In assenza di ogni controllo e con la complicità di trafficanti interni ed esterni, un flusso ininterrotto di reperti si è riversato in Occidente: esperti di scritture cuneiformi, sigilli e altra oggettistica d’arte approntavano ben remunerate expertise a garanzia dell’autenticità e del valore commerciale dei pezzi.
Sono fatti ormai ben noti, ma che vale la pena di riconsiderare in dettaglio, soprattutto alla luce del nuovo spettacolare disastro avvenuto tra l’8 e il 12 aprile 2003: il saccheggio del Museo di Baghdad. La cronaca – convulsa, frammentaria e discorde – di quei drammatici avvenimenti è stata ora meticolosamente ricostruita, in rigorosa ed esaustiva sequenzialità, da Frederick Mario Fales, docente di Storia del Vicino Oriente antico all’università di Udine (Saccheggio in Mesopotamia. Il Museo di Baghdad dalla nascita dell’Iraq a oggi, Forum, pp. 470, ? 32). Fales non si limita alla cronaca e ricostruisce l’intera storia del museo, a cominciare dalla sua inaugurazione nel 1927 da parte del re Feisal I, sovrano di un Iraq sotto mandato britannico, sino agli anni del regime saddamita, che si riappropria del suo passato preislamico ed enfatizza, in toni che sconfinano nel grottesco, la propria identità culturale come paese «culla della civiltà».
Torniamo ai fatti. Il 18 marzo 2003 era giorno di luna piena: i primi missili americani indirizzati contro postazioni militari e installazioni di rilevamento radar localizzate nel sud del paese dettero inizio all’operazione in grande stile di Desert Storm 2, fortemente voluta da Mr. Bush figlio. L’avanzata delle truppe della coalizione procedette verso nord senza incontrare particolare resistenza da parte irachena e il 6 aprile le avanguardie del V corpo d’armata fecero il loro ingresso a Baghdad. Il ricordo di quanto era avvenuto durante e dopo la «Tempesta n. 1» aveva messo in allarme studiosi e istituzioni internazionali, che si affrettarono a sottoscrivere messaggi, risoluzioni e appelli per la salvaguardia del patrimonio culturale iracheno messo in «grave pericolo» dall’«azione bellica» della coalizione – firme e proclami del tutto velleitari e inascoltati. Già nei primissimi giorni di aprile 2003, quando i militari americani non erano ancora giunti nella capitale, appariva evidente che la minaccia più grave era il saccheggio generalizzato e l’esportazione clandestina delle antichità di ogni tipo disseminate per ogni dove, sopra e sotto il suolo iracheno, un saccheggio che non avrebbe risparmiato le grandi e piccole collezioni custodite nei vari musei regionali. Queste previsioni purtroppo si verificarono puntualmente, nella totale incapacità di vigilanza e protezione da parte del Comando centrale alleato, cui spettava il controllo dei centri urbani. L’ondata di furti e rapine scatenatasi sull’intero Iraq centro-meridionale raggiunse il culmine nel saccheggio del Museo di Baghdad, quando ormai le truppe americane si erano assicurate il pieno controllo della città.
Perdite inestimabili
La razzia vera e propria iniziò all’alba di giovedì 10 aprile e continuò indisturbata sino alla sera di sabato 12; venerdì 11, al culmine del saccheggio, venne richiesto l’intervento dissuasivo di un tank statunitense posizionato a poca distanza dall’ingresso del Museo: la risposta del militare affacciatosi alla torretta del mezzo corazzato fu: «Sorry Sir, siamo soldati, non poliziotti».
A un anno e mezzo di distanza, le perdite subite dal Museo sono state dettagliatamente quantificate e descritte da Fales. Ecco le cifre. L’insieme dei manufatti conservati nei vari dipartimenti museali ammontava a un totale di circa mezzo milione di pezzi. In previsione della Tempesta, gli oggetti di maggior pregio furono prelevati e messi al sicuro nei caveau della Banca centrale (616) e in altri luoghi segreti (8.366): questi manufatti sono stati interamente recuperati. Nelle sale espositive del Museo erano rimasti circa 1.100 pezzi: a tutt’oggi ne mancano 57. Ben più gravi sono le cifre relative ai materiali conservati nei magazzini: su un totale di circa 490.000 manufatti, le stime più aggiornate ne registrano il trafugamento di 8.560. A tutto ciò si devono aggiungere varie migliaia di oggetti danneggiati o distrutti nella frenesia del saccheggio.
Chiunque possa aver concepito e pianificato la razzia, le modalità operative e gli obiettivi perseguiti dagli esecutori materiali del saccheggio sono ormai chiari. Una moltitudine di predoni generici, anonimi partecipanti alla indiscriminata jacquerie cittadina, asportò tutto quanto era a portata di mano negli uffici e nei locali espositivi del museo, fracassando armadi, vetrine, scaffali, (e i materiali ivi custoditi) e disperdendo libri, registri, cataloghi e schede in un irrefrenabile furore distruttivo. Qualche ladro d’arte alle sue prime esperienze pensò bene di portare con sé pezzi unici e capolavori assoluti dell’arte mesopotamica quali la celebre «Dama» e l’altrettanto famoso «Vaso» di Uruk, spingendosi addirittura a trasportare dalla galleria del primo piano un manufatto in bronzo (la cosiddetta «statua di Bassetki») del peso di 130 chili. Era fin troppo ovvio che per oggetti del genere non c’era alcuna possibilità di commercializzazione e difatti nel giro di pochi mesi dame, vasi e bronzi sono riemersi dai loro provvisori nascondigli e riconsegnati (dietro compenso?) alle autorità del Museo.
Ben diverso è invece lo scenario relativo al trafugamento dei pezzi conservati alla bell’e meglio nei magazzini. Qui non si tratta più di masse affamate e inferocite che asportano alla rinfusa sedie, tavoli, telefoni, lampade e lampadine, ma di gente che a va a colpo sicuro e fa man bassa di oggetti di piccole dimensioni ma di rilevante valore commerciale: soprattutto tavolette cuneiformi e sigilli cilindrici.
Le cifre della rapina
Indipendentemente dall’importanza documentaria di questo materiale, proviamo a fare un calcolo approssimativo delle dimensioni economiche della rapina, basandoci sulle cifre fornite da Fales. Rientra nel totale degli 8.560 oggetti un’intera collezione di 4.800 sigilli cilindrici; a questa cifra possiamo ragionevolmente aggiungere almeno duemila tavolette cuneiformi e qualche centinaio di altri sigilli. Ipotizziamo dunque, per semplicità e per difetto, una refurtiva globale di settemila oggetti di pregio: a seconda dei casi, il corrispettivo incassato dagli esecutori materiali del furto oscilla da una decina a qualche centinaio di dollari a pezzo. Si può dunque calcolare che il saccheggio dei magazzini del Museo abbia fruttato ai rapinatori una cifra dell’ordine di 350.000 dollari: a titolo di confronto, si tenga presente che, fino a marzo 2003, lo stipendio mensile di un professore ordinario all’Università di Baghdad corrispondeva a quindici dollari. Va da sé che le cifre pagate dai collezionisti europei, americani o giapponesi, destinatari finali della refurtiva, devono essere per lo meno centuplicate rispetto alla base di partenza: arriviamo dunque a un valore di mercato di trentacinque milioni di dollari.
Lo scempio del Museo è l’epitome e il simbolo della rovina del paese, della sua passata fortuna, delle sue memorie e della sua identità storica e culturale. Nell’epigrafe introduttiva del libro, Fales riproduce il brano di una celebre composizione letteraria sumerica che descrive e commenta la distruzione del paese di Sumer e della città di Ur, avvenuta intorno al 2000 a.C. Qui invece, si propone la rilettura di alcuni passi di un altro celebre testo letterario sumerico, La maledizione su Akkad, che narra il sorgere e la caduta del primo grande impero mesopotamico – quello di Akkad, tra il 2330 e il 2200 a.C.
La scena: appunto il Paese di Akkad, cioè il territorio compreso tra il Tigri, l’Eufrate, il Golfo Persico e le montagne dello Zagros e del Tauro – in altri termini, l’odierno Iraq – e in particolare la città di Akkad, capitale del Paese (il sito non è stato ancora trovato ma era situato non lontano da Baghdad).
I personaggi e gli interpreti: (1) Il re potente del Paese di Akkad, signore e despota, superbo e arrogante rispetto alla superiore autorità degli dèi: Naram-Sin (2254-2218 a.C.) – in arte Saddam Hussein; (2) Il dio Enlil, arbitro supremo delle fortune e delle sfortune del Paese di Akkad – in arte George Bush (padre o figlio, a scelta); (3) La popolazione di Akkad – iracheni di ogni tipo; (4) I Gutei: tribù dei monti reclutate dal dio Enlil per invadere e distruggere il paese – nome d’arte: le forze armate della coalizione.
Sogni premonitori
Veniamo all’azione. Naram-Sin aveva avuto un sogno premonitore che gli annunciava il venir meno del favore e del sostegno divino e l’incombente rovina del suo paese: «Egli capì (il sogno) ma lo ricacciò indietro e non ne parlò con nessuno». Trascorre il tempo; il sovrano si rivolge ai suoi indovini, ma la risposta dei presagi continua ad essere negativa: il dio Enlil non ha mutato parere. Esasperato, Naram-Sin ignora il volere del suo dio e decide addirittura di attaccare e distruggere l’Ekur, il santuario massimo di Enlil nella città di Nippur (mutatis mutandis, sarebbe come se uno invadesse il Kuwait o fabbricasse armi di distruzione di massa o, addirittura, si rendesse complice dell’attacco alle Due Ziqqurat di New York). A questo punto scatta la vendetta del dio Enlil, da lungo tempo decisa e accuratamente programmata: «La tempesta ruggente che riduce al silenzio l’intero paese, il diluvio che monta e contro il quale nessuno può opporre resistenza – il dio Enlil: dal momento che il suo amato tempio Ekur fu distrutto, che cosa avrebbe lui dovuto distruggere come vendetta? Si rivolse dunque alle montagne di Gubin e decise di far scendere da lì, come fossero un unico gruppo, le molteplici tribù di quei monti. I Gutei, non classificati come esseri umani, non facenti parte del paese, gente che non conosce freni di nessun tipo, viso da uomo, intelligenza da cane, fisico da scimmia… Enlil li fece uscire dalle montagne ed essi come stormi di cavallette ricoprirono il paese… Gli uomini che un tempo erano di guardia al loro paese furono messi in ceppi; i briganti si appostarono lungo le strade; le porte delle città furono abbattute nel fango… Chi dormiva sul tetto moriva sul tetto; chi dormiva in casa non riceveva sepoltura; ridotti alla fame ci si azzuffava l’un contro l’altro… I cani si radunavano nelle strade silenziose … Gente onesta era confusa con chi diceva menzogne; il sangue di chi mentiva scorreva sul sangue degli onesti… Le vecchie non potevano trattenere (il loro grido): `Ah, la mia città!’; i vecchi non potevano trattenere (il loro grido): `Ah, la nostra gente!’».
Carlo Zaccagnini
Fonte:www.ilmanifesto.it
22.12.04