di Francesco Veronesi
«Gli Stati Uniti stanno compiendo un genocidio, e lo stanno facendo volontariamente. 100.000 morti? Nessuno saprà mai il numero esatto»
«È stato un massacro. Il mio battaglione era stato dispiegato in una zona periferica di Baghdad. Qui avevamo allestito un posto di blocco. Gli ordini erano precisi: sparare alle macchine che non si fossero fermate al nostro segnale di alt. Nel giro di quarantotto ore abbiamo ucciso trenta civili. Dentro le loro automobili non abbiamo trovato nessuna arma. Abbiamo finito il lavoro gettando i loro corpi in una fossa, come ci era stato ordinato dai nostri superiori». Jimmy Massey (nella foto) parla con distacco dell’inferno che ha visto e vissuto in prima persona in Iraq. Le sue parole sono misurate, il tono della sua voce è calmo e piatto, il suo sguardo molto spesso si abbassa a guardare le sue mani, mani che hanno sparato e ucciso altri esseri umani. Quando venne richiamato negli Stati Uniti, nel dicembre del 2003, il sergente Massey del corpo dei Marines venne colpito da una forte crisi depressiva. «Non ci sono medicine per poter curare le ferite dell’anima: sono sfregi interiori che rimarranno per sempre».
Jimmy Massey, 33 anni, dodici dei quali spesi nell’Esercito, è giunto a Toronto in occasione dell’inizio delle udienze presso l’Immigration and Refugee Board di Jeremy Hinzman, il soldato americano che, dopo essersi rifiutato di partire per l’Iraq, è fuggito dagli Stati Uniti e sta cercando ora di ottenere asilo politico in Canada. Massey porterà le sue esperienze vissute in Iraq di fronte alla commissione, per ribadire che «la guerra fatta dagli Stati Uniti è illegale e rifiutare di parteciparvi è un diritto». «Ho fatto parte del corpo dei Marines per dodici anni -racconta l’ex soldato – in questo periodo ho avuto molti compiti, ho partecipato a varie missioni. Nell’inverno del 2002, nella nostra base nel North Carolina, iniziammo un’esercitazione specifica sulla guerriglia urbana che durò parecchie settimane. Quindi la preparazione venne incentrata sulla chiusura e il sabotaggio di pozzi petroliferi: nelle esercitazioni utilizzavamo le mappe di Ar Rumaylah, una località meridionale dell’Iraq. Il 2 gennaio ricevetti la telefonata dai miei superiori: sarei stato dislocato in Kuwait, in una missione top secret».
«Arrivammo in Kuwait il 22 gennaio. In tutto eravamo circa 1.200 marines. Qui iniziò la nostra preparazione specifica per l’invasione dell’Iraq. A metà febbraio 2003 eravamo pronti, aspettavamo da un giorno all’altro l’ordine per iniziare l’attacco». Le operazioni di guerra partirono il 22 marzo e Massey si trovò sin da subito in prima linea. «Non ci furono grossi problemi – ricorda – la resistenza che ci trovammo di fronte era male armata, disorganizzata. I vertici militari hanno parlato dell’uso di armi intelligenti, capaci di centrare obiettivi specifici con grande precisione. In realtà fin dall’inizio del conflitto l’esercito americano fece un largo utilizzo di “cluster bomb” e bombe al napalm: era facile vedere civili iracheni morti sui bordi delle strade, completamente dilaniati, sfigurati, divorati dai vermi e dalle mosche».
Il punto di vista di Massey sull’intervento in Iraq ha vissuto con il passare dei mesi una parabola tipica di molti altri suoi commilitoni. Partito dagli Stati Uniti con la convinzione «che l’Iraq avesse armi di distruzione di massa e che il regime di Saddam andasse neutralizzato» con il passare delle settimane la sua posizione è radicalmente cambiata.
«La nostra avanzata verso nord procedeva senza troppi intoppi – ricorda l’ex sergente – il mio battaglione fu assegnato alla presa di Salman Pak, quello che secondo la stampa americana doveva essere un campo d’addestramento per terroristi e che in realtà era il centro dell’Intelligence irachena: la struttura era occupata solamente da civili, ma questo lo scoprimmo solamente in un secondo momento. Il blitz scattò di notte, entrammo dentro e iniziammo a sparare all’impazzata, come “cowboy”, uccidendo chiunque vedessimo di fronte a noi».
«Nei dintorni di Salman Pak, la mattina seguente, le mie convinzioni iniziarono a vacillare. Ci stavamo riposando, io ero stremato, stavo cercando di scaricare tutta l’adrenalina accumulata la notte precedente. Un uomo iracheno mi venne incontro, con il figlio in braccio. Il bambino avrà avuto non più di due anni. L’uomo si avvicinò e mi mise in braccio il figlio. In quel momento realizzai l’assurdità di quello che stavo facendo: l’umanità di quel gesto, fatto da uno sconosciuto contro il nostro folle atteggiamento, mi aprì gli occhi. Mi guardai allo specchio. Avevo il volto completamente sporco di sabbia, il sudore che mi colava dalla fronte e le mani impastate di sangue: ero un mostro, ero un demone e lo sarei stato per sempre».
Ma per il sergente Massey il precipizio che porta dritto all’inferno non finì quel giorno. «Con il passare delle settimane la situazione continuò a peggiorare. Durante una manifestazione pacifica organizzata su un ponte nella zona dell’aeroporto della Capitale sentimmo esplodere alcuni colpi che passarono sopra le nostre teste: aprimmo il fuoco sulla folla fino a quando non si mosse più nulla. Andammo a controllare i cadaveri: erano tutti civili disarmati. Tra loro c’era un bambino di sei anni, colpito da un proiettile in mezzo alla fronte. Il giorno successivo, nel consueto briefing con la stampa, i vertici militari definirono l’episodio come “un’azione contro un gruppo di ribelli” e i media lo riportarono come tale. Ora la mia domanda è questa: come si può definire quello che abbiamo fatto come “un’azione contro dei ribelli”? Cosa ci farebbe un bambino di sei anni in mezzo a dei terroristi? Il signor Bush può forse darmi una risposta? Lo possono fare i vertici militari?».
Il giorno successivo accadde un nuovo, sconvolgente episodio. «Eravamo di turno in un posto di blocco su una autostrada, nella periferia di Baghdad. Una Kia con quattro persone a bordo non si fermò al nostro segnale di stop: aprimmo il fuoco contro i quattro occupanti. Solo uno rimase ferito di striscio, gli altri tre morirono poco dopo. Ho ancora di fronte l’immagine di questo uomo, la rabbia e la dignità del suo volto: uscì dalla macchina con le mani in alto e si avvicinò a noi. “Perché avete ucciso mio fratello? – chiese – Cosa vi abbiamo fatto? Perché avete sparato?”. Nessuno di noi rispose, nessuno di noi avrebbe potuto farlo. Controllammo a fondo il veicolo, dentro non c’era nessuna arma. Queste persone non erano ribelli, non erano terroristi, non costituivano alcuna minaccia. Sono state semplicemente assassinate».
Il tono di Massey diventa più duro. Non riesce più a controllarsi, a tenere dentro il senso di colpa e la rabbia. «Dobbiamo uscire da un luogo comune che ci viene ripetuto tutti i giorni: non siamo portatori di pace, non siamo liberatori. I marines hanno un unico scopo: uccidere e distruggere. Questo è il nostro lavoro, questo è il nostro mestiere, questo è ciò che ci insegnano. Non abbiamo compiti umanitari, non facciamo azioni di peacekeeping: il nostro obiettivo è semplicemente uccidere e distruggere, siamo pagati per fare questo».
Il calvario di Massey finì nel dicembre del 2003, quando fu rispedito a casa a causa di «una forte depressione e disordini dovuti a stress post-traumatico». Da quel momento ha lasciato il corpo dei Marines e ha deciso di aderire al movimento pacifista. «Gli Stati Uniti stanno diventando una nazione di guerra. I ragazzi e le ragazze delle classi sociali a basso reddito si arruolano perché è l’unico modo per poter guadagnare qualche soldo: per poter studiare, per poter essere indipendenti dai genitori. In certe realtà locali la scelta di entrare nella Guardia Nazionale o di fare carriera nell’esercito è l’unico modo per potersi costruire una vita. Io sono stato per dodici anni nel corpo dei Marines: anche nel mio caso la scelta non fu dettata da convinzioni ideologiche, ma dalla situazione economica. Avevo semplicemente bisogno di soldi».
L’esperienza vissuta in Iraq segnerà per sempre Jimmy Massey. Ma non sono stati solamente gli episodi di sangue a sconvolgere il suo modo di pensare. «È assurdo come si sta comportando la stampa in Iraq. Nessuno sta raccontando veramente il conflitto, ma semplicemente vengono riportate le notizie che sono passate dall’esercito. La maggior parte di queste sono finzioni, bugie, dati e numeri sbagliati. I giornalisti sono “incorporati” nell’esercito, seguono le azioni dei soldati dall’interno dei carri armati e vengono portati laddove hanno deciso i vertici militari».
«Il numero dei civili uccisi a causa del nostro intervento è altissimo – conclude Massey – alcune stime parlano di almeno 100.000 vittime. Credo che un dato certo e definitivo non potremo mai averlo. Bisogna tenere conto delle decine di migliaia di persone che muoiono di stenti. Di una cosa comunque sono certo: in Iraq stiamo commettendo un genocidio, e lo stiamo facendo volontariamente».
Fonte:Corriere Canadese (www.corriere.com/viewstory.php?storyid=34075)
6.12.04
Un articolo simile, datato 11 Novembre 2004 presumibilmente derivante da una conferenza precedente, si trova, in Inglese, sul sito del World Socialist Web Site (http://www.wsws.org/articles/2004/nov2004/vet-n11.shtml)